Venezia 81: Conversazione con Massimo D’Anolfi e Martina Parenti
A cura di Marco Allegrezza, Edoardo Mariani e Francesco Scognamiglio.
Sfogliando l’almanacco Filmcritica pubblicato all’inizio di quest’anno, mostriamo ai due autori prima dell’intervista il collage di immagini presenti nelle prime pagine del volume, indicando l’angolo dedicato al cavallo in movimento di Muybridge. È un’immagine che fa capolino anche nel film durante il primo capitolo dedicato al movimento animale. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti decidono di iniziare questo loro ultimo film come sono iniziati per la prima volta i film, traendo e ritraendo l’origine del filmare, del fare cinema, dal mondo animale.
Bestiari, Erbari, Lapidari si presenta come un saggio di inizio e fine mondo (fortunatamente solo per la nostra specie), tripartito in grandi insiemi di cose, in dialogo e in lite — quasi sempre interna —, che trasporta questo esperimento enciclopedico di immagini in una seduta psicanalitica sullo stato attuale dell’esistenza, della materia, della sostanza di cui è fatta la nostra società, in relazione e/o conflitto con l’habitat che popoliamo: il nostro pianeta.
Un compendio che nell’omettere dice, e nel dire omette. L’assunto teorico di partenza di questa nuova indagine coincide, come spesso accade nelle loro opere, con l’attracco finale del loro film precedente. Si comincia dalla fine, così da creare un’identità filmografica connessa e in continuo divenire. Se il cinema nasce da una fascinazione verso il mondo animale, e i suoi intriganti movimenti, presto se non subito sviluppa un rapporto radicale di potere.
Nonostante le contraddizioni e i cortocircuiti presenti in ogni capitolo, ci sono anche lembi di sollievo, note dolci, esempi di umanità e cura, del lieto fine.
Si sfogliano le immagini di questo film come le pagine appuntate di un essenzialissimo testamento storico, dal titolo: Il pianeta Terra e infine l’uomo. L’uomo e non l’umanità, non per semplificare la scrittura o per arcaicità concettuale, ma perché resta impressa in una stele inesistente un quesito.
Noi, di questa specie umana, cosa avremmo potuto leggere nei libri di Storia se questo nostro pianeta fosse stato nelle menti e nelle mani delle donne, piuttosto che in quelle degli uomini?
Non lo sapremo mai.
Nel primo dei tre capitoli, Bestiari, il cinema inventa nuove gabbie, il cinema si dimostra ancora una volta vicino all’appropriazione dei corpi e della vita. Ce lo ricordano le immagini d’archivio e il found-footage del passato che irrompono, tradendo l’osservazione silenziosa ed etica delle inquadrature dei soggetti ritratti dagli autori. Una tendenza esplicita in Guerra e Pace, che qui trionfa nel gesto suprematista della caccia e poi della morte, nell’atto di filmare (to shoot) gli animali, cavie dello sguardo, intrappolati nei frame come trofei di caccia imbalsamati. Lo sviluppo della tecnologia progredisce e aumentano sempre di più le possibilità di filmare, a cuor leggero, qualsiasi cosa. Un’equazione che vede dilagare il numero delle immagini di animali e, in contrappasso simultaneamente diminuire invece le specie.
Dunque la guerra contamina anche questa nuova riflessione (con un po’ di rammarico, Fuori Concorso alla 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica), questa volta però le parti in causa hanno mezzi e possibilità nettamente distinte, ferocemente impari, come fucili o macchine da presa spiegate contro artigli, quasi sempre utilizzati per aggrapparsi alla vita. E se il colpo non uccide, lo fa lo sguardo, che sequestra la preda nell’inquadratura o allo stesso modo, nelle gabbie di uno zoo, luogo che si veste i panni di sala d’attesa per la morte. Gabbie in massa, una dopo l’altra, che fissano il pensiero di chi guarda verso un unico tormentato e desolante binario, quello dei campi di concentramento. Non è un caso che proprio in quei luoghi donne e uomini ricevevano trattamenti bestiali imposti da bestie selvagge così antropiche, altri uomini e altre seppur in netta minoranza donne.
Abbandoniamo questo “spettacolo del reale e della brutalità” in cerca di un rimedio naturale: Erbari, la cura. La seconda indagine di questa opera è una sonda mirabile si cala all’interno di un mondo vegetale, dove il racconto tramuta l’ordinarietà in poesia del mistero. Siamo all’interno dell’orto botanico di Padova, in silenzio osserviamo e ascoltiamo i rumori verdi, la voce del botanico visionario Stefano Mancuso ci culla di pesanti verità scientifiche, che riducono la nostra posizione antropocentrica a brandelli. Lui immagina che se un alieno giungesse e studiasse il nostro pianeta lo definirebbe come “un pianeta di tipo vegetale, con tracce animali”. Continua spiegandoci come nonostante rappresentiamo solo lo 0.3% della vita del pianeta, ci sentiamo così protagonisti di questo spazio, ma la nostra pesante e irreversibile presenza in realtà non rappresenta pericolo peggiore che per noi stessi. Le piante sono qui da milioni di anni prima di noi, e resteranno infinitamente più longeve di noi. Mancuso ci ricorda come nessun paragone sembra essere sensato, né sul piano biologico tanto meglio su quello sociale. Noi siamo dotati di una scrittura gerarchica dei sensi che poi riportiamo nell’organizzazione della nostra società, le piante “vedono e sentono con tutto il corpo, non hanno soli organi deputati a singoli scopi, sono esseri viventi estremamente democratici”.
Per l’uomo è stato abbastanza semplice mettere in gabbia gli animali, con le piante questo tentativo sembra impossibile. Eppure ci prova, e questo secondo atto ci racconta passando per l’ennesima antinomia, anche se attraverso la cura, questo tentativo umano di controllo. Il quale ovviamente fallisce. Non è bastata la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki. Hibakujumoku, è un vocabolo giapponese che indica gli alberi sopravvissuti al bombardamento del 1945. Nonostante quasi le intere città sono state rase al suolo, questi alberi sono riusciti a sopravvivere o a rinascere rigermogliando dalle radici cosparse di vita infranta, resti del passato, ceneri. Una forza misteriosa e inspiegabile, forse proprio perché “le piante sono il legame tra il sole e la terra”.
Si giunge al terzo e ultimo atto, guardando la Storia e la memoria storica dall’interno. Il titolo dell’ultimo segmento è Lapidari, i fossili del futuro. Tra l’Archivio di Stato a Roma e la vita del cemento come mezzo per l’uomo, gli autori documentano sia industrialmente con distacco che con calore e premura.
Ritorna preponderante l’interesse e il fascino per gli archivi, come quello per i materiali sui quali si fonda la nostra civiltà. Nel primo caso, sembra come se per gli autori fossero luoghi di meditazione, dove più ci si passa del tempo e forse più si trovano risposte sul nostro passato. Tuttavia paiono come cimiteri della Storia, o sfere di cristallo capaci di ogni predizione. Peccato che su quelle sfere sembra che la polvere sia troppa da non lasciare nessuno spiraglio di lettura valido per i prossimi noi. “Corsi e ricorsi storici”, si sa come aveva ragione Vico, studiamo la Storia fin da quando siamo piccoli ma è come se non fossimo in grado di decodificarla davvero, ci ripetiamo sempre, sempre peggio, la svuotiamo del suo fondamentale potere pedagogico. D’altronde bombardiamo, demoliamo e ricostruiamo su macerie. Cemento gettato sopra altro cemento. Storia schiacciata da altra Storia, che si dimostra uguale alla prima. Siamo il contrario delle fenici, produciamo solo ceneri grigie, nuova spazzatura industriale, non rinasciamo, continuiamo a morire e a far morire. Malgrado ciò, questo ultimo frammento di pietra ci mostra un tentativo di resistenza, un inspiegabile tepore che proviene da un materiale così freddo.
La memoria, come un atto magico, trova forma fisica in una piccola forma cubica, da installare al suolo nelle città, ha la facciata superiore placcata in oro e, incastonata nel cemento stradale, è rivolta verso il cielo. Inciso sull’oro ci sono dei nomi di persone, la loro data di nascita e la provenienza, poi un’altra data, il luogo e il motivo della loro morte. Sono le pietre d’inciampo, questo nome suggerisce una metaforica collisione col passato, che non vuole far del male ma solo richiamare l’attenzione, proprio come quando s’inciampa in qualcosa ma non si cade, un campanello d’allarme che spaventa ma che ci rende lieti di essere in piedi. Ci invita anche a non calpestarla, la memoria, e neanche a oltrepassarla come se nulla fosse.
(M.A.)
Francesco Scognamiglio: Innanzitutto vi volevo ringraziare perché in questo festival abbiamo visto tantissimi film che ragionano sulle catastrofi ambientali, sui conflitti, sull’egoismo dell’uomo. Personalmente provo sempre più ansia quando devo affrontare questi temi che poi in realtà mi responsabilizzano molto se penso al futuro del nostro pianeta.
Mentre vedevo il capitolo Bestiari, il cinema inventa nuove gabbie stavo soffrendo tantissimo, ciò che era legato al sogno un po’ mi sollevava ma per come avete scritto voi nei cartelli, nel vero mondo dei sogni, infine, non ci possiamo più neanche entrare. E quindi quando siamo arrivati al capitolo: Erbari, la cura, è stato come un barlume di speranza. Questa natura fatta di piante e insetti così vasta e sconosciuta che in realtà non possiamo ingabbiare, non ne siamo in grado. Mi sono sentito un po’ io, in quanto essere umano, l’alieno di questo pianeta.
Volevo dunque sapere da dove nasceva questo concetto di gabbia, di trofeo connesso al gesto di riprendere e registrare l’animale. Abbiamo notato a proposito che voi avete ripreso animali soltanto in situazioni di cura.
Massimo D’Anolfi: Ci sono due modi per cui nascono le cose: un po’ perché le incontri e le riconosci, un po’ perché le pensi prima e poi le ritrovi nella realtà. Qui è un po’ un misto tra le due cose, nel senso che il film è nato per un processo di accumulo. Da anni volevamo fare un film sulle piante, ma non trovavamo mai lo spazio del film, perché avevamo capito che comunque il mondo vegetale si portava dietro delle storie, ma non capivamo come poterle raccontare.
Nella nostra filmografia c’è già presente un albero. È quello dell’Infinita Fabbrica del Duomo, legato ad una leggenda, un po’ una favola, un po’ storia. Ci sembrava un buon esempio, però quella è una sequenza che dura intorno ai tre minuti, pensare un film per intero con questo intento chiaramente è stato un’altra cosa.
Il sentimento per questo soggetto non è mai svanito e dopo Guerra e Pace una nostra amica che conosce il nostro lavoro ci disse che sotto il loro studio veterinario c’erano in quel periodo due tigri cucciole con la polmonite. Pochi minuti dopo averle viste abbiamo iniziato a filmare.
Da li in poi abbiamo frequentato questo studio per mesi e una sera abbiamo capito che quello era un bestiario perché la presenza di queste due tigri all’interno dell’ambulatorio veterinario creava uno scompiglio per i vicini gatti e cani. Si udivano questi versi mostruosi e subito siamo arrivati per associazione di idee al bestiario.
L’erbario invece ronzava come vi ho detto già in testa da anni. Mentre Lapidario ci piaceva come titolo.
E dal periodo pandemico in poi abbiamo iniziato a scrivere un soggetto che sottoscriveva questi tre concetti nell’ambiente cittadino ma poi durante le riprese che procedevano passo passo abbiamo preferito allargare i confini e aprire le gabbie.
Martina Parenti: Nel concetto di gabbie però, se ti ricordi, ci guidava anche un saggio di Berger che era Perché guardiamo gli animali, un testo tutto sugli zoo. E lui alla fine dice che lo zoo è in pratica lo specchio del fallimento della relazione fra gli uomini e gli animali. E leggendo il saggio, ti viene da dire, anche se adesso non sono più gli zoo, ma sono questa quantità mostruosa di animali filmati che noi collezioniamo, che è lo specchio, esattamente, del fallimento. Perché sono più gli animali filmati degli animali vivi.
M.D.A.: Già in questo saggio degli anni ’70, ’80, Berger aveva delineato questo concetto di frame come gabbia. E infatti le immagini del pre-cinema sono proprio quelle degli animali. Dentro l’ambulatorio abbiamo poi prestato attenzione ai macchinari con cui eseguivano le tac, le radiografie ecc… Ci siamo appassionati nel vedere con questi macchinari quello che normalmente non si vede. Quindi entrare nei corpi. Che poi le radiografie di Conrad sono state inventate lo stesso anno dell’invenzione del cinema e infatti abbiamo deciso di iniziare il film con le radiografie di animali in Bestiari un po’ come una sorta di dichiarazione di intenti, ma allo stesso tempo era per restituire il percorso che avevamo fatto.
E allo stesso modo anche le immagini filmate nella clinica degli animali, che si distaccavano dal corpo dell’archivio, erano testimonianza di questo percorso, di questo viaggio che abbiamo fatto.
Edoardo Mariani: Le gabbie dei veterinari pur essendo a fin di bene rimangono comunque gabbie. Lo sguardo della tigre è lo stesso dell’immagine del leone dietro le sbarre che emerge dall’archivio.
M.D.A.: Questa cura fa i conti chiaramente con delle ambiguità non volute, delle complessità. Le tigri in natura sono molto inferiori di quelle in cattività. Quindi il veterinario con difficoltà comunque continua a fare questo lavoro salvando un patrimonio genetico, per quanto contaminato, importantissimo.
M.P.: Questa cosa degli animali è tutta una contraddizione.
M.D.A.: La vicinanza dell’animale domestico, su questo Berger era spietato, a cui noi siamo legati dimostrando una forte empatica, porta anche ad eccessi e ad accanimenti terapeutici. Fino al transfer, come nella scena finale di Bestiari che mostra quei cani vestiti filmati nei primi del ‘900.
M.P.: Quell’archivio, preso ad Amsterdam, è proprio uno dei primi film che fa vedere gli animali che diventano come dei bambini di casa, e quindi vengono imboccati sul seggiolone in mezzo a tutta questa ambientazione borghese colma di tendaggi e colori. Restituisce un po’ anche di sensazioni horror.
M.D.A: E loro e le tigri sono stati proprio la nostra fonte di ispirazione per scrivere la favola sui sogni.
E.M.: Che però sembra un po’ provenire da qualche leggenda antica. Il dubbio viene. È anche la chiave della parte poetica del film. Appaiono questi cartelli tra un archivio e un altro e non si sa da dove vengono fuori queste frasi.
Marco Allegrezza: È la voce del saggio che racconta una verità lontana e perduta.
M.D.A: L’ho scritta effettivamente pensando di far riecheggiare un po’ quella sensazione là di tradizione orale.
F.S.: Mi sono accorto anche che questa struttura poetica ha donato al film un tocco di umanità rispetto al vostro cinema laboratorio a cui siete interessati.
Guerra e Pace era per esempio molto attento a mantenere una certa distanza, un’attenzione matematica nel mostrare i vari aspetti della materia filmata. Forse perché qui si parla in maniera più diretta di umanità e di cinema, ho sentito più emotività e poesia. L’uomo non è il soggetto principale di nessuno dei capitoli del film, ma lo è comunque marginalmente in quanto è causa attiva dell’immagine in movimento.
M.P.: C’è questa musica malinconica però ognuno dei tre episodi ha una specie di lieto fine. I tre mondi che abbiamo rappresentato: animale, vegetale e Minerale, sono andati. È tutto addomesticato ma le persone che attraversano le immagini sono persone buone: Francesco e Sofia, i giardinieri, la voce, Marco Steiner che cerca nelle carte di famiglia. Loro studiano, ricordano, curano e archiviano. Queste cose non rovinano il mondo, ma è un mondo effettivamente rovinato, già totalmente addomesticato.
M.D.A.: Nel nostro sguardo proviamo a ricollocarci in una posizione, per quanto possibile, più adeguata, più giusta e più veritiera.
Come dice Stefano Mancuso in Erbari, il 99,7% di quello che è vivo è fatto da piante. Noi come specie umana esistiamo da molti meno anni. I pesci e le piante dei fossili del finale sono datati tra i 38 e i 50 milioni di anni fa. La vertigine del tempo. Sono dei calchi che anche oggi possiamo osservare. Quella dei fossili è effettivamente la prima forma di cinema in cui la natura è regista e attore.
L’uomo c’è.
M.P.: Non è un film contro gli uomini.
M.D.A.: Bisogna forse ricollocarsi in un modo più umile.
F.S.: Anzi l’uomo non si arrende mai al riutilizzo della rovina. Come nel cinema si lavora con l’archivio. Come nella parte finale in cui il cemento si unisce alle memorie delle persone e viene generato questo simbolo, questo oggetto simbolico: la Pietra d’inciampo.
M.D.A.: In Lapidari sparisce completamente la parola, ma questo episodio è ricco di storie umane, dietro ogni pietra c’è una storia. Nel nostro cinema l’umanità è più caratterizzata dalla trasformazione della materia.
M.P.: Dal fare!
M.D.A.: Noi filmiamo sempre persone che lavorano.
E.M.: Gesti!
F.S.: Inevitabilmente voi siete andati a recuperare degli archivi in giro per il mondo, il soggetto ad un certo punto è diventato anche il ruolo dell’archivista in quanto persona e poi ancora la struttura in cui l’archivio esiste.
M.D.A.: E quel processo del fare, è proprio il processo che noi tentiamo di restituire in montaggio, e in ripresa tentiamo di inquadrare l’uomo come elemento del paesaggio visivo. Sempre un po’ marginale nella scena.
E.M.: Qui al festival abbiamo visto tanti film sulle catastrofi ma anche tanti film tropicali. In alcune inquadrature uno perde pure un po’ la cognizione che anche le piante sono chiuse in delle gabbie. Perché appena uno ci si confronta, appena il nostro sguardo si perde dentro le loro forme, ci si dimentica più facilmente di quello che siamo, abbracciando un mistero più grande.
M.D.A.: Empatizziamo anche meno con il mondo delle piante. Un orto se ci pensate è uno zoo delle piante. Vengono portate delle specie altrove per essere studiate.
E.M.: Pure quella è sempre una contraddizione.
M.A.: Triplice contraddizione! Il film inizia con una contraddizione. Perché nelle immagini del vostro cinema mi ha colpito da sempre la brutalità. Una vostra dichiarazione di intenti in quanto filmmakers. Veniamo da Guerra e Pace e il cinema è sempre più problematico. Riprendere con una cinepresa è associabile ad un fucile che spara. Intrappolare un animale è il simulacro di imbalsamarlo come atto fisico. Però si continua a filmare. E quel tradimento di cui tu parlavi sulle immagini d’archivio c’è perché crediamo esista giustamente uno sguardo etico che possiamo adottare nel filmare. Sono animali in cura quelli che vediamo, la m.d.p. ha trovato un posto giusto e non si muove da questo posto e la quantità di girato dedicato agli animali è misurato rispetto al resto. È interessante creare nuovi modi di riprendere dal momento in cui il cinema è sempre stato molto vicino alla guerra e vicino alla morte. Come con gli archivi.
Sembra quasi che gli archivi non servano a nulla. Sembra venga meno la loro utilità. Siamo pieni di archivi. La cura dietro ogni pratica di conservazione, che si vede anche attraverso il vostro cinema, è maniacale. Però la funzione pedagogica è stracciata. Noi conosciamo tante cose, ci curiamo di ricordarcene e di archiviare i nostri ricordi. Ma questo non ha effetto sui continui orrori del mondo. Siamo uguali al cemento, elemento per l’edilizia su cui noi costruiamo divorando continuamente.
M.D.A.: Si, erano esattamente queste le domande che ci accompagnavano nel percorso di Guerra e Pace.
Perché filmiamo la guerra se non si è capace di fare la pace?
M.P.: C’era questa cosa: basta filmare la guerra bisogna fare pace, basta filmare gli animali bisogna salvarli.
C’è un po’ il sentimento che il cinema è meglio che si fermi.
M.D.A.: Il nostro film successivo inizia un po’ dove era finito il precedente. L’unico modo che abbiamo per accettare di continuare a filmare, per amare questo lavoro, è continuare la ricerca aggiungendo tasselli al nostro percorso. Non dobbiamo creare delle opere di consenso, dobbiamo faticare per trovare nuovi modi, nuovi linguaggi, nuove forme. Di questo Adriano Aprà era un grande sostenitore.
F.S.: Il terzo capitolo continua un discorso iniziato nel precedente: Una giornata nell’archivio Piero Bottoni.
M.P.: Si ci sono anche qui delle immagini di quell’archivio: La statale di Milano, i carrellini…
E.M.: L’orto botanico di Padova che ci avete mostrato sembra un luogo incredibile, non sapevo della sua esistenza. Quanto patrimonio culturale abbiamo a disposizione, eppure, le cose sfuggono. Mi ha fatto pensare al concetto di rifugio. In alcune gabbie, come quelle di cemento in cui viviamo, riusciamo comunque ad adattarci. Perché se il nostro fine ultimo è quello di stare bene e in pace anche queste gabbie di cemento diventano in qualche delle foreste. E questo mi ha portato a pensare alle popolazioni native, nonostante anche loro poi essere soggetti alla corruzione, non hanno un archivio, non pensano di averne uno. E le loro case sono fatte di legno, elemento poroso, materia organica. Il cemento torna alla polvere, il legno non ha mai smesso di essere organico. Il modo di ragionare dei nativi in questo senso è vicino a quello del mondo misterioso delle piante. Non ci sono testimonianze dei loro nomi. Quello che è successo nella loro storia si ferma al momento in cui è successo.
M.D.A.: La trasmissione della memoria è orale. A tal proposito Spira Mirabilis iniziava proprio con una cosmogonia delle origini che era stata tramandata e trasformata oralmente.
M.P.: Anche la lingua si trasforma, tutto si trasforma.
M.A.: Sembra proprio una tentazione quella dell’essere umano, costituitasi nella società soprattutto moderna, quella di rinchiudersi in spazi circoscritti. E lo fa da subito con le case, con il progetto di abitazione fino al post mortem. I cimiteri di nuovo ci rinchiudono in un perimetro circoscritto. Come per Rousseau, una proprietà che acquistiamo, che paghiamo per avere gabbie fisiche per qualcosa di così immateriale. Quindi di nuovo l’utilizzo del cemento…
M.D.A.: In Lapidari abbiamo deciso di interrogarci sulla pietra del Novecento. Avevamo avuto a che fare con il marmo in Spira Mirabilis e in L’infinita fabbrica del Duomo. Poi ragionando sulle costruzioni e sulla distruzione siamo arrivati al cemento. Con le Pietre d’inciampo avanziamo un legame maggiore perché diventa una pietra che subisce un processo alchemico di trasformazione diventando pietra della memoria: Le pietre che contengono la storia. E non raccontiamo le storie ma tutto questo viene evocato attraverso le immagini.
M.P.: Però abbiamo incontrato tantissime storie.
M.D.A.: Abbiamo lasciato una traccia nel film che è Marco Steiner, figlio di Mino Steiner, nipote di Matteotti, deportato a Mauthausen e assassinato ad Ebensee. Lui è quindi il figlio di un deportato e nel film guarda le fotografie, sfoglia i diari del padre.
M.P.: Si perché in Lapidari ci sono tre storie che si incastrano: la storia del cemento, la storia di Marco che cerca i ricordi personali e la storia di una persona che entra al Casellario Politico Centrale dell’Archivio di Stato situato a Roma. Sono tre processi per arrivare alla piccola opera d’arte che è la pietra magica. Per noi era importantissimo come sarebbe arrivata questa pietra magica nel film. Ed è arrivata come conclusione.
F.S.: Parlavo di cinema laboratorio perché si vede che tramite l’accostamento di tanti elementi: la distruzione dei palazzi, i fascicoli sugli anarchici e i ricordi delle persone si arriva al culmine di un discorso con la pietra finale. Anche qualcosa di inspiegabile e legato al mistero dell’arte, della memoria, sembra essere percepito come sensato.
M.D.A.: Nonostante il processo meccanico di produzione sia così lontano dal sentimento volevamo fare un film industriale ma sentimentale.
L’edificio dove abbiamo girato è chiuso all’essere umano. Sono solo macchinari. L’uomo entra quando il macchinario si spegne o quando si rompe lo deve riparare. Nello stesso tempo però l’uomo guarda e controlla.
M.A.: In quel modo tu filmavi e avevi una macchina che guardava una macchina. Una dialettica tra dispositivi. E tra l’altro il vostro dispositivo è spesso fermo…
M.D.A.: Ci sono dei movimenti ma sono movimenti cinematografici. Quando ho usato le macchine di lavoro, come i carriponte o i muletti.
M.A.: Certo, la macchina sta ferma ma ha dei traveling. Come in Erbari…
M.D.A.: Ci sono questi movimenti e poi quelli dell’archivio. La carrellata potente su Rotterdam dal treno.
M.P.: Sembra Berlino ma è Rotterdam. Era stata bombardata perché ritenuta infedele.
M.D.A.: Per la terza parte del film, prima dell’idea del film industriale c’era questo sentimento di film viaggio, legato sempre alle Pietre d’inciampo. Nel senso, noi viviamo a Milano e volevamo viaggiare per filmare quanto varia l’architettura nelle città europee.
M.A.: Le pietre d’inciampo sono un po’ come gli archivi di Guerra e Pace… mettiamo questa patina dorata sopra, c’è questa cura dell’inserimento e poi restano a terra e ci si cammina pure sopra.
M.P.: Alcune città, infatti, non le vogliono perché ci camminano, ci passano i cani… Ma sono così belle.
M.D.A.: Invece è giusto che tu ci inciampi, ti accorgi che c’è e pensi.
M.P.: Calpestiamo la memoria e camminiamo sopra un cimitero.
M.D.A.: In tanti si confondono, noi lo ricordiamo, le pietre d’inciampo sono per tutti i deportati: Politici, rom, ebrei, omosessuali. In Italia questa cosa sfugge perché, a parte a Milano, purtroppo le associazioni che si occupano di posare le pietre d’inciampo sono unicamente quelle ebraiche.
M.P.: A Roma sono 330 e sono tutte legate alla comunità ebraica.
M.D.A.: A Milano, grazie alla presidentessa Liliana Segre, che fu una deportata ebrea, Marco Steiner e Alessandra Minerbi, attuale presidentessa, hanno deciso di fare metà e metà. Perché la maggior parte dei deportati italiani lo erano per motivi politici.
M.P.: E oltre all’archivio degli antifascisti del Casellario Politico Giudiziario dell’Archivio Centrale di Stato c’è anche quello a colori della Croce Rossa. Quando si vedono quelle persone che trafficano e fanno delle scansioni. Quel posto che si vede si chiama ITS, International Tracing Service, il più grande archivio d’Europa sui campi di concentramento. Ancora adesso loro hanno tantissime schede da scansionare digitalmente…
M.D.A.: Ogni quindici anni gli archivi rinnovano la tecnologia e il tipo di scansione. È il problema di interfacciarsi con gli archivi. Anche nell’istituto Luce prima hanno iniziato con le scannerizzazioni in VHS poi in Beta… arrivano al 20% poi arriva il nuovo formato e sono costretti a tornare indietro. Il sistema più sicuro rimane la pellicola perché sappiamo che dura almeno 100 anni.
Nel Casellario Politico Giudiziario c’è tutto quello che è stato possibile salvare. Oltre alla fotografia e alle impronte digitali ci sono le veline, le intercettazioni… normalmente hanno un fascicolino. Salvemini invece ha due faldoni. Anche Ferruccio Parri molto ricco.
F.S.: Comunque, come dicevate anche voi, ogni cosa che avete registrato e catturato trova il suo spazio. Mi sembra che questa possa essere associata ad un’attitudine rispettosa del fare documentario. Penso a Bruno Ugolini che cerca di prendere quello che può per comporre le pagine del suo erbario.
M.P.: E di averne cura. Una cura gentile. Quella di Ugolini e di Erbari è stata la parte più difficile da montare ma è sempre stato dolce. Massimo dice che è stato facile per questo.
M.D.A.: Difficile perché bisognava essere delicati e calibrare bene il tutto. Ma dall’altra parte i materiali non erano così tanti, era il giusto rapporto tra quantità di riprese e materiale.
M.P.: Una dolce complessità.
M.D.A.: In Bestiari era tutto più difficile. Abbiamo apportato tanti cambiamenti. All’inizio era più lungo, c’erano più parole, poi si son sommati i veterinari e la favola. Ha richiesto molto tempo per svilupparlo come volevamo.
M.P.: In Lapidari invece ci sono volute tante riflessioni in più sul passaggio dalle tre storie al finale…
M.D.A.: Quando arriviamo a fine film siamo un po’ più tranquilli. Come la forma della piramide. All’inizio c’è tantissimo materiale, poi piano piano si stringe e andiamo sempre più veloci come una freccia.
M.A.: Quindi tu Massimo di solito filmi e in montaggio c’è Martina?
M.D.A.: Io e Martina scriviamo e montiamo insieme poi si le riprese le faccio io mentre Martina si occupa di altro in quel momento. Spesso comunque montiamo mentre filmiamo. O meglio quando iniziamo a montare può succedere che le riprese vanno avanti.
Abbiamo da anni questo metodo, i mezzi sono nostri: le ottiche, la camera… prima con la pellicola e il set organizzato non si poteva agire così.
M.A.: Siete indipendenti! Con che cosa giri?
M.D.A.: Con due camere diverse. La principale è l’Arri Amira. La prima camera digitale della Arri dopo l’Alexa ed è uscita nel 2014. Ha il suono integrato in camera e per questo possiamo fare a meno del fonico. La usiamo noi e Gianfranco Rosi. L’altra che utilizziamo è una macchina fotografica Leica. L’abbiamo usata qui per l’Archivio Centrale di Stato, per le potature e per alcuni fiori d’estate. Ho messo una vecchia ottica look Leica degli anni ’30 che veniva usata per i ritratti delle dive del cinema, per questo le immagini di quei fiori appaiono un po’ sognanti.
F.S.: Ma invece che cos’erano quelle immagini d’archivio con le piante che si muovevano… il piombino che oscilla?
M.P.: È l’archivio di Jan Calábek, uno scienziato cecoslovacco che, come molti in quel periodo, si è messo a usare il cinema per studiare il movimento delle piante. Faceva questi puntini fosforescenti alle piante, le filmava e nel buio riusciva a vedere i loro movimenti.
M.D.A.: Lui che disegna alla lavagna i cerchi che corrispondono ai movimenti nel tempo delle piante…
M.A.: Incredibile, dà una scrittura al movimento vegetale.
F.S.: Sembra una costellazione.
M.A.: E poi c’è Omegna…
M.D.A.: Le fioriture sono in realtà dell’archivio prezioso di J. C. Mol mentre di Omegna è quella dell’uovo… dall’uovo alla gallina.