Per Ilaria
di Daniela Turco
Scrivendo queste righe per Ilaria Gatti, mancata lo scorso dicembre, mi rendo conto di quanto ricordarla non sia semplice, come non è semplice abituarmi all’idea che non la vedrò più, a Venezia, per il festival, un appuntamento fisso, in settembre, per entrambe, o a Roma, nel bar accogliente di piazza Caprera, dove avevamo l’abitudine di incontrarci.
Ilaria aveva fatto parte per molti anni della rivista Filmcritica, ci eravamo infatti conosciute lì, nella redazione di piazza del Grillo, in cui Alessandro Cappabianca, suo grande amico e collega, come lei architetto, l’aveva introdotta verso la metà degli anni ‘90. Nonostante non fossimo proprio coetanee, Ilaria aveva qualche anno più di me, si era stabilito molto presto tra noi un contatto spontaneo, era sempre un piacere incontrarci e parlare, perché Ilaria era una persona rara da conoscere, per la sua gentilezza nei confronti di tutti, e per la grande energia vitale che aveva – il suo dono più personale – che sembrava inesauribile, soprattutto in questi ultimi anni in cui si era dovuta misurare con la durezza della malattia, alla quale giustamente non si voleva arrendere così facilmente. Da questo punto di vista il suo percorso è stato quello esemplare di una persona, un’amica, che di fronte alla malattia aveva comunque scelto di resistere giorno per giorno, con il lavoro, con gli affetti, con la sua curiosità del mondo e delle persone, con i suoi mille interessi, piuttosto che cedere semplicemente alla rassegnazione. In questo senso, questi suoi ultimi anni, per lei molto difficili, mi hanno trasmesso coraggio e, paradossalmente, mi hanno dato speranza; non credo che Ilaria, soprattutto durante lo scorso anno, si facesse molte illusioni, tuttavia non aveva mai smesso di reagire e di resistere, continuando a tenersi occupata, e per me è il senso stesso di questa sua lotta, a essere incredibilmente prezioso.


Figlia di una coppia di architetti, Ilaria aveva studiato a sua volta architettura, che restava per lei un campo di interesse primario, oltre ad essere stato il suo lavoro per anni – si era occupata infatti di edilizia pubblica – , in seguito si era anche impegnata in diversi progetti di riqualificazione delle periferie per il Comune di Roma. Ma, appunto, Ilaria era una persona molto viva e curiosa, con tante passioni diverse, che un unico ambito non poteva esaurire. Nasce, credo, di qui la collaborazione prolungata di Ilaria con Filmcritica, che le aveva offerto nella cornice di una rivista militante con frequenti riunioni di redazione, la possibilità di stabilire un confronto sul cinema e sui film con gli altri redattori, appassionante e continuato. Frutto di quel periodo e della sua rara capacità di rendere concreti e realizzabili i suoi progetti, compaiono, a sua firma, diversi libri dedicati soprattutto a registe: Jane Campion, Francesca Comencini, fino a Chantal Akerman, un segno dell’interesse che Ilaria sentiva per lo sguardo femminile, un altro aspetto che ci aveva legato.
Ricordo che quando nel 2019 era uscito il suo libro (con Alessandro Cappabianca), Chantal Akerman. Uno schermo nel deserto, Fefè editore, ero stata con lei a Firenze, per presentarlo nell’ambito del Festival di Cinema e Donne nell’autunno di quello stesso anno. Un libro significativo, con il grande merito, soprattutto, di aver raccolto e riordinato per la prima volta in Italia non solo tutti i film della regista belga, ma anche tutte le altre sue opere (libri, installazioni, mostre) che Chantal Akerman, con la sua particolare attenzione per le immagini in diaspora, aveva disseminato pressocché in tutto il mondo. E ora, mentre sto scrivendo, ricordo ancora con malinconia, una lunga passeggiata insieme a Ilaria sul lungarno, il giorno dopo la presentazione, nonostante la pioggia, per andare a rivedere insieme gli affreschi meravigliosi di Masaccio nella chiesa del Carmine.
Ma, come ho accennato prima, Ilaria aveva molte passioni, e nonostante scrivesse indubbiamente molto – aveva anche pubblicato un romanzo, La tenda color ruggine, dedicato a una villa in cui era cresciuta, messa al centro del testo, in epoche diverse, che legava ancora una volta insieme architettura, storie di vita, scrittura -, si sentiva nei suoi libri la presenza di qualcosa di non completamente espresso o risolto, un che di trattenuto, che in un certo senso ne costituiva anche il fascino. Poi, alcuni anni fa, Ilaria sempre guidata dalla sua voglia di sperimentare il nuovo, aveva cominciato a lavorare la creta e a fare delle sculture di ceramica, che all’inizio, almeno nei racconti che ne faceva, non sembravano andare al di là di una semplice attività che la impegnava e divertiva. Quando però alla fine del 2021 avevo visitato la sua mostra Le violon d’Ingres, nella Galleria Antica Fornace del Canova, nei pressi di piazza del Popolo, mi era bastato vedere alcuni dei pezzi esposti per capire che qualcosa per lei era radicalmente cambiato; Ilaria aveva veramente trovato qualcosa. Si trattava, di vasi e di teste di ceramica, ma anche di tazze, di piatti, di oggetti di uso comune, ma talmente investiti da una pura forza inventiva da imporsi come pezzi unici, tappe di un percorso completamente nuovo. E se nelle teste in ceramica, ispirate alla lontana ai vasi siciliani, erano ancora riconoscibili diverse tracce che si richiamavano alle opere di Licini, Birolli, Capogrossi, ecc., davanti a quei lavori mi ero sentita di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo, e inaugurale. C’è nei lavori di Ilaria una straordinaria ricchezza narrativa, finalmente completamente liberata, e quindi liberatoria, ricordo in quella mostra, in particolare, una piccola tazza, dai colori spenti, con certi azzurri e grigi invernali dispersi nel paesaggio, che possedeva la stessa intensità di una pagina scritta. Quella tensione che spingeva Ilaria a scrivere e a costruire un racconto, era riuscita a trasportarla interamente nella realtà plastica della creta, per trasformarla definitivamente attraverso tutte le fasi necessarie, quasi alchemiche, nei colori duri e brillanti della ceramica. La sua ultima mostra, Roboty, presso lo Spazio Mala a Roma, nell’estate 2024, accoglieva una serie di opere, da lei realizzate insieme a Emanuele Scoppola, dove questo felice sconfinamento tra letteratura e opera d’arte veniva ancora più approfondito anche in chiave ironica, come la magnifica “Zia in difficoltà”, in legno e ceramica, ispirata da un racconto di Julio Cortàzar, dove la zia in questione ha sempre paura di cadere all’indietro, eppure resta in piedi, sfidando l’equilibrio precario delle convenzioni. Ilaria, lavorando la creta, aveva reso completamente libero il suo pensiero, saldando il gesto artistico alla pagina scritta, e facendolo brillare nei colori vetrosi della ceramica.
Oggi, tra le persone che le hanno voluto bene, il marito Piero, l’amatissima figlia Caterina, gli amici, le amiche, prevale ancora la tristezza e la mancanza del suo sorriso, che le faceva sempre brillare anche gli occhi, ma forse, con il tempo sarà possibile e bello immaginare un libro (d’artista) che raccolga tutte le sue opere, come un racconto per immagini, dove si vede nei nessi invisibili tra le tazze, le teste, i piatti, le sculture “impossibili”, la forma imperfetta e preziosa della vita che trova spazio e colori.


