I Wanna Be Your Slave di Simone Bozzelli
I Wanna Be Your Slave dei Måneskin
Nel segno dell’incontro tra Simone Bozzelli e Andrea Pastor.
di Sergio Arecco
I Wanna Be Your Tongue. Lingua. L’alingua di Lacan. Lo sciogli-lingua delle parole della canzone. Con tante dicotomie in campo. Schiavo/padrone (Hegel). Bravo ragazzo/gangster (Greene). Bello/mostro (Cocteau). Campione/perdente (Malamud). Peccato/redenzione (Goethe). David/Golia (Graves) Sex toy/insegnante (Nabokov). “Voglio farti venir fame e poi darti da mangiare” (Oldenburg). “Voglio dipingere la tua faccia come se fosse Monna Lisa” (Duchamp). Il lingham. La lingua all’orecchio. La lingua alla bocca. La lingua al microfono di Damiano. La lingua del travesti (nel film) Thomas. La lingua del contatto di corpi ignudi. Il bacio omo yoyo tra Damiano David e Thomas Raggi (stringa rossa che si allunga e li allontana e poi si riduce e li riavvicina). La lingua di Victoria De Angelis che lecca la mela dell’eden, ma non l’addenta. Kitsch. Fetish. Camp. L’alingua di Victoria de Angelis che lecca la mela dell’eden – un vizio replicato alla consegna degli Mtv Award 2023, sul cui palco, appena ricevuta la statuetta, le ha dato una sensuale leccata. L’alingua all’orecchio. L’alingua alla bocca. L’alingua al microfono di Damiano. L’alingua del contatto di corpi ignudi. Il corpo in frammenti di Lacan. Lo stadio dello specchio di Lacan. L’inconscio strutturato come un linguaggio di Lacan. Lacan che non c’entra niente. C’entra invece Ethan Torchio che si avventa sulla batteria. C’entra il riflesso verde marcio che dipinge e avvolge i Måneskin in scena. Conta l’a-scena. Conta l’o-sceno (fuori scena). Conta la piroetta. Conta l’incrocio. Il piano dal basso della para delle scarpe – piattaforma di vetro con vista rovesciata – come in un vecchissimo spot di Pippo Baudo su una marca di calzature. C’entra la parodia. C’entra il gioco. C’entra lo schermo ludico dell’enfant prodige Simone Bozzelli, classe 1994, che gira il videoclip (2021, colore) sovvertendo e invertendo, simula e dissimila, scopre e riveste, innesca un moto perpetuo compatibile con il movimento rock jungle del gruppo e volteggia con la mdp, s’insinua e si disinsinua, crudo, diretto, sporco, frontale e interstiziale, categorico e decategorico, come nel successivo Patagonia (2023), opera prima nerissima che più nera con si può, attraversamento della psiche e del feerico, circo e cinico (cinico tv, con mutande sporche e luridume vario, degrado e sublimazione), fiamma infantile e ribalderia adulta, urlo e furore, luce d’agosto e rivoluzione d’ottobre, liberazione e slavery, appunto. Redenzione e caduta. Milton. Il paradiso perduto. Il diavolo evocato in I Wonna Be Your Slave. Il diavolo che cerca redenzione. L’avvocato che cerca redenzione. L’assassino che cerca redenzione. Senza trovarla, a quanto pare. Poiché è l’a quanto pare il demone conduttore di Bozzelli, anche quando gira un video per un pezzo dei Måneskin, dopo avere girato una serie di corti magistrale e premiatissima. Dove, come in molte lingue e alingue, in inglese francese tedesca spagnola ma non in quella italiana, il pare, l’apparenza, equivale a sostanza, a evidenza, l’apparent vale risultanza diretta, realtà, non istanza fittizia e illusoria: vale visibile, chiaro, manifesto. Ersichtlicht direbbe “Goethe (“più luce”). Aparente, direbbe Cervantes, che pure è stato spettacolare maestro di apparenze e di finzioni, fingidor di circensi e burattini, del teatro di piazza e della fantasmagoria lubrica, del mondo e dell’immondo, del recitar cantando e del cantar recitando. Chissà perché i Måneskin ci ricordano tanto i Talking Heads (1974-1991), le teste parlanti e cantanti capitanate dal genio David Byrne, quattro anche loro, tre giovani e una giovane. Forse perché Victoria De Angelis evoca moltissimo Tina Weymoutht, tutte e due bassiste, tutte e due vulcaniche. Trent’anni dopo, i Måneskin ci aggiungono il gioco della maschera e del travestimento, del trucco e della mascalzoneria, della scorri-banda e della banda, della provocazione e della performance osée, sfacciata. Ma il senso è sempre quello. È sempre un senso stop making sense (Jonathan Demme, 1984), è sempre sconfinare dal senso comune, smettere di aver senso, di significare, e lambire il sovrasenso, là dove la lingua è davvero l’alingua – stavolta scomodiamo Lacan sul serio –, significante senza significato, significante puro, suono puro, gioco puro, colore puro, scena pura, favoleggiare puro, al di là delle antinomie citate nel testo, puri virtuosismi da scilinguagnolo. Se Bozzelli, come i Måneskin con i Talking Heads, ha dei referenti, questi possono essere i fratelli gemelli D’Innocenzo (Damiano, ancora un altro Damiano, e Fabio), quelli di Favolacce. Favolacciaro, pure lui, non favolista secondo tradizione. Come sono favolacciari i Måneskin oggi, lontani mille miglia dal loro trainante Torna a casa (2018), ancora alla Sergio Cammariere, ancora sentimentali, ancora narrativi. Poi i piercing, i capezzoli, le lussurie, il “corpo dannatamente elettrico” di I Wanna Be Your Slave. Il gangsterismo dell’ammiccante messa in scena di sé. Come in un vecchio musical hollywoodiano. Bulli e pupe scaltramente inoffensivi. Boys and Dolls (Joseph L. Mankiewicz, 1956). Bad (playfully) boys. Bad (playfully) doll.