Venezia 81: Manas di Marianna Brennand Fortes
L’importanza di distogliere lo sguardo
di Sabrina Scansani
L’essere umano è tanto aggrappato al proprio istinto di sopravvivenza quanto attratto dal male, incuriosito da ciò che può ferirlo e, in fondo, distruggerlo.
Tendiamo a voler vedere ciò che è meglio non vedere, a sapere quello che potrebbe farci male. Ogni tanto dimentichiamo il potere di distogliere lo sguardo.
Il mestiere di un buon o di una buona cineasta è quello di giocare sul mostrare quanto basta, guidando la visione dello spettatore o della spettatrice in una ricerca attiva che colmi le omissioni e restituisca una verità personale e soggettiva.
Ma quando in un film si omette platealmente l’oggetto della rappresentazione, la visione appare fuori fuoco, quasi incomprensibile, in qualche modo stonata.
Stonato quanto l’avvertimento nella scheda del film Manas (in brasiliano portoghese significa “sorelle”) inserito nelle Giornate degli Autori dell’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, un “+14” che definisce l’età minima per la visione. È tragicamente in contrasto con il viso di Marcielle, la tredicenne protagonista ritratta nell’immagine di copertina, che subisce violenze dal padre in un villaggio sul Rio delle Amazzoni.
Ma cos’è l’abuso sessuale se non una violenta contraddizione del più profondo significato di essere umano?
Non esiste donna al mondo che non sappia cosa significhi subire una molestia, dalle più disagianti a quelle meno gravi, il che significa che tutte le donne della nostra vita hanno sopportato, almeno una volta nella vita, qualcosa di riconducibile all’aspetto più intollerabile del maschilismo.
Una donna questo lo sa e non ha bisogno di vederlo in un film. Manas scoperchia i canoni dei film sull’abuso anche per questo: perché parla alle donne con il loro linguaggio. Ovvero, senza mostrare qualcosa che già la spettatrice conosce o può facilmente intuire. Si sceglie di non perpetrare l’esibizionismo della violenza, perché, anche se sorretto dal nobile scopo della sensibilizzazione, ancora traumatizza nella messa in scena sia chi recita, sia chi guarda lo schermo.
La delicatezza del non mostrare è una premura che va oltre il cinema, corre attraverso le trame dell’empatia e raggiunge l’umanità più pura e semplice.
Una dinamica diametralmente opposta rispetto alla tendenza di questa Biennale, che sul tema della sessualità raccoglie lavori che scelgono di fotografare senza veli il piacere femminile e i suoi lati controversi nel modo più esplicito possibile, come nel tragico capitolo passionale di Cate Blanchett nella serie Disclaimer di Alfonso Cuarón o la tresca di Nicole Kidman in Baby Girl di Halina Reijn.
Se nei film citati quindi si cerca di travalicare i limiti imposti da un bigottismo antico che imponeva di non mostrare scene intime, dall’altra Manas sceglie di soverchiare paradigmi opposti, per i quali si deve mostrare a tutti i costi.
Il non-mostrato di Brennand Fortes lascia chi guarda nel dubbio, e lo fa con una modalità tanto delicata da non farci capire cosa sta succedendo a questa ragazzina che subisce la dittatura e la personalità violenta del padre, al quale è molto legata ma nello stesso tempo ne è distante. Sta alla spettatrice cogliere, con i suoi tempi, la portata di quel disagio. L’autrice pone le condizioni per raggiungere la consapevolezza nell’altezza del nostro stesso muro difensivo, della nostra stessa esperienza di donne.
Il respiro del padre sui capelli della figlia, le vicinanze corporee che non si vedono ma si intuiscono, le carezze apparentemente innocue: la messa in scena è minimale, devia dal pericolo, sfugge al dettaglio plateale, si concentra sul contesto di una famiglia problematica, a una visione distratta sembra che nel raccontare ometta dei passaggi.
Qual è la storia vera?
È lì accanto, nel fuori quadro, nascosta nel quotidiano come lo sono gli abusi e le loro conseguenze.
Perfino la spettatrice più sensibile ha difficoltà a leggere fra le pieghe delle immagini, che restituiscono un Brasile colorato e sorridente, non crudo e freddo. Se ne accorge quando la verità la travolge, nelle battute di una poliziotta che decide di fare le domande giuste, quelle spesso mai fatte.
E quando la spettatrice si sente chiamata in causa, il film le permette di credere alla versione di Marcielle, e reagendo attivamente alla visione del film scopre di riconoscere il proprio trauma in quello della protagonista e così facendo si dà il permesso di validarlo.
Ci sentiamo tutte al sicuro dietro la macchina da presa di una donna, ci sentiamo tutte “manas”, sorelle, che non hanno bisogno di vedere per ricordare, e davanti ai nostri occhi la narrazione esplode nel fuori campo che diventa fuori-vista della vita vera.
Non è un tabù, non è la scelta di non mostrare per pudore, visione che è anch’essa patriarcale quanto quella di esibire la violenza.
La forza sta nel silenzio e nel permesso che ci viene dato di distogliere lo sguardo.
Nel Q&A dopo la proiezione, Marianna Brennand Fortes dirà che aveva iniziato con l’idea di lavorare a un documentario, ma si è resa conto che l’esposizione a cui avrebbe portato le protagoniste, sia emotivamente sia nella concretezza del quotidiano, andava contro la volontà di sensibilizzare senza portare altro dolore e rischiava di mettere in pericolo la loro incolumità.
Così ha travestito le storie vere da fiction e le donne da attrici, ha scelto la strada dell’empatia senza esibizionismo, costruendo un film di finzione che non dice, non mostra, ma fa sentire.
L’autrice ci protegge tutte: la mamma, la figlia, l’attrice, la spettatrice.
Ci preserva, preferendo il nostro benessere alla comprensione dello spettatore maschio, che tutte noi spesso vogliamo con forza, che veda con i propri occhi, per capire ciò che abbiamo vissuto noi, perché solo in quel modo smetterà di agire nella violenza.
Abbiamo bisogno di cambiare sguardo e Brennand Fortes ci invita a lasciare da parte l’uomo, messo al primo posto perfino dalla nostra volontà di spiegare.
Scegliendo di parlare a quelle donne che, allenate a non guardare, perdono la capacità di vedere.
Ci restituisce ciò che solitamente non viene permesso in un film che racconta un abuso sessuale: la possibilità di non subire due volte, di non alimentare la vividezza straripante di certi ricordi ogni volta che vengono sfiorati con il pensiero. Un permesso misericordioso e fuori dagli schemi, che esplode di dolcezza nelle immagini mai forzate, delicate quanto intuibili, come può intuirle una bambina che percepisce le cose pur non avendo ancora l’età per capirle razionalmente.
Colpisce e abbraccia il pubblico di un’affollatissima e improvvisamente calda Sala Perla, composto di quasi tutte donne che, nessuna esclusa, applaudono in lacrime nei dieci minuti di standing ovation che accolgono la fine della proiezione.
Manas è una storia che scavalca i limiti della non fiction e approda nell’infinita terra delle possibilità riservata alla finzione, dove c’è una zona verde intenso, che assomiglia all’Amazzonia, la zona del reale che sfiora il non-reale, dove la finzione prende lezioni dal documentario e impara a proteggere quando la verità fa troppo male.