Venezia 81: Tropici
di Edoardo Mariani
Il clima italiano sta diventando negli ultimi decenni sempre più simile a quello tropicale, con una forbice sempre maggiore tra alluvioni sempre più intense e siccità sempre più severe.
Diverse sono le derive del cinema presentato al festival di quest’anno, attraverso questi estratti di contemporaneità sul pianeta Terra, trapassiamo paesaggi, miraggi, storie, redenzioni, morti e rinascite in paesi diversi, ma sempre più tropicalmente simili.
Quando si riapre uno spicchio, la prima inquadratura su quel «paradiso che in un istante è diventato un inferno» del Phantosmia di Lav Diaz, rientro istantaneamente nelle sue Filippine, nel bianco e nero di casa Diaz, ritrovo il giorno e la notte, il fuoco e le ceneri, la vita, la morte e la corruzione1.
La pioggia lava via i giorni e il tempo si ripete circolare, come altrove, come anche nel Brasile di Manas2, nell’Indonesia di Possibility of Paradise, si ripetono le violenze e lo sfruttamento dei più deboli. L’indistruttibile cemento contro le casette di legno, costruite in una vita e svanite nella cenere in un istante.
Il caldo torrido che durante questa 81ª edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia aveva caratterizzato i primi giorni di proiezioni è culminato con il passaggio di una forte perturbazione, bagnando i piedi, i sandali e gli occhi dei viandanti sul Lido, che trovavano riparo, come da sempre simbolicamente, dallo strano ed incontrollabile clima nelle sale-frigorifero, specialmente la tanto agognata Sala Corinto. «Non ci sono gatti selvatici su quest’isola».
Tornare a Venezia durante le giornate del festival sta diventando un’esperienza sempre più conturbante: le grida dei poliziotti e delle anime corrotte nei film si mescolano alle urla affannate dei fan che rincorrono Clooney, Gaga e Pitt, o Jolie, Kidman e Bellucci. Tutti bellissimi e bellissime, ma io non li ho visti, né i vestiti né i film ai quali avevano partecipato. Mi è capitato però di scambiare due chiacchiere con Lav Diaz, mentre prendevamo un caffè al bar, gomito a gomito, e di realizzare una bellissima conversazione seduti a terra in cima alla scalinata del Palazzo del Casinò, insieme a Martina Parenti e Massimo D’Anolfi. Poi rientrando in sala accade ancora che un lampo di luce improvvisa ci acceca, e quando si riaprono gli occhi ci sembra di essere ciechi per un secondo, parafrasando il Bulag-Sinag, il “raggio cieco” raccontato proprio tra le leggende filippine alla base del film di Diaz.
«Da un punto di vista della vita noi siamo completamente irrilevanti, e la fine del mondo è la scomparsa degli esseri umani, non della vita», dice il biologo Stefano Mancuso nascosto tra le piante dell’orto botanico di Padova, filmato con una selvatica e sensibile visione da parte dei due filmmaker D’Anolfi-Parenti nel loro Bestiari, Erbari, Lapidari3. Anche qui si provocano questioni attraverso la lettura di favole: «Non c’è via d’uscita dove non c’è via d’ingresso». Anarchico, comunista, socialista, mammifero, invertebrato, angiosperme, gimnosperme, fossili saremo se vita avremo vissuto. Siamo cataloghi di scelte e illusioni, e a queste ci rifacciamo, ogni giorno, in ogni luogo. In questo girone del paradiso del Lido di Venezia, mentre le bombe continuavano a decimare innocenti nell’inferno della striscia di Gaza, quasi come per gioco, ho trovato in Possibility of Paradise di Mladen Kovačević una perfetta metafora audiovisuale di quello che da sempre e fino ad oggi continua ad essere il male della vita degli esseri umani: il virus del colonialismo. Non si fugge dal proprio destino, neanche quando si va lontani, neanche quando ci si nasconde nei paesi tropicali. Come in un markeriano sentimento teletrasportatore, il film è un oggetto di scoperta, mistico sensazionale album fotografico, video di famiglie occidentali che scappano travestendosi da danzatori, da genitori, da esperti di animali, e si confondono, come camaleonti, tra queste palme e banani indonesiani, tenendosi lontani dall’orizzonte. Possibility of Paradise racconta storie di occidentali alle prese con la costruzione di un paradiso ideale, poi, di colpo, si immerge nelle acque dell’Oceano Indiano, o forse del Pacifico, sotto le onde, ridiscendiamo, e allontanandoci dalla luce del sole, torniamo ad esser plancton. Organismi che si lasciano trasportare dalle correnti e vivono in balia delle onde, polvere alla polvere.
Costruiamo edifici in cui costruiamo vite, ma tutto è destinato ad essere re-impastato per il domani in un’unica malta fatta di ossa, macerie, storie e speranze. Cosa siamo stati capaci di edificare, e cosa ancora continuiamo a distruggere con altre nuove guerre. Quanta polvere dobbiamo ancora tirare su prima di capire che nella vita è soltanto la vita a contare?
Concludo questo sfogo, prendendo in prestito le parole di André Bazin, e ringraziando gli autori e le autrici di questi film che hanno fatto delle loro opere delle «impronte digitali del mondo» di oggi e di ieri, lasciandoci ancora e sempre viva la speranza di poterci «salvare l’essere mediante l’apparenza» in un universo senza tempo dove «tutto è politico».
- Rimando senza dilungarmi ancora alla sinfonia di fantasmi e pensieri scambiati con Lav Diaz: https://www.filmcriticarivista.it/venezia-81-conversazione-con-lav-diaz/ ↩︎
- Rimando al pezzo di Sabrina Scansani: https://www.filmcriticarivista.it/venezia-81-manas-di-marianna-brennand-fortes/ ↩︎
- Rimando senza dilungarmi all’incontro sul passato, sul presente e sul futuro avuta con gli autori del film: https://www.filmcriticarivista.it/venezia-81-conversazione-con-massimo-danolfi-e-martina-parenti/ ↩︎