Venezia 81: Schroeter, Phillips, Sorogoyen, D’Anolfi e Parenti
Prisons and visions. A matter of time
di daniela turco
Anni fa, alla fine di un festival, il gruppo di Filmcritica aveva l’abitudine di riunirsi per discutere dei film di cui ognuno avrebbe poi scritto, trovando a volte un possibile tema dominante che accomunasse i film che ci avevano fatto discutere e pensare di più. Se, dopo l’81° edizione del Festival di Venezia, volessi ripetere ancora quel gioco, direi che per me il segno più ricorrente tra i film che mi hanno “parlato” di più, ha a che fare con il passaggio tra prigione e libertà e tra un tempo filmico che si rifrange e si dilata nei tanti diversi tempi interni (in tutte le possibili variazioni percettive, diegetiche, simboliche), mentre muove verso un processo di liberazione, per inciso, già presente in uno dei passaggi più memorabili di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica dove Benjamin scriveva: “Poi è arrivato il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere…”, in cui si dispiega una fitta rete di corrispondenze tra cinema, tempo, mondo, liberazione, che raccoglie tutta la potenza rivoluzionaria intrinseca a un mezzo diverso da ogni altro: Seul le cinèma…
Se si prende ad esempio il controverso Joker, Folie a Deux di Todd Phillips, nel film è subito evidente questo filo che lega le visioni alla prigione, in modo tanto estremo e violento da prendere uno spessore teorico per il lavoro spericolato e schizo compiuto sul punto di vista (come vertigine e allucinazione), e per l’uso stesso del musical ai suoi vertici massimi – soprattutto Band Wagon di Vincente Minnelli, per la struttura, ma anche Pal Joey di George Sidney per le canzoni – qui convocato per far scivolare la materialità del sogno, il tumulto delle visioni, sempre più verso il confine violento della follia, fino a un punto di non ritorno e di deliberato non discernimento tra immaginazione e realtà. Non è questo in fondo che è sempre in gioco nel cinema e nella sua ombra, o doppio, più oscuro? Che cosa avviene durante ogni proiezione se non far sentire un corpo, dei corpi dove fisicamente non ci sono, che cosa significa far vibrare l’amore, far nascere la passione, su uno schermo, se non un invito a cedere agli effetti di credenza, a lasciarsi trascinare dalla giostra dell’illusione, delle fantasie più spericolate ed estreme, lasciarsi fare prigionieri dalle potenze del falso. Forse è questo che soprattutto interessa a Todd Phillips, usare Joker per parlare di cinema e, se si vuole, di clinica. Clinica come volto nascosto del cinema, e del resto, il cinema più inquietante e più pericoloso e vitale è sempre stato questo… Per questo motivo è fondamentale in Joker: Folie a Deux, il gesto di voltarsi indietro verso il musical inteso come maschera del cinema, che copre illusoriamente un vuoto, un’assenza lacerante, come viene già dichiarato nel cartone all’inizio del film, animato da Silvayn Chomet, dove Joker fronteggia la sua stessa ombra come altro da sé in un vortice irrefrenabile di dissociazione che è anche il segno doloroso di tutto il film. E’ questo il doppio confine che stringe Joker Folie a Deaux: da un lato il musical che diventa scena impossibile e fuga liberatoria, che fiancheggia continuamente il film, dall’altro lato il genere carcerario (Simone Emiliani giustamente rimanda a Robert Aldrich) l’altro volto e l’altra scena (reale?) del film, da cui gli proviene la cupa atmosfera dominante e il destino finale. Tuttavia dei due “generi” mescolati nel film sopravvivono soltanto frammenti sparsi alla deriva, le canzoni, mai sentite così dissociate dalla cornice dei musical di appartenenza, strappate a ogni barlume di décor, come la splendida Bewitched che in Pal Joey veniva cantata da Rita Hayworth, e che ripresa qui da Joaquin Phoenix diventa sideralmente straniera a se stessa, come del resto That’s entertainment cantata da Lady Gaga, il cui personaggio Lee Quinzel/Harley Quinn, a sua volta attraversato dal doppio, riesce a mantenersi per tutto il film, nella sospensione prolungata di una pura apparizione. Chi sia davvero Arthur Fleck, se un artista incompreso, o solo un pazzo, un bambino abusato che non poteva diventare grande, o solo un disperato e un assassino, forse non è dato saperlo, ma, mentre nonostante tutti gli sforzi, nel primo film Arthur/Joker non era mai riuscito a diventare neppure alla lontana Re per una notte, è su questo groviglio dolente e schizo di identità altalenanti cui di nuovo Joaquim Phoenix presta il suo corpo mutante d’attore che si regge tutto Joker: Folie a Deux, che ha il grande merito di prendere le distanze e di ribaltare la cupa atmosfera reazionaria e violenta, mascherata da rivoluzione popolare del primo Joker, liberando qui, invece, soprattutto a livello della visione, delle visioni e dei corpi, allucinati o reali, tutta l’ambiguità di un film che ruotando ossessivamente su un personaggio e sulla sua maschera, sprofonda nell’ambiguità che costituisce il cinema, nel nodo fondativo che si stringe senza tregua tra reale e immaginario.
Visioni, sogni e prigioni si scoprono anche inBestiari, erbari, lapidari di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, per me l’opera ad oggi più sorprendente dei due cineasti, che si affidano ancora una volta alla ricchezza degli archivi e a una loro ricomposizione delicata e attenta attraverso il montaggio per dare al film la forma di un trittico che scansa l’umano per focalizzarsi sulla presenza animale, nella prima parte, sulle piante, nella seconda, e infine, nella terza parte, sui materiali per costruire, le pietre, secondo un itinerario che progressivamente si muove sempre più verso l’inanimato per arrivare fino ai detriti, alla polvere.
Colpisce intanto il numero degli archivi consultati e il tempo dedicato all’esame e alla scelta delle immagini da cui deriva la densa eterogeneità temporale dei frammenti d’archivio usati, che provengono da epoche diverse, come i passi all’indietro del pinguino sul pack davanti alla presenza umana durante la spedizione di Amundsen in Antartide nel 1911, o come il bellissimo filmato coevo o perfino precedente, di un safari in Africa dove si va a riprendere gli animali, che riunisce negli stessi frame estremamente stratificati, la presenza del cinema come uno degli strumenti di colonizzazione, e le differenze di classe immediatamente visibili nella composizione del gruppo: gli occidentali attrezzati per un safari cinematografico, seguiti e serviti dagli indigeni che li accompagnano nella spedizione. Mi sembra che tutta la ricchezza narrativa, silenziosa e potente, di Bestiari, erbari, lapidari, provenga soprattutto da questa ricerca appassionata e da un uso sorprendentemente fertile delle immagini di archivio, insieme a un lavoro sul tempo che ne contiene molti altri, di qui un senso continuamente dilatato, allargato della visione, al limite della dispersione, unitamente alla presenza di un tempo più nascosto, segreto, tutto interno alle immagini, che lascia allo spettatore il compito – e la libertà – di sciogliere o annodare i fili e di trovare i nessi tra le immagini.
Anna Maria Ortese in uno dei suoi testi aveva scritto che “l’uomo siede su un trono di martirio costruito sul dolore dei più deboli e non si rende conto che la “natura “ -animali, alberi – sono l’uomo senza tempo, l’uomo che sogna”. Questo pensiero di Ortese circola molto in Bestiari, che alla sofferenza animale dedica anche alcune sequenze contemporanee, di operazioni condotte in ambulatorio sui cani, mentre ci sono sequenze che portano, al contrario, verso una possibile via di fuga, come quella, impressionante, dedicata alle volpi di allevamento, alloggiate in gabbie che nella loro disposizione ricordano le baracche dei lager, in cui una volpe che è riuscita a fuggire, viene inseguita, ma almeno per un po’, con ironia malinconica e fiabesca, riesce a tenere in scacco i guardiani, prima di essere ripresa. In Erbari – che resta per me la parte più affascinante e misteriosa del trittico – filmata all’interno dell’Orto Botanico di Padova, il primo al mondo fondato a metà del 1500, preso poi a modello da tutti gli altri, fa arrivare attraverso la vita delle piante il respiro profondo del mondo; palme, ninfee, piante carnivore o velenose, entrano in campo nella contemporaneità dell’orto botanico, o attraverso altre ere, nelle immagini di archivio, che mettono in campo la loro tenacia a esistere e resistere, sulla Terra ben prima che comparisse l’uomo. Come fossero prese da un testo tra l’enciclopedico e il tassonomico pensato da J. L. Borges, scorrono le immagini d’archivio dove si osserva la forza della crescita vegetale talmente brutale da rompere il vaso di vetro dove sono contenuti dei ceci innaffiati d’acqua, quella stessa forza che fa bucare all’erba il selciato, o che, come viene raccontato, tre anni dopo la bomba, a Hiroshima, ha fatto spuntare di nuovo le foglie di un albero completamente bruciato dalla deflagrazione. E se la distruzione della guerra si incontra di più nella terza parte, Lapidari, con le immagini impressionanti di Rotterdam in macerie dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, e la confezione delle pietre di inciampo, che dalla stessa guerra provengono come duri pezzi concreti di memoria, si trova in Erbari il racconto forse più intensamente poetico del film che risale alla prima guerra mondiale. Ne è protagonista Bruno Ugolini, un giovane botanico, mandato a combattere al fronte, che ciò nonostante non aveva mai smesso, di raccogliere e di classificare le piante e i fiori nei boschi e lungo i fiumi del nord est, prima di morire sul campo, falciato da una raffica di mitragliatrice. Se dovessi indicare il tema più profondo del film, direi che forse sono le forme di vita, comprese le più fragili e provvisorie come questo commovente erbario, o le nuove foglie dell’albero di Hiroshima, che vanno contro la guerra, contro la morte, e attraversando, misteriosamente tutte le tre parti del film di D’Anolfi e Parenti continuano a crescere e a spargere nuovi semi per il futuro nel divenire delle visioni.
Sarà necessario ritornare su Los anos nuevos di Rodrigo Sorogoyen, per un’analisi più approfondita su questa serie che in dieci puntate per una durata complessiva di 460’ segue l’amore e le alterne vicende di Oscar e Ana, una coppia, all’inizio trentenne, che nell’arco di dieci anni, anzi di dieci capodanni, si incontra, si ama, si scontra, continuando poi a perdersi e a ritrovarsi. Ma vorrei almeno osservare ora che la scommessa aperta da Sorogoyen con Los anos nuevos (ogni nuovo episodio si svolge a Capodanno – di qui il titolo -, un anno dopo l’atro, con Oscar e Ana all’inizio, nel 2015, trentenni per arrivare fino alla soglia dei quaranta) sembrerebbe quella di partire da una struttura narrativa propria di una serie per ritmo, eventi, scarti ecc,, per poi forzarla, scardinarla, facendone saltare le coordinate, e andare alla ricerca (del tempo perduto) del cinema, che infatti prende sempre più piede man mano che procedono gli episodi con l’uso preciso di certe “figure”: il piano sequenza e il campo/controcampo, che si fa carico della vicinanza e della distanza, del conflitto all’interno della coppia. In altre parole Los anos nuevos dentro la griglia di una serie riesce a liberare e a far respirare delle pure immagini-tempo, delle immagini-movimento, i segni, cioè, singolari, distintivi del cinema. Sorogoyen ha già dimostrato in passato nei suoi film di essere un maestro nel far salire con la necessaria lentezza all’interno delle sequenze la tensione per farla poi diventare insostenibile, e questo avviene anche qui, per esempio nel quinto episodio, il primo filmato non a Madrid, ma ambientato a Berlino, dove dopo una notte passata in discoteca, nel registro delle incomprensioni, e, per entrambi, degli incontri stranianti, la coppia di Ana e Oscar arriva al punto di rottura e i due si separano. Ma basterebbe ricordare anche soltanto l’ultimo episodio, interamente girato in piano sequenza, esclusa la fine, che vede Ana e Oscar in una stanza di albergo – non stanno più insieme, ma sono amanti, hanno una relazione che non riescono a interrompere – l’uno di fronte all’altro, e ognuno a sé stesso, tra gli specchi e i riflessi nelle finestre, l’uno che non può stare né senza, né con l’altro, per trasportare l’intera serie su un piano di incandescenza e di tangibile solitudine, mentre in uno stesso vortice si affollano gesti, sentimenti, silenzi, sesso, discorsi, prima che il climax del piano sequenza, si interrompa e la serie (il film) scivoli verso la fine…
In chiusura di questo percorso sullo scambio tra prigioni e visioni, è impossibile non dedicare almeno qualche riga a Les flocons d’or (1976) di Werner Schroeter, tra i film restaurati per l’81° Mostra di Venezia, terza e ultima tappa di un viaggio onirico iniziato con La morte di Maria Malibran (1972) cui aveva fatto seguito Willow Springs (1973). Di questi tre film di Werner Schroeter, in cui si rincorrono i temi della morte, dell’amore, dell’odio, della gelosia, trascinati nella sperimentazione più estrema, barocca e underground con cui il regista tedesco lavorava le sue immagini come fossero corpi, nell’incontro sempre tumultuoso con la musica, con l’opera, Les flocons d’or, chiude la trilogia, come aveva dichiarato il regista, nella disperazione più assoluta. Se per Werner Schroeter infatti La morte di Maria Malibran, era un film ancora rivolto verso la speranza, che già in Willow Spring veniva meno, con Les flocons d’or credeva di aver realizzato un film strettamente e definitivamente legato alla morte e alla disperazione. Eppure, vedendo il film, diviso in quattro parti, e ambientato a Cuba, in Francia e in Baviera, illuminato dalla straordinaria bellezza di Magdalena Montezuma, incarnazione dell’angelo della morte e da Bulle Ogier, stupenda e seminuda, assorta in una danza lungo la ferrovia nei pressi dello scalo merci di Bochum, con Udo Kier e Andrea Ferreol, tutti personaggi/attori/corpi irretiti in un flusso straniato e violentemente onirico, si sente la forza trascinante della vita che scorre, dentro e fuori del film… C’è soprattutto nel film che procede in senso radicalmente dis-narrativo, un’idea di messa in scena continuamente e deliberatamente forclusa, sbarrata, un enigma e un’avventura per lo spettatore. Che cosa accade tra questi personaggi, non lo si sa mai fino in fondo, li si vede entrare e uscire dall’inquadratura, sospinti dalla musica, persi ognuno di loro in un proprio sogno, o incubo, o gioco alterato dalla droga, continuamente allusa, nell’inquadratura ripetuta di una siringa contro un braccio, oggetto senza gesto, che intervalla nel montaggio questi corpi, magnifici, strazianti, definitivamente strappati al racconto.
In una conversazione tra Michel Foucault e Werner Schroeter tenuta al Goethe Institut di Parigi, nel dicembre 1981, Foucault diceva a Schroeter come secondo lui fosse riuscito a liberare completamente i suoi film da ogni aspetto psicologico, e come questo fosse stato estremamente produttivo, perché gli aveva permesso di far vedere nei suoi film dei corpi, dei volti, delle labbra, degli occhi, delle pure intensità…
Tutto il film Les flocons d’or parla di questa evidenza fisica al limite dell’ insostenibile, e vederlo oggi, a distanza di quasi cinquant’anni da quando venne girato, è soprattutto straziante in quanto pura esperienza di un tempo che non è più, ancora imprigionato nella giovinezza dei corpi di Ogier, Montezuma, Kier, Ferreol, ecc., che risplende, ancora vivo nelle visioni tormentate, barocche e nelle passioni disperate, dove brucia tutta la violenza del cinema tedesco degli anni Settanta, avanguardia e rivoluzione che quei corpi portano iscritta.