VENEZIA 2014: MISE EN SCÈNE WITH ARTHUR PENN di Amir Naderi
L’immagine stessa
Lorenzo Esposito
Forse solo Amir Naderi, così come ha fatto, poteva riuscire a restituire con la forza di un colpo d’occhio il doppio fondo fatto di rabbia e di gentilezza dell’immenso e troppo presto dimenticato Arthur Penn. D’altro canto stiamo parlando di un cineasta che è stato in grado, nella sua carriera, di custodire gelosamente nel proprio sguardo l’occhio dei classici mentre contemporaneamente operava una frattura decisiva nel metodo hollywoodiano: perfetto per chi, come Naderi, insiste da sempre su un progetto di espansione fondato sul rovescio di sé, sul proprio continuo rovesciarsi altrove, con un’andatura dotata di pervicacia pazzesca (oh, l’ossessione del montaggio o del set riempito di macchine da presa), che mira alla concentrazione e all’attesa assolute, e che al tempo stesso si lancia in un’attività febbrile martellante, quasi a darsene, oltre l’immagine, la pura possibilità sonora.
Così, in queste stupefacenti quasi quattro ore di conversazione, anzi di Mise en scène with Arthur Penn (a Conversation), Naderi cerca di stare in contiguità con l’automatico intensificarsi delle idee, delle visioni, degli accecamenti. La macchina è ferma, cerca il fuoco velocemente, e velocemente affina lo zoom, corregge leggermente, ma poi si installa, anche se talvolta il campo si svuota (Penn risponde al telefono o ha bisogno di andare in bagno), oppure Naderi cerca di mettere tutto a soqquadro eliminando dal fondo tele appese ai muri e spostando lampade appena visibili sul bordo: ma tutto, in questo infinito primo piano, ribolle, il pensiero, la voce, la memoria.
Non scorre solo un rilancio incandescente del grande cinema americano (Hawks, Sidney, Ford, Welles, Mankiewicz, Donen, Minnelli…), ma si paventa la possibilità che questi fantasmi davvero coincidano con la vita, e dunque Penn, attirato consapevolmente nella rete naderiana fatta di lampi, lembi di profezie non ancora pronunciate, contrazioni di tutte le vite, racconta quello che ha voluto dire per lui l’avverarsi della (propria) vita: il primo amore, la guerra, la rivalità col fratello fotografo, la solitudine. Naderi filma (ma a questo punto non c’è parola più inesatta del filmare!) l’erosione che è ogni pensiero, ogni immagine, ogni ripresa, ogni taglio, ogni film. Ciò che (si) erode. Condensazioni. Torsioni. Anagrammi (comprese parole inglesi completamente inventate o pronunciate male che Penn non capisce). E tocca con mano il cinema di Arthur Penn: colui che ha narrato l’immagine facendo in modo che l’immagine stessa – come si fa e si realizza – fosse sempre l’unico vero protagonista del racconto.