Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores
La seducente simmetria del meta-testo. Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores
di Vittorio Giacci
“I sogni ad occhi aperti sono notturni balli in maschera in pieno giorno.”
Arthur Schnitzler
Il dispositivo diegetico e auto-riflessivo della mise en abyme, che permette non solo di fare dei film ma anche di parlare di Cinema facendolo, dunque di esplicitare nell’esibizione del set quello che altrimenti rimarrebbe circoscritto all’interno del plot cioè quei codici e quei canoni che figurativizzano un’idea di cinema in immagine significante, è un’istanza del discorso filmico che ha permesso a tanti cineasti (e sono, non incidentalmente, quelli a me più cari) non soltanto di raccontare ma di raccontarsi, esponendosi in prima persona in quanto creatori di un personale universo espressivo visualizzato in linguaggio e segno, struttura e figura.
Da Truffaut con Effetto notte; da Fellini con 8 ½; da Keaton con Il cameraman; da Vidor con Maschere di celluloide; da Wilder con Viale del tramonto; da Donen-Kelly con Cantando sotto la pioggia; da Godard con Il disprezzo, da Kazan con Gli ultimi fuochi; da Edwards con Intrigo a Hollywood; da Tornatore con Nuovo cinema Paradiso; da Scorsese con Hugo Cabret; da Lizzani con Celluloide; da Minnelli con Due settimane in un’altra città; da Scola con Splendor; da Wenders con Lo stato delle cose; da Bogdanovich con Vecchia America; da Paolo e Vittorio Taviani con Good Morning Babilonia; da Altman con I protagonisti; da Hitchcock, in modo ancor più interiorizzato, con La donna che visse due volte, ri-visitazione spettrale del Reale come essenza specifica di quest’arte.
Con Il ritorno di Casanova, ispirato al racconto omonimo di Arthur Schnitzler ma anche a Doppio sogno, si unisce a questa nobile compagine di realizzatori e, insieme, di studiosi, Gabriele Salvatores, autore sempre in cerca dei suoi personaggi che già si era distinto in tale fattispecie narrativa con il suo primo lavoro Sogno di una notte d’estate, messa in scena di una messa in scena, proseguita poi con Turné, Comedians, Kamikazen, Happy Family.
Un’esperienza svolta precedentemente anche in teatro con una giovanile direzione artistica, Helzapoppin’, in anticipo nella costruzione di una relazione poli-espressiva tra i diversi media come nuova metodologia che non privilegiasse più la parola sull’immagine ma neppure la sola immagine sulla parola, per superare tali egemoni prerogative rischiandone la commistione, come strumenti non più antitetici ma cumulativi, secondo gli insegnamenti della più aggiornata sociologia della comunicazione.
Helzapoppin’ si iscriveva in questo orizzonte mediatico proponendo inter-testualmente la libera re-interpretazione di un classico del cinema comico nonsense, il film omonimo di H. C. Potter (a sua volta riduzione per lo schermo di un testo teatrale) ma rielaborandolo per sedimentazioni semantiche di una ricca tradizione, con espliciti riferimenti al nonsense per antonomasia dei fratelli Marx per giungere a Woody Allen e ai Blues Brothers; a simboli del gag puro come Harold Lloyd; a dichiarate referenze al musical di Fred Astaire, Ginger Rogers e Gene Kelly; senza tralasciare sottili rimandi fra cui quello del “quadro bianco” delle “follie italiane” dove la musica era quella composta da Nino Rota per l’altrettanto classico sulla relazione fra Realtà e Sogno, Verità e Artificio, che è Lo sceicco bianco di Federico Fellini.
Il “matrimonio” cine-teatral-televisivo di Helzapoppin’ non si limitava a questo soltanto poiché sperimentava le infinite possibilità d’integrazione fra spazi e tempi differenti; fra messa in scesa teatrale e ripresa televisiva; fra recita sul palcoscenico e riproduzione su schermo, monitor e visori; e non solo “in differita”, con immagini registrate in precedenza bensì “in diretta”, con la telecamera a spiare e ad offrire al destinatario ciò che avveniva sul proscenio e, contemporaneamente, dietro la ribalta, con altrettanti punti di vista, campi d’osservazione, scomposizioni di prospettiva.
Personaggi in scena e dietro le quinte, al di qua e al di là del sipario o di una porta; attori che apparivano sul palco dopo essere stati intravisti nel retropalco; commedianti che conversavano con se stessi; “totali” di interpreti sul palco e “dettagli” in video delle loro espressioni: questi solo alcuni degli effetti di un ricorso intelligente al mezzo elettronico.
“Ho pensato di usare nello spettacolo la televisione – aveva dichiarato il regista – perché è il mezzo più legato al rapporto finzione/realtà, al Doppio e alla sua duplicazione.” (1)
Con un simile intreccio rappresentativo il teatro chiudeva con la tirannia della “quarta parete” e si apriva a soluzioni sceniche e linguistiche sempre più avanzate e rinnovatrici.
Il ritorno di Casanova, meta-film nel significato più compiuto, enuncia apertamente, a partire etimologicamente già dal titolo, la propria peculiarità meta-linguistica mostrandone la distintiva modalità di comunicazione che altro non è se non, appunto, un ripetibile ritorno dallo spazio e dal tempo, re-visione che si riattua ogni qualvolta si proietti una pellicola, nella sospensione dell’incredulitàe nella correlata presunzione di credibilità, certamente illusoria ma volontariamente accettata, da parte dello spettatore, di assumere per vero il verosimile, quindi che ciò che vede scorrere davanti ai propri occhi “avvenga” logisticamente e cronologicamente, qui e ora, mentre “è avvenuto”, al contrario, altrove e allora.
Il tempo del film (le riprese) e il tempo nel film (l’azione) si codificano, magicamente, in croyance, accogliendoli entrambi in una medesima dimensione che sembra non sfuggire, persistenza di un presente “in memoria” riproducibile ovunque e all’infinito.
Nella duplice simmetrica seduzione del meta-testo, ovvero del bi-valente appagamento di visione e riflessione, in questo film concepito e svolto tutto nel segno del Doppio (ma storicamente il cinema, nel suo essere insieme, Copia e Originale, non è sempre un Doppio?), Salvatores, in una bi-polarità che riemerge in modo attivamente flagrante anche nel suo film più recente Napoli-New York, qui applica nuovamente, nel rigoroso dualismo di un filo connettivo ed auto-decifrativo comune alla sua intera filmografia, quel secondo grado della scrittura, già magistralmente effettuato nell’opera/Oscar Mediterraneo, meta-rappresentazione di una compagnia di attori – nella finzione, nel ruolo di soldati – che improvvisamente smarriscono il copione e, con esso, senso e scopo della loro interpretazione. E ciò avviene, in questo caso raccontando di due personaggi che si intersecano e si attivano vicendevolmente, tra le apparenze di un film da fare e le problematicità della sua fabbricazione.
Il primo è una figura realmente esistita, quella di Giacomo Casanova (Fabrizio Bentivoglio), il quale torna da anziano nella sua città natale, Venezia, dopo un lungo esilio seguito alla rocambolesca evasione dai carcere dei Piombi e dopo aver peregrinato per le Corti di mezza Europa seminando fama di magnifico seduttore, e qui ritrova vecchi amici e antichi amori ma è costretto a rispecchiarsi nella impietosa immagine della propria incombente vecchiaia.
Il secondo è una figura di finzione, quella di Leo Bernardi (Toni Servillo), un affermato regista che tutti chiamano Maestro ma ormai a fine carriera, il quale sta girando un lungometraggio sul celebre libertino ma è in crisi di ispirazione, investito anch’egli dall’incalzare della gioventù che se ne va e dai rancori e rimpianti che ne conseguono.
Entrambi tornano a Venezia, l’uno, dopo essersi autonominato Cavaliere di Seingalt, per occuparsi della cosa pubblica (collaborando con il Consiglio dei Dieci), l’altro per concorrere alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Intercorre tra loro una simmetrica corrispondenza emotiva, duplicata in una connettività che sfocia quasi in sovrapposizione, come avviene in un sogno o in un incubo rispetto allo stato di veglia.
In questo doppio sogno/doppio film combaciano eventi e situazioni, emozioni e stati d’animo, negli atteggiamenti del primo che cerca disperatamente di sottrarsi al decadimento fisico e al declino materiale, e in quelli del secondo, che non riesce più a esprimersi nella propria attività, e tutto avviene all’insegna di quel “doppio” di cui Schnitzler è stato sommo analista, nelle frustrazioni e nelle nevrosi di protagonisti le cui disavventure si riflettono nelle rifrazioni di un reciproco, complementare e inquietante Alter Ego.
Casanova vuole possedere Marcolina (Bianca Panconi), nipote dell’amico ritrovato Olivo (Alessandro Besentini), una giovane dal carattere indipendente che studia matematica e disquisisce su Voltaire; non ama i conventi, i Principi della Terra e le Istituzioni dello Stato; non anela al matrimonio; ritiene che il mondo sia turbato da egoismi e ambizione e considera che umiltà e ribellione vengano ugualmente da Dio, ed è conscia dei passaggi cruciali di una nuova epoca che sta per irrompere nei tornanti della Storia.
Casanova la brama per verificare il permanere del proprio fascino a dispetto dell’età ma ne viene respinto in favore del giovane e prestante tenente Lorenzi (Angelo Di Genio).
Bernardi, specularmente, è prigioniero di una complicata situazione sentimentale, basata anch’essa, inizialmente, sul potere di attrazione della propria professione, con Silvia (Sara Serraiocco), una spigliata contadina conosciuta durante le riprese, con la quale ha un difficile rapporto che si deteriora quando irrompe la notizia di un’inattesa paternità.
E se l’uno deve subire l’umiliante confronto con il suo giovane avversario, l’altro deve affrontare la rivalità generazionale dell’emergente regista Lorenzo Marino (Marco Bonadei), colmo di esuberante, giovanile -e invidiata- energia e che gode più di lui dell’apprezzamento della critica.
Il timore dell’impotentia coeundi di Casanova nei confronti della Vita si riverbera cross-medialmente nell’impotentia generandi di Bernardi nei confronti dell’Opera, di cui si disinteressa dopo aver montato la sequenza d’inizio, frastornato dai volenterosi stimoli di Gianni (Natalino Balasso), suo montatore di fiducia, che insiste in tutti i modi affinché la pellicola venga terminata per proteggerne la dignità artistica, e dalle pressioni di Alberto (Antonio Catania), il produttore che pretende ugualmente che essa sia pronta per il Festival anche per evitare il proprio fallimento.
Il film sarà finito da Gianni, mirabile presenza di “ripetitore” shakespeariano/lubitschiano a cui Salvatores affida il compito, per interposto personaggio e in modo indiretto e mediato, di esternare, scavando nei grovigli emotivi, negli interstizi – direbbe Barthes – (2) dell’indole, sia i comportamenti e i sentimenti del personaggio, sia i convincimenti autoriali.
“Segreti e solitudine ti uccidono” dirà Gianni a Leo confidandogli il suicidio del proprio padre e mettendolo di fronte, forse per la prima volta, alle proprie responsabilità sia di uomo che di artista.
In questo film che ha il gusto di un moderno dittico si genera così una connessione di due esistenze, nello sguardo unificante dell’autore nel suo replicante ruolo di Osservatore/Mostratore che prosegue nel precipitare delle rispettive crisi.
La crisi di virilità che investe Casanova a seguito del suo maldestro tentativo di trascorrere una notte d’amore con Marcolina, quand’ella scopre con sdegno e muta riprovazione il misero marchingegno escogitato per sostituirsi al suo inarrivabile contendente: uno scambio di persona carpito a compensazione di un debito di gioco che si risolverà in un duello in cui sarà il giovane a perdere la vita ma che a Casanova apparirà come l’uccisione della propria stessa giovinezza.
La crisi di ispirazione che affligge il regista impedendogli di concludere il film dopo essere stato lasciato da Silvia, un evento talmente sofferto da farlo sprofondare in una depressione che produce l’ulteriore conseguenza di una rivolta dei sensori dell’ apparato domestico che si dimostrano così sensibili agli umori del proprietario da mandare in tilt ogni utensile del suo iper-tecnologico appartamento, quasi che la casa stessa volesse ribellarsi al suo scoraggiamento, come tenta di avvertirlo un idraulico bene informato sulle degenerazioni della domotica le quali, in tale contesto, risuonano anche come un accorato allarme dell’autore, già investigato in Nirvana, sui rischi di una realtà virtuale e di un’intelligenza artificiale tanto debordante da mettere sempre più ai margini l’operatività umana, e sui pericoli di un post-umanesimo i cui tratti distintivi sono velocità e automazione.
E’ una prigione che li riguarda tutti e due, vittime di una fama seduttiva intrisa di compiacimento edonistico-narcisista che li travolge e li consuma, ed è un transfert così fortemente emblematizzato da configurarsi in una trasferibile compresenza -nella già evidenziata costruzione in abisso – di stato esistenziale e stato strutturale, tra Realtà e Rappresentazione, dunque tra Arte e Vita, visivamente manifestata nellla coabitazione estetica del binomio colore e b/n, tra le pittoriche policromie dell’epoca settecentesca e la bicromia dell’era cinematografica, assunta quest’ultima a effetto fantasmatico e immaginifico di tono anti-naturalistico. Come osserva Nancy: “l’immagine è sempre immaginata.” (3)
A tale doppia scelta fanno da inappuntabile contrappunto sonoro, doppio anch’esso, le sontuose armonie del Barocco, da Vivaldi (il dramma in musica Farnace; il concerto in Sol per flauto La notte) a Monteverdi (L’Orfeo), da Boccherini (Passa Calle da La musica di notte delle strade di Madrid) al Pachelbel di Canone in Re che si replicano palesemente in due brani della musica contemporanea, Rain and Tears degli Aphrodite’S Child di Vangelis e A wither Shade of Pale dei Procol Harum; e le ritmiche melodie della modernità, da Keep the Streets Empty for Me della cantante svedese Fever Ray, a Piano Man di Billy Joel, dalle variazioni jazz di Paolo Fresu e Uri Caine, alla ri-visitazione della tradizionale ballata scozzese Scarborough Fair nella versione del folk-singer Matt Williams ma che fa anche parte, nell’esecuzione di Simon & Garfunkel, della colonna sonora de Il Laureato di Mike Nichols, una delle pellicole più innovative degli anni Sessanta.
E se “il senso di un film – come sostiene Merleau-Ponty – è incorporato al suo ritmo” (4), questo requisito Salvatores, nella sua particolare grafia di invenzione, al di là della composizione delle inquadrature (Italo petruccione) e del montaggio delle sequenze (Julien Panzarasa), lo rivela, da esperto di musica oltre che bibliofilo/cinefilo, proprio nella colonna sonora, con una selezione musicale, fortemente suggestiva. “La musica in questo film – sostiene l’autore a conferma della sua competenza – non è il cameriere che porge il piatto, è un suo ingrediente.” (5)
Toccherà poi al regista Bernardi evidenziare la vitale correlazione tra Vita e Cinema, durante una disagevole conferenza stampa quando, interrogato sul significato del suo film, afferma – rivestendo più che mai la parte di enunciatore interno – che “Casanova si chiede se ha ancora la forza di recitare il suo personaggio mentre lui si domanda se ha ancora il tempo per agguantare uno scampolo di vita.”
Che i film si parlino, oltre i loro limiti spazio-temporali e al di là dell’impermanenza delle opere e della vita stessa dei loro autori, è una convinzione che coinvolge Gabriele Salvatores anche in questo film che dialoga scopertamente, in un ammaliante dedalo inter-testuale di rimandi, citazioni e affinità, con il Casanova di Fellini e con quello di Scola ne Il mondo nuovo; con Psyco e L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock; con Barry Lyndon e Eyes Wide Shut di Kubrick; con I duellanti di Ridley Scott; e poi ancora con i film sull’amicizia virile di Ford e Hawks, fino ai droidi servizievoli e intraprendenti di Guerre stellari di Lucas, in una galassia di agenti iconici che si sublimano scambievolmente per impregnarsi di senso proprio e per rigenerarsi in processo autonomo, nello stile e nella personalità di chi li adotta.
E lo fa, affiancato dalla rimarchevole interpretazione di tutti gli attori (tra cui, nei panni del marchese Celsi, Elio De Capitani, suo sodale fin dagli esordi teatrali con la Compagnia dell’Elfo) in un percorso liberatorio e di introspezione dove si infrange la barriera narrativa della “quarta parete” cinematografica fondata sulla linearità impersonale dell’esposizione che oggettivizza a tal punto l’invenzione da mutarla in un “regime senza distinzione enunciativa” (così lo chiama Metz) (6) tale da renderla plausibile, mediante puntuali intrusioni auto-riflessive, salti cronologici e flash-back continui, risorse consone alla bi-temporalità del racconto (“un film sul tempo che passa” lo definisce il regista alter-egoBernardi) e alla bi-locazione del discorso.
E’ una seducente interazione iper-enunciativa che si raddoppia in quella del meta-testo il cui protagonista è tanto il personaggio quanto l’autore e laddove le riflessioni del primo coincidono con le auto-riflessioni del secondo.
Se Casanova, nella ri-costruzione filmica, incontra il pre-cinema rappresentato dal “mondo nuovo” del teatro ottico raffigurato nell’omonimo dipinto di Giandomenico Tiepolo e descritto dal Goldoni ne I Rusteghi, l’autore, nella suppletiva veridicità del film nel film, lo farà ritornare, dopo oltre due secoli, alla vita nell’incanto senza tempo dello schermo, e ciò durerà, come dichiara Bernardi, non per una oggettiva presunzione di perennità, ma, dialetticamente, finché vi sarà qualcuno che, soggettivamente e in piena complicità affettiva, lo vorrà vedere; se, con la medesima applicazione sentimentale, finito un film, se ne vorrà fare subito un altro senza dar tempo al tempo di interferire in tale voluttà di continuità, e finché la vita, per un cineasta, sarà accettabile solo quando si gira e, soprattutto, se si riuscirà ancora a dire, come diceva Hitchcock qui esplicitamente citato: “per voi quello che ho fatto è solo un film. Per me invece è tutta la vita.”
Ritorna prepotente l’interrogativo di François Truffaut, Il regista/studioso che ha fuso in un unico volume sia la più approfondita analisi su quell’autore sia il più convincente studio sulla natura di questa forma d’arte: “il cinema è migliore della vita?”
Gabriele Salvatores, in un film non strettamente autobiografico ma che probabilmente è quello in cui più parla di sé, vi ritorna tramite il regista Bernardi, sia quand’egli, conversando con il suo attore, una volta smessi i panni del personaggio, definisce l’imponderabile e misterioso rapporto Autore/Interprete come una sorta di “storia d’amore di cui ne possiede tutti i tratti”, sia quando, rimasto solo, di notte, sulla spiaggia dell’Excelsior al Lido, dopo che il Leone d’oro è stato vinto dal suo antagonista assunto a neo-beniamino della critica, riconquista l’amore di Silvia e sembra accettare il ruolo di padre e, con esso, di cineasta, ri-trovando il “piacere degli occhi” di tornare a farlo, il Cinema.
In tal modo Salvatores trasmette al proprio spettatore che forse l’idea che questa “invenzione senza futuro” – come ebbero incautamente a definirla i suoi inventori – ”costituisca una risorsa che può risultare un’accettabile ricomposizione di tale dicotomia, nel cinema quanto nella vita, in cui ciascuna entità può rendere l’altra migliore.
Nella collocazione privilegiata di un ex ergo si leggono i seguenti versi da La tempesta di Shakespeare: “Ora i miei incantamenti sono tutti spenti. La forza che possiedo è solamente nelle mie mani. Ed è poca.”
Sono parole che sanno di interpretazione autentica da parte dell’autore: adesso che, in questo sogno ad occhi aperti che dura per 24 fotogrammi ogni secondo, qualsiasi magia è caduta e le maschere sono state strappate, i personaggi di Giacomo Casanova e di Leo Bernardi, nei quali si ha il paradossale rovesciamento godardiano della storica divergenza tra Lumière (il documentario) e Mélies (il fantastico) per farli ri-entrare negli ambiti rispettivi ma convergenti di “pittori impressionisti” e di “documentaristi di attualità ricostruite”(7), possono finalmente fare i conti, rispettivamente, con il proprio tramonto e con il proprio futuro. Opera riepilogativa della sua precedente filmografia in cui Salvatores aveva ripetutamente cantato l’”elogio della fuga” come presa di distanza per meglio accedere all’identità.(8), Il Ritorno di Casanova si sofferma infatti ad osservare i personaggi sugli effetti di tale gesto che li accomuna pur nella diversità, per Casanova fuga nell’esilio del mondo, per Bernardi fuga dall’ispirazione e dalle responsabilità.
“Un nouveau jour se lève” faceva dire ai suoi interpreti Ariane Mnouchkine in quel capolavoro del teatro contemporaneo che è L’age d’or. E sarà quel che sarà. Senza alcuna certezza ma con qualche speranza.
What will be will be, come intona la fresca, indimenticabile e rassicurante voce di Doris Day.

- Gabriele Salvatores, in: V. Giacci, La lucida “follia” dei linguaggi incrociati, “L’Avanti!”, 2 giugno 1983.
- Roland Barthes, Caro Antonioni, in: “L’Archiginnasio d’oro a Michelangelo Antonioni”, Bologna, 1980.
- Jean-Luc Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Milano, 2002.
- Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano, 1962.
- G. Salvatores, La musica nel piatto (conversazione a cura di Piero Negri Scaglione), in: “8 ½,” n. 67, primavera 2023.
- Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Edizioni Scientifiche Italiane,Napoli, 1995.
- Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano, 1971.
- Henri Laborit, Elogio della fuga, Mondadori, Milano 2017.