VENEZIA 2014: ONE ON ONE di Kim Ki-duk
Se incontri il Buddha per la strada uccidilo.
di Bruno Roberti
C’è un libro di Sheldon B. Kopp che ha un bel titolo, dal sapore Zen Se incontri Buddha per la strada uccidilo. Mi è tornato in mente vedendo One on One di Kim Ki-duk, che a sua volta slitta su un altro titolo: Chi sono io? Ed è proprio una macchina di slittamenti, di trasferimenti di identificazione ciò di cui si tratta. Subito messo fuori velocemente e nel buio lo stupro e assassinio di gruppo, che non a caso viene fatto passare di mano con una fotografia. E prima ancora che si identifichino i responsabili (più o meno occulti) della violenza, è la stessa impersonalità di quella violenza, che comincia a slittare, a disidentificarsi. Tutto nel film avviene come un attimo prima della assunzione di una responsabilità, di un farsi carico della verità, tutto viene disfatto, prima/dopo del fatto e (come è tipico di Kim Ki-duk ) l’atto gratuito, il taglio, l’assassinio più o meno rituale, la ripetizione modulare connessa all’atto/taglio di una articolazione non solo dei corpi, ma proprio della catena significante, comincia a trascinare in modo tenero e straziante, irriducibile e quasi assorto in una preghiera-mantra della tortura e tracimazione, tutto il film, che risulta in tal modo una macchina celibe sui cui avviare una sorta di meditazione, di gesto zen, di senso giustiziato prima del senso. Perciò Kim dice forse che questo è il suo film più politico: perché il meccanismo che dicevo in questo film (con una chiarezza teorica e un forsennato lavoro e scavo sulla dis-misura della forma ) appare, senza mezzi termini, come una mossa (ancora Zen, ancora di Arte Marziale) che pre-viene ogni fuoriuscita di identificazione e di sistema di irregimentazione del-nel senso: il Budda (cui pure ci si vota nel film, con l’incontro del pellegrino e il trasferimento della sua impersonalità meditante al giustiziere che instaura la catena di vendette/colpe) viene ucciso incontrandolo prima e dopo insieme, facendo slittare l’atto gratuito (che mi sembra nel film possa risalire a una concezione gidiana della gratuità dell’ “atto di uccidere”, come per il Lafcadio di Le caves du Vatican). La squadra ”omicidi” (perché il destino di quelle torture non può non essere il colpo vero/falso di pistola e l’omicidio), di vendicatori mascherati, di ansiotiche maschere (a gas come in Dillinger è morto di Ferreri, dove il feticcio/arma di tortura tracimava in modo altrettanto teorico i corpi), di allestitori di set torturanti, di teatri-della-crudeltà, procede in spazi mimetizzati, in scene sotterranee ri-costruite, in anfratti/gabinetti di posa, in teatri di ripresa dis/facentisi, camere ottiche dello “scrivere sui corpi”, di “una lingua scritta del reale” che gira a vuoto, senza pelle, senza pellicola, senza frame, prossima-lontana in un campo lunghissimo e ravvicinatissimo (come Pasolini sapeva fare, e fece in Salò, nel dolcissimo e atroce sguardo bin/oculare). In questo film Kim è più elegiaco che mai, e forse questa elegia è segretamente dedicata al grande Wakamatsu. Se si uccidono in noi le illusioni, mantenendole paradossalmente in vita (e in scena) allora (come del resto in modo un po’ assiomatico, e tutto nell’ambiguità di una visione sottratta e rientrata, con un brivido, “in campo”, di una vista e una ocularità che non a caso slitta, nella sua impossibbile “giustezza”, avviene nell’Atto/Silenzio, nel suo “sembrare” (look) nel dittico di Oppenheimer) possiamo riconoscere/misconoscere.