Trap di M. Night Shyamalan
Un saggio sul nuovo significato del gesto e del riso
di Giovanni Festa e Gustavo Celedón Bórquez
Cominciamo da un brevissimo montaggio di quattro immagini, prelevate non dal film di Shyamalan, ma da uno dei trailer presenti su YouTube. La prima immagine mostra la grafica dei titoli di testa con una sottile saracinesca nera che si apre su uno scorcio di paesaggio urbano americano, un grande edificio di cemento, poi per un attimo, su quelle stesse immagini, si ascolta il grido atroce di una giovane. Taglio: seconda immagine, il primo piano, depalmiano, della giovane in questione, una adolescente in uno spazio chiuso, azzurro. Quindi, la terza immagine, con lo stesso piano, solo leggermente più ampio, che mostra la ragazzina in quella che comprendiamo subito essere una sala da concerto, dato che attorno a lei le luci dei telefonini guizzano con le loro luci bianche. L’ultima immagine mostra il controcampo, l’oggetto della visione: la diva, Raven, inizia il suo spettacolo danzando sulla scena, moltiplicata dalla serie di maxischermi.
L’immagine della saracinesca (e l’anodino spazio urbano) fanno pensare immediatamente all’inizio di L’Uomo con la macchina da presa di Vertov (oltre, come segnala Bruno Roberti, ai titoli di apertura che Saul Bass ha creato per Vertigo di Hitchcock): lo zoom, l’ottica meccanica più direttamente associata al “manocchio” voyeurista, si avvicina alla finestra di un edificio, supera una cortina (che si muoverà ritmicamente, come in Shyamalan, ma in senso orizzontale) e penetra all’interno non di una sala di concerti ma di una abitazione, dove vediamo un altro pian piano, tagliato all’altezza degli occhi, di una giovane. Che non grida. Dorme. In entrambi i casi, un ostacolo si apre per lasciare penetrare uno sguardo; in entrambi i casi si tratta di uno sguardo programmaticamente “fuori dalle orbite” e due dispositivi implacabili e apparentemente onniscienti: quello, voyeurista e dinamicamente ubiquo, del cine-occhio vertoviano, e quello, legato alle dinamiche dello spettacolo e del controllo (e dello spettacolo come controllo), di Shyamalan.
La seconda immagine con la ragazzina che grida fa invece pensare a all’inizio e alla fine di Blow Out di De Palma: all’occhio, bataillianamente, segue l’orecchio, al blow up il blow out di un corpo che si manifesta immediatamente come un macchinario occhio-orecchia, che intercetta ed è sollecitato da immagini e suoni di grande potenza espressiva. Ma anche, naturalmente, la bocca (altro organo batailliano: il filosofo la contrapponeva proprio all’occhio (pensiamo alla foto di Boiffard o a quella di Man Ray, dove la testa reclinata mostra la bocca come se fosse la prora del volto: Rosalind Krauss ha dedicato un capitolo de L’inconscio ottico alla questione).
La terza immagine, con le reazioni delle giovani estasiate dall’ingresso in scena della diva, è una pagina di Freud (che cita Le Bon): il semplice fatto di trovarsi trasformate in una moltitudine dota le adolescenti di una specie di anima collettiva; sembrano vittime di un contagio ipnotico; si lasciano guidare dall’inconscio; pensano attraverso immagini che funzionano in maniera associativa; sono alla ricerca di illusione, e preferiscono l’irreale al reale. Lo scritto al quale ci stiamo riferendo, molto famoso, Psicologia della massa e analisi dell’io, è presente già nelle primissime immagini: quando le ragazzine osservano, dall’alto, l’arrivo della diva che scende dall’auto, si disputano letteralmente il suo sguardo ricambiato (stava guardando me!), ossia il controcampo, che vogliono tutto per sé: è quello che Freud chiama “l’influenza di un’unica persona” o meglio, di una persona percepita come unica, caratteristico dell’istinto gregario, associato proprio alla “moltitudine di ragazzine romanticamente innamorate di un cantante che si aggruppano attorno a lui -o a lei- alla fine -o all’inizio- di un concerto”.
I temi dello sguardo, del gesto, dell’udito, del campo e contro-campo sono tutti già presenti nell’economia di queste primissime quattro immagini. In questo rapidissimo montaggio manca, però qualcosa. O meglio, qualcuno: il padre della giovane, che si capisce presto essere un assassino seriale: il concerto è la trappola che è stata approntata per catturarlo. Viene in mente Omicidio in diretta di De Palma, ma anche quel suo magnifico film teorico ingiustamente sottovalutato e massacrato dalla produzione, Domino: in tutti i casi ci troviamo di fronte ad uno spazio costellato di trappole, tane, ridotti dove lo sguardo si sposta cercando una via d’uscita.
Nello stesso tempo, il Padre assassino sempre riesce a scappare dal dispositivo di controllo, dalla istituzione di sicurezza. Si dirà che è l’inconscio di questo dispositivo, come se ogni fuga fosse una ripetizione però sempre caratterizzata da un doppio gesto, da un gesto ambiguo. Shyamalan ci lavora come se fosse una mistica squisitamente superficiale, come se esistesse una connessione primigenia tra perseguitore e perseguito, una specie di complicità cosmica che giustamente permette che al Padre le vengano date tutte le facilitazioni per scappare, quasi per intervento divino (ma si tratterà, come vedremo, di un divino “tecnologico”, che possiede anch’esso una doppia faccia).
All’entrata in scena della diva segue, in montaggio alternato, l’apparato di controllo e repressione ordito dalla polizia che circonda l’edificio, guidata da una agente speciale che non utilizza che protocolli (e che quindi è incapace a contrastare l’ipertrofia dell’assassino, che si alimenta di trovate: le sue fughe non sono una specie di macabra sequenza di gag “nere” e mortali? Una variante rovesciata della gag delle comiche degli anni Venti di Stan Laurel, Keaton, Chaplin: far cadere una ragazza dalle scale; prenderne un’altra al volo; far scoppiare delle taniche nell’olio bollente).
L’uomo, bianco, insegnante, pompiere, perfetta incarnazione dell’american way of life, invece di disperdersi nella piccola massa adorante, è solo e unico: e per salvarsi (per sopravvivere: la relazione fra potere, solitudine e sopravvivenza è stata messa in luce da un altro de grandi autori che hanno scritto sulla massa, Elias Canetti), deve utilizzare la massa, i suoi movimenti, invece di perdersi in essa (la massa, che rende invisibili può essere anche utilizzata come produttrice di invisibilità). E invece della libido che anima la Figlia, termine con il quale, sempre nel suo scritto sulla massa, Freud definisce l’energia degli istinti relazionati con tutto ciò che è suscettibile “di essere compreso sotto il concetto di amore”, quella del Padre è una libido deviata a causa di una relazione perversa con la madre (che appare, alla fine, attraverso l’entrata in scena di un fantasma, nella citazione hitchcockiana). Si parla dell’eredità e dell’impronta hitchcockiana in Shyamalan. Ma tutto indica che sia il personaggio che il cinema prendono in giro la psicosi, la psicosi classica. Il rapporto con la madre è una facezia per il regista, per il personaggio e per gli spettatori. Da quella barzelletta, però, nasce l’inquietante del film: l’inquietante è in superficie, nel quotidiano, non nelle profondità dell’apparato psichico.
Guy Debord, in Critica della separazione, mostra a un certo punto l’immagine di alcuni soldati inglesi in marcia e quella di un flipper (in quello di Shyamalan la polizia che circonda l’edificio e le trovate del Padre assassino), e dice che gli eventi che realmente ci riguardano sono quelli che maggiormente meritano la nostra indifferenza come spettatori distanti e indifferenti.
Esiste questa divaricazione tra lo sguardo della Figlia, affascinato dalla Diva che “divora con gli occhi” e come in una foto di Joan Crawford inserita a commento della voce Oeil del dizionario di Documents, sono occhi desorbitati, “cateratte” attraverso le quali il flusso delle passioni può fuoriuscire; e lo sguardo del Padre, che non assorbe nulla, intellettualmente indifferente (nel senso utilizzato da Simmel quando parla dell’uomo metropolitano blasé, che non si meraviglia di nulla: l’uomo della metropoli, senza una “vita dello spirito” che lo accompagna, è destinato a diventare un mostro? Ma non era quello che aveva prefigurato King Vidor in The Crowd?), perché deve porre tutto in questione e produrre una distanza (una porta non è una porta ma una possibile via di fuga).
L’unica via di uscita per il serial killer è il palcoscenico. Deve avvicinarsi il più possibile alla diva e per far questo deve utilizzare la figlia. Gli è negata, però la via semplice (utilizzare una botola aperta di fianco a loro, dove è appena uscito lo special guest di turno; far scattare il sistema antincendio per creare panico). Invece della linea retta, l’unica fuga possibile è immaginare un labirinto. Il Padre deve creare un labirinto che gli permetta di disperdere i suoi inseguitori e vanificare il movimento di presa della trappola che era stata approntata per lui (la trappola è, appunto, una macchina da presa). Un labirinto doppio, spaziale -far perdere le proprie tracce- e mentale.
Al centro, c’è l’ambiguità del gesto. Tutti i gesti della cura del Padre amoroso sono, nello stesso tempo, gesti della fuga del padre assassino. Questo si comprende perfettamente alla fine: il Padre catturato dalla polizia si china per rimettere in piedi la bicicletta del figlio (o della figlia), caduta sul selciato; il gesto amoroso della cura si rivela però essere un gesto della fuga: si servirà di uno dei raggi della ruota per liberarsi dalle manette; lo stesso accade durante il concerto: i gesti che il padre fa e che aumentano progressivamente la felicità della figlia sono gesti della fuga. Shyamalan ci dice quindi che esiste un’ambiguità costitutiva dietro ogni gesto anodino, qualsiasi: il gesto del padre che ama e il gesto del mostro che fugge, sono la stessa e identica cosa.
Doppio gesto, doppia postura, è il nostro mondo che opera così, già senza inconscio, nella superficie di un nichilismo che lascia fuoriuscire tutto il suo apparato psichico.
Nello stesso tempo i gesti sono comunque sempre doppiamente catturati: non solo dal Padre tenero-cinico ma dallo spettacolo che, alla fine, è anch’esso un dispositivo di controllo e di vigilanza: un panottico.
Quale sarebbe allora il marchio del vero? È il pathos quell’energia che ricondurrebbe il gesto alla sua verità? È il pathos, che Nietzsche in Ecce Homo definiva essere una tensione interna generatrice di stile, che comunica con uno stato interno? Senza pathos, i gesti si corrodono e decadono nella loro ambiguità costitutiva? “Non avrò mai le mie mani”, diceva Rimbaud: perdere le mani significa perdere anche i gesti che le accompagnano?
Quando la Diva (l’unica, come vedremo, capace di gesti autentici), canta accompagnandosi al pianoforte, nella casa dell’assassino, la più struggente delle canzoni, dominata, sembra, proprio dalla tensione interna di cui parla Nietzsche, lo fa solo per rubargli il cellulare. Quel canto era scaturito dalla vicinanza con morte, o era il risultato di un calcolo che avrebbe permesso, di nuovo, una fuga?
La diva è portatrice di una seconda ambiguità, molto più ampia, dato che mostra una specie di potere positivo delle reti sociali: attraverso di lei lo spettacolo termina diventando qualcosa di razionale, la “cosa” più razionale del film. È come se lo spettacolo fosse la razionalità di un sistema che si basa sull’esistenza ambigua di una società che si comporta ambiguamente. L’Instagram della diva serve poi a salvare la vita della prossima vittima che il serial killer aveva segregato in una abitazione dismessa: internet è una superficie vuota però permette di salvare una vita e incolparne un’altra, che a sua volta si salva attraverso la fuga, che è un anti-accesso nel labirinto binario del governo del digitale, dei telefonini.
E se allora gli unici gesti possibili, oggi, gli unici che ci sono rimasti, fossero quelli della replica? Simulacri di gesti, non più individuali, ma frutto dell’imitazione, trasfigurati dai social network e della realtà virtuale?
È quello che vediamo nella scena del ballo della Figlia con la Diva (la ragazzina, riesce a “guadagnare la via del palco”, evento che assume un significato completamente diverso rispetto a quello che possiede per il Padre: grazie a quest’ultimo, riesce ad eliminare uno dopo l’altro i gradi di separazione che la dividono dall’idolo, fino, appunto, a poter cantare insieme lei). Imitazione cruciale questa: la diva le tende la mano: in quel momento, la giovane, davanti a quello specchio magnifico (Freud direbbe “talismano” il cui “prestigio paralizza le nostre facoltà critiche”), e illuminata dai flash di migliaia di cellulari che la trasportano immediatamente sulla rete parallela e fittizia dei social network, ne ripete i gesti: è un momento creativo e catartico? Oppure, “perduti tutti i caratteri personali”, la ragazzina “si converte in un automa senza volontà”? Forse, nessuno dei due casi. Si tratta della sofisticatezza vuota del gesto odierno, qualcosa di simile a una specie esaurita di snobismo. Il gesto sbarrato. L’a-gesto. Il gesto che non esiste senza la misura di quello dell’Altro.
Fuori dal cinema, da una televisione in un bar, mostrano una registrazione delle Olimpiadi di Parigi dove una ginnasta brasiliana sta compiendo una meravigliosa sequenza di gesti al ralenti. Che gesto è questo? Non è un gesto del pathos, ma è indubbiamente un gesto senza ambiguità. La ripetizione e la complessità lo hanno ripulito di ogni scoria, come il ponte di una nave che ha compiuto una traversata di anni nell’oceano: è un gesto puro, e nello stesso tempo, non è un gesto libero, ma chiuso nella sua inutilità di esibizione fine a sé stessa. Gesti davvero liberi dall’ambiguità che li costituisce dovrebbero essere per esempio, quelli dell’amore. Però Fincher in Gone Girl e Zemeckis in Allied ci hanno mostrato tutta la loro cifra di ambiguità, fino a farne geroglifici produttori di potenze del falso. Shyamalan lo trasporta nei gesti della paternità. E ci dice che non ci resta che sospettare di ogni gesto, perché contiene in sé sempre una parte costitutiva di menzogna, e può servire per due azioni completamente antinomiche.
La diva possiede quindi un doppio potere. Da un lato mostra l’ambiguità del medio digitale, che rende schiavi e fa si che tutti riproducano la medesima serie di gesti; e nello stesso tempo è infiltrata in questo mondo della simulazione e dei fuggitivi, fatto di accessi e di anti-accessi.
E all’improvviso, prima che il Padre-assassino le riveli la sua vera identità, gli confessa di aver avuto, durante la simulazione del ballo, una connessione molto strana e profonda con la ragazzina – pensava che fosse appena guarita dalle leucemia – Erano frasi di circostanza? O si può raggiungere una connessione veritiera a partire da una menzogna e da un cerimoniale completamente artificiale?
Ogni cosa, nel film, è il suo contrario o può essere il suo contrario, verità e menzogna su entrambi i lati della moneta. È un’altra forma radicale di spettacolo che Shyamalan vuole mostrarci, lo spettacolo del digitale, produttore di finzione svuotate: è grazie al digitale che possono esistere le fake news. Non che non esistessero prima (Kracauer le chiamava “pezze d’appoggio documentarie”), però non possedevano questa portata. Adesso Musk può scatenare una sommossa in Gran Bretagna, un colpo di stato in Bolivia e un altro in Venezuela; nel film la diva utilizza il medesimo social network, con la stessa velocità imprevedibile, ma in scala ridotta, e lo fa per salvare una vita invece che per perturbare uno stato di diritto.
Nel film di Shyamalan accade però qualcosa di ancora più complesso: si realizza una specie di rovescio della dialettica dove la sintesi è lo spettacolo e il conflitto una pura apparenza che può alternare le sue facce, dove la logica binaria continua ad esistere, non come un problema di genere, ma come un problema strutturale. Il film mette in scena una dialettica senza conflitto. Per questo non c’è inconscio, non c’è spirito, anima o coscienza. Il negativo esiste come annichilito. E il costo è la demenza assassina. Il fascismo. Il Padre è apparentemente un fascista classico: ama la sua famiglia, (non la investe con l’auto e accetta la torta della sposa) ma in realtà è un neofascista perché non esiste più nessuno spirito (Hitler credeva nel progresso).
Il film riflette il trionfo del nichilismo, la vittoria su qualunque inconscio, il riso di fronte a qualsiasi diagnostico di psicosi, di qualsiasi schizofrenia. Già non esiste complotto, come alla fine di Arancia Meccanica: lo stato del mondo non ha bisogno di proteggere i suoi demoni perché è nella sua natura generarli e proteggerli. Questa è la materia della sua essenza. È il nuovo fascismo, assai più pericoloso sia del primo fascismo, come del fascismo che Pasolini associava alla società di consumo. Perché adesso si aggira nelle sale dello spettacolo e le reti sociali. Il Padre, al contrario di internet dove tutto è con accesso e dove in realtà non si ha accesso a tutto, è colui che, nelle sue fughe reiterate e costanti, dimostra di avere l’accesso totale. È questo il controllo. E questo accesso totale Shyamalan lo associa alla psicopatia. Dimostrandoci che il controllo non è un’ingiunzione che viene dall’alto: è una produzione polimorfa e schizofrenica che si costruisce. Il Padre prima ruba una chiave magnetica, poi la radio della polizia etc.: il controllo è una reta fatta di aggiustamenti e contro-aggiustamenti costanti.
La pazzia omicida è uno show per consumo personale: sempre Debord dice che il capitale, nello spettacolo, guarda sé stesso. Shyamalan ci mostra uno show solitario (la fuga dell’assassino) mostrato da un dispositivo che vede tutto: era il sogno di Vertov che poi si è trasformato in un colossale apparato di controllo di massa e, in Shyamalan, in un dispositivo, una macchina che producendo finzioni finisce per mostrarci il volto dell’orrore reale infiltrato (non può essere un caso che Shyamalan-nous di questo dispositivo che vede tutto sia anche il padre reale dell’attrice – che a sua volta è una vera cantante – che interpreta Raven). Si tratta di un apparato molto sofisticato che, come diceva Kracauer a proposito della capacità del cinema di prefigurare il nazismo, è, insieme, un’avvertenza e una premonizione, che prefigura un futuro che è già presente.
C’è qualcosa, nel Padre-Assassino seriale, che sfida la psicoanalisi e qualsiasi psicologia. È, lo ripetiamo, la visione di un nuovo fascismo. Alla fine, liberatosi con facilità, in un ennesimo gesto di fuga, dalle manette che lo tenevano legato, il Padre ride. La sua risata (e il suo sorriso) sono completamente inediti. Sono il sorriso e la risata del neofascismo. Del fascismo che viene. È spaventoso perché è un nuovo tipo di risata (il pianto della figlia e della moglie, invece, non sono nuovi, sono vecchie gradazioni del registro del patetico). È la risata nel neofascismo. Cliché. Ignorante. Vuota. La novità vera è che adesso, sembra dirci Shyamalan, i fascisti ridono. Ci ridono in faccia. I nazisti non ridevano, o se lo facevano il loro era il riso meccanico e mostruoso descritto da Primo Levi nei campi. E non è nemmeno il riso atroce dell’idiota di cui parla Rimbaud e che Jacques Rancière associa alla “grande esplosione schizofrenica” e alla perdita della misura comune della grande paratassi. Anche Alex, in Arancia meccanica, ride alla fine del film. E si trattava anche lì di una risata fascista. Ma Alex è un paziente, mentre il Padre è un fuggitivo. Quella di Alex è la risata della pulsione che credeva perduta e che ha ritrovato nonostante la cura a cui era stato forzosamente sottoposto.
Qui si tratta di una risata diversa, che non possiede ancora una collocazione possibile. Perché il Padre non possiede inconscio (se non nella forma risibile del fantasma della madre, che non spiega nulla, e che è solo il rattoppo di una citazione troppo volutamente cinefila per essere credibile) e questo sfida la psicoanalisi e la schizoanalisi. Ed è l’esatto contrario della massa e della sua psicologia. Colui che esercita il potere totale, vuole sopravvivere a tutto, nonostante tutto. È colui che ha preso gusto al sopravvivere, vuole accumularlo e cercherà, come dice Canetti, di provocare situazioni in cui possa sopravvivere a molti. E alla fine vuole essere l’unico. Vuole sopravvivere a tutti affinché nessuno sopravviva a lui.
E adesso ci viene in mente a cosa assomiglia la risata del padre-assassino: è quella dei soldati israeliani che hanno appena saccheggiato una casa palestinese e hanno urinato sulla loro bandiera. La risata del nichilismo assoluto. Che non ha nulla dietro o dentro di sé. Ma solo la sua oscenità solitaria e trionfante.