Furiosa: A Mad Max Saga di George Miller
Il luogo dell’arte
di Daniela Turco
Sarei forse più sola /senza la mia solitudine; inizia con queste parole una poesia di Emily Dickinson, che sembra rispecchiare lo stesso iter e il destino di Furiosa, l’ultimo segmento e anche il più teorico, della lunga saga di Mad Max filmata da George Miller, nell’arco di oltre quattro decenni.
La struttura di Furiosa che si muove sulla falsariga della linea genealogica di The Godfather Part 2 di Francis F. Coppola – tra i film dichiaratamente più amati da Miller -, ritorna indietro, fino all’infanzia, per sostenere con la forza di un racconto di formazione, l’apparizione perturbante di Charlize Theron che in Fury Road (2015) con i capelli rasati e il braccio meccanico di metallo sembrava uscita direttamente dalle pagine del Manifesto Cyborg di Donna Haraway.
George Miller con questo ultimo film, l’ultimo tratto di una serie che fin dall’inizio con Interceptor(1979) estremizzava una storia di frontiera inserendola nella cornice di una catastrofe senza speranza, lavora nell’intreccio fiabesco di una storia di formazione, soffermandosi nello stesso tempo su quegli aspetti del cinema in dialogo con la pittura, con la letteratura, e con il desiderio di incontrare di nuovo nelle proprie immagini quel cinema che più da vicino, un tempo, lo aveva “riguardato”. Era stato Martin Scorsese in un’intervista su Liberation di diversi anni fa a sostenere che avrebbe voluto girare i suoi film come un pittore realizza un quadro: “lasciar stare una tela incompiuta e cominciarne un’altra” e “fare autoritratti sempre più piccoli”. Penso che questo “piccolo autoritratto” di George Miller che si intitola Furiosa sarebbe piaciuto molto a Giuseppe Turroni, che nelle pagine di Filmcritica è stato il critico che ha esplorato con più acutezza e passione i confini tra cinema e pittura, per lui meritevoli di attenzione in quanto “in nessuna cinematografia, al pari di quella americana, l’arte è protagonista e interprete, non soltanto dal punto di vista tematico e narrativo, quello insomma del pretesto, non solo da quello della figurazione strutturale, ma anche dentro e attraverso quella concettualità e matericità delle scelte creative per cui ad esempio il ritratto di Jeannie (1948) di William Dieterle, Il ritratto di Dorian Gray (19459 di Albert Lewin, (autore del pittoricissimo e iper-manierista Pandora), appaiono come realtà inventive autonome, profondamente radicate nel luogo dell’arte”. [1] Seguendo quindi la lettura di Turroni, in Furiosa, ad esempio, la presenza del dipinto preraffaellita Ila e le ninfe del pittore John William Waterhouse, che in una sequenza viene riprodotto in affresco all’interno di Gastown – insieme alla Cittadella uno dei pochi presidi abitati nel deserto -, pur non essendo in sé particolarmente significativa, e funzionando nel film più come elemento di contrasto, di pura scheggia di decadentismo vittoriano scivolata per caso nel dominio della sopraffazione più brutale, rappresenta comunque un segnale di quella lezione dell’arte che per Turroni percorreva il cinema americano in profondità perfino nel genere western, in Ford, in Hawks, in Wellman, non come semplice schema o appiglio figurativo, cioè, ma come essenziale prassi connotativa. In Furiosa, comunque, il “luogo dell’arte” è molto più vasto e disperso, va cercato altrove, là, dove si dissemina, con intermittenze da ologramma, nello stesso spazio del deserto, nella stessa grafica degli scontri tra la Cittadella, Gastown e Bullet Farm, che di per sé diventa, nei geroglifici tracciati dagli automezzi e dalle moto sulla sabbia dorata e nei razzi segnaletici che vengono fatti esplodere in aria, tingendola di colori primari, un work in progress, un’opera in movimento e in metamorfosi situata al confine tra l’happening e la Land Art.
Analogamente, dopo l’amputazione che Furiosa si è auto-inferta per liberarsi dalle catene che la imprigionavano, è nell’incontro fra la carne e il metallo di un nuovo braccio tecnologico, costruito da lei, che si materializza l’immagine di un cyborg che può avviare una nuova soggettività femminile e femminista. E’ lo stesso nuovo aspetto del corpo di Furiosa a farsi espressione di una body art estrema – il quinto cavaliere dell’Apocalisse, o la “Cosa Favolosa” – come dirà il suo antagonista Dementus, nel momento in cui dopo un lungo inseguimento, viene catturato da lei. Secondo il percorso teorico compiuto da Donna Haraway, nel modello cyborg il corpo non sarebbe quindi né fisico, né meccanico, né puramente linguistico, ma funzionerebbe piuttosto come un contro-paradigma che accoglie fino in fondo l’interazione tra corpo e macchina, con la stessa temeraria progettualità concettuale che si può ritrovare in alcune opere realizzate da artiste come Cindy Sherman, Rebecca Horn, o Laurie Anderson, un’esplorazione creativa ed estrema che riguarda l’innesto possibile/impossibile tra mondi lontani situato al cuore del gesto artistico.
Ma, per arrivare a tutto questo, è necessario ritornare all’inizio di Furiosa, quando il filo del tempo riavvolto all’indietro mostra quando, come, e soprattutto dove, in quale luogo, tutto è iniziato, e attraverso quali avventure e terribili traumi una bambina di nome Furiosa si è potuta trasformare in seguito nell’altera imperatrice ribelle che in Fury Road rifiutando il dominio patriarcale deciderà di sottrarre le mogli a Immortan Joe, per andare con loro alla ricerca del Green Place. E’ lì infatti che il film inizia, quando la catastrofe ecologica si è già consumata in un futuro remoto, sintetizzata in poche immagini di distruzione, che mostrano una terra desolata, dove The Green Place, appare come un’oasi nascosta nel deserto, con acqua, piante, frutti, dove la vita è ancora possibile, un luogo reale dal quale la bambina viene sottratta e la cui mappa dovrà incidere in seguito sul proprio braccio per poterci un giorno tornare. Nello stesso tempo, ma su un altro piano, si crede che questa valle dell’Eden possa rappresentare anche altro per George Miller, un serbatoio segreto di memorie, dove si raccoglie tutto il cinema visto, sognato e amato da ragazzo e dove il regista a sua volta cerca attraverso il film di fare ritorno. Per questo, Miller decide di lavorare intensamente sullo spazio, per poter risalire al tempo, disegnando le linee prospettiche su cui lanciare la corsa sfrenata delle motocisterne, gli inseguimenti delle moto e delle auto, per poter ritrovare così le immagini favolose di William Wyler – Ben Hur, soprattutto, che ritorna anche nelle cavità sotterranee -, insieme alle immagini di Ford, di David Lean, di Walsh, e alla classicità dei loro sguardi posati sul deserto, costeggiando perfino a tratti la tensione sessuale di Russ Meyer e del Quentin Tarantino di Death Proof, evidente nell’inseguimento finale tra le dune di Furiosa e di Dementus, anche per uno stesso modo di liberare la violenza nascosta all’interno dei soggetti femminili.
Scegliere di mettere al centro del film una bambina irriducibile, piena di immaginazione come Furiosa, che dall’infanzia (nell’interpretazione di Alyla Browne) passa all’età adulta (Anya Taylor-Joy) completamente sola e prigioniera in un mondo ostile, per Miller significa anche ritornare su un motivo a lui caro, già esplorato in Mad Max oltre la sfera del tuono, in cui Mad Max aiutava un gruppo di ragazzini selvatici che lo avevano salvato a inseguire il loro sogno, e nello stesso tempo restituire all’infanzia quella dimensione inventiva e avventurosa che le è propria, ma, esplorata questa volta dalla parte delle bambine, inserendo nella declinazione al femminile, qualcosa di molto personale.
In un’intervista a cura di David Fear apparsa nel maggio 2024 su Rolling Stone, George Miller parlava infatti di sua madre, nata negli anni venti del Novecento, in Australia, come del modello di cui si era servito per creare Furiosa. Nata in una famiglia numerosa, nonostante la sua viva intelligenza, non aveva potuto studiare, ma aveva imparato a cucire e a fare la sarta e Miller rende apertamente omaggio alla sua abilità, in Furiosa, quando la bambina confeziona con i propri capelli una parrucca che le permetterà di sfuggire agli assalti predatori all’interno della Cittadella. E’ lì, nascosta, nei cunicoli della Cittadella che la bambina può diventare grande, in silenzio, completamente sola, mimetizzata tra gli altri meccanici addetti alla blindo-cisterna.
I film di George Miller, a dispetto delle apparenze, non hanno mai un andamento lineare, e, in particolare, la saga di Mad Max, che nella sua interezza si muove nell’orizzonte astratto di uno spazio vuoto, post-catastrofico, di un deserto attraversato da spirali e linee rette, dove è sempre lo scarto di ciò che non si vede a rompere la continuità, e a ribaltare le cose, come la piega che nasconde ai confini del deserto un impossibile Eden, o i crepacci che si aprono nel sottosuolo, rivelando altri mondi, altre vite, fino allora invisibili. C’è sempre nell’opera del regista e in questo film particolarmente, un primato conferito allo sguardo, al vedere, come mezzo attraverso il quale si va costruendo anche molto dolorosamente un’identità adulta. Furiosa perde di colpo l’infanzia davanti alla morte della madre, brutalmente uccisa da Dementus, con l’intera scena che viene filmata riflessa nella pupilla dilatata della bambina, l’occhio in primo piano, che non può smettere di guardare. Mentre più avanti nel film sarà sempre attraverso il montaggio di una serie di sguardi fulmineamente scambiati con il pretoriano Jack (Tom Burke), alla guida della blindo-cisterna, che nelle pupille dilatate di Furiosa /Anya Taylor-Joy, può finalmente bruciare qualcosa di completamente altro e opposto all’odio. Passa allora in queste immagin, come una carezza, uno strano romanticismo trattenuto che riporta a certe pagine dei romanzi di avventura di Robert Louis Stevenson (qui, in particolare, La freccia nera), quando Jack, alla guida, durante l’assalto alla motocisterna vede Furiosa davanti a lui con i lunghi capelli sciolti, e improvvisamente comprende che il meccanico muto è in realtà una donna, così come in quel libro accadeva a Dick con John/Joan. Oppure, dopo gli scontri, quando Jack le ricuce con delicatezza una ferita sulla spalla – George Miller fino agli anni 80 aveva lavorato come medico di pronto soccorso negli ospedali del Queenland in Australia -, e vede per la prima volta la costellazione disegnata sul braccio della ragazza che indica la strada per tornare a casa. La stessa scansione in “capitoli” del film richiama, in chiave avventurosa-stevensoniana, l’ombra densa della letteratura, che come quella dell’arte, non è mai periferica, ma centrale, non semplice contingenza, ma sostanza, nel registro comune del “vedere”. Anche questo rende Furiosa. A Mad Max Saga un capitolo molto particolare, probabilmente in grado di sussumere tutti gli altri, sia per ragioni politiche che estetiche. Mettendo in Furiosa al centro del quadro una bambina irriducibile e tenace, disposta a lottare, George Miller non solo dimostra di continuare a credere spavaldamente in un mondo che non potrà che venire salvato dai ragazzini e dalle donne, ma, precisamente come Jean Luc Godard, anche di continuare a immaginare il cinema come luogo remoto e leggendario che appartiene a una mitica età dell’oro, una favolosa isola del tesoro, cinema come infanzia dell’arte.

[1] Giuseppe Turroni, “Il luogo dell’arte”, in Americana 4, Quaderni di Filmcritica, Bulzoni Roma 188, p. 449