The Damned di Roberto Minervini
La pattuglia sperduta
di daniela turco
Il percorso molto personale e intenso che Roberto Minervini sta portando avanti da oltre una ventina di anni, si è dimostrato insolito fin dall’inizio sia per la piega sperimentale impressa al cinema che realizza – soprattutto (mi sembra) per averlo sottratto a facili etichette, in questo tempo inflazionato dal cinema del reale (vero o presunto) -, sia per un’autentica anomalia di sguardo che ha saputo mantenere fedele a una linea-guida politica e poeticamente sensibile di ricerca. Si continua a sentir vibrare nelle sue opere il background del cinema europeo più coinvolto da un pensiero sulla realtà (Rossellini, Bresson…) e nello stesso tempo, una continua esigenza a esplorare in prima persona altri spazi e contesti sociali (Minervini abita negli Stati Uniti dal 2001). Nascono da questa ricerca e dall’intensità di questi contrasti, film come The Passage (2011), Low Tide (2012), Stop The Pounding Heart (2013), Lousiana. The Other Side (2015), What You Gonna Do When The World Is On Fire (2018), fino ad arrivare a questo ultimo The Damned, tuttora nelle sale.
Fino dalla prima magnifica inquadratura, prima del titolo, in cui un branco di lupi si contende la carcassa di un cervo, The Damned, indica senza bisogno di parole il tema interno a un film altrettanto essenziale, che parla di violenza, di sopravvivenza e di morte. E’ la prima volta però che Minervini abbandona la dimensione contemporanea a lui abituale, per “mettere in scena” – anche se questo termine non restituisce il modo del tutto particolare che Minervini usa per trasformare il proprio lavoro di immaginazione e di ricerca in un’esperienza reale – uno dei tanti possibili episodi ai margini della guerra civile americana, seguendo – come si legge nella scarna didascalia all’inizio – le vicende di una pattuglia di volontari dell’Unione inviati a perlustrare i territori non mappati dell’Ovest. Siamo nel Montana, nell’inverno del 1862, un anno determinante, tra l’altro, per il fatto di coincidere con gli inizi della corsa all’oro in quello stato1, un elemento che entra tangenzialmente nel film nella conversazione tra un soldato anziano e uno dei ragazzi, a cui mostra le venature d’oro nei pezzi di quarzo raccolti, e che individua con estrema precisione, nell’oro, e nel capitale, uno degli assi portanti, insieme alle armi, di quella nascita di una nazione, che dagli esiti della guerra civile si andava formando. Se a uno sguardo superficiale The Damned, potrebbe sembrare muoversi senza prendere una direzione vera e propria, se non proprio restare fermo insieme al gruppo di soldati, costretti a pattugliare il nulla, o a sostare nei lunghi estenuanti momenti di guardia, in attesa di essere raggiunti da un esercito impegnato sul fronte del New Mexico che non arriverà mai, ci si trova in realtà davanti a un film che in pura ottica rosselliniana, senza fretta, si prende tutto il tempo necessario per comporre un disegno nascosto nel rovescio delle immagini, dove entrano in gioco quelle componenti sociali, umane, economiche, tenere o dure, razionali o folli che formano nel loro insieme il nucleo denso che a Minervini sta a cuore filmare. Sono i momenti di pura osservazione, allora, a essere decisivi, i raccordi durante il poker, tra le carte e i volti dei soldati sotto le tende, le inquadrature delle mani impegnate nella manutenzione quotidiana delle armi o l’apprendistato dei soldati del campo che vengono istruiti che per accorgersi della presenza del nemico devono prima imparare a guardare, allenandosi a scoprire le piccole differenze, ciò che cambia nel paesaggio: un cespuglio, il volo improvviso di un uccello, qualcosa che si è spostato lungo il crinale delle colline. Cinema dell’attenzione quindi, quello che Minervini pratica da sempre, cui si aggiunge questa volta il dettaglio determinante della scelta come obiettivi di un set di lenti vintage della Canon, già adattate in un primo tempo da Zack Snyder, che aveva poi rinunciato a usarle, non convinto dall’effetto visivo. Invece per The Damned è proprio l’uso del grandangolo a risultare essenziale per il suo contributo a sprofondare lo sguardo dello spettatore in un’avventura straniante che scivola lungo le linee prospettiche oblique per convergere verso il punto di fuga, mettendo nitidamente a fuoco il centro dell’immagine, in contrasto con i lati che sconfinano nella nebbia della sfocatura. Ne deriva una dimensione arrotondata e vagamente anamorfica delle inquadrature, che sembra abbracciare lo spazio in una curva dolcemente inclusiva, che corrisponde a uno sguardo che si apre progressivamente su un territorio da scandagliare palmo a palmo.
E’ pressoché inevitabile pensare a Valerio Zurlini, per l’analogia di certe riprese e di certe situazioni, in particolare a Il deserto dei Tartari, per l’attesa infinita di un nemico che non si vede mai, ma, ancora di più per il modo con cui vengono qui filmati i soldati, mentre avanzano sul terreno, con la mdp collocata quasi sempre dietro di loro. Era stato Serge Daney a sottolineare la scelta insolita da parte di Zurlini di filmare spesso le schiene dei personaggi (riferendosi in particolare a Cronaca familiare, un film sulla debolezza, che precisamente per questa tematica, considerava lacerante e raro).
The Damned è anche il primo film di Minervini in cui non compare neppure una donna, anche se, paradossalmente, resta forse fra i suoi film il più acutamente femminile, e non solo perché all’inizio, nell’accampamento si vede un soldato cucire, e si insiste in seguito sui momenti dedicati alla cura dei cavalli, che vengono lavati, accarezzati, coperti per difenderli dal freddo, ma per la reale gentilezza di questi gesti, in contrasto con la durezza e la precarietà della situazione, con la sporcizia delle mani, eppure… Verso la fine del film, nella tenda sotto la neve, si vedrà uno dei soldati prendersi cura dei geloni del ragazzo più giovane e inesperto, a cui vengono bendati i piedi e poi riscaldati tra le mani. Sono gesti di una dolcezza al limite dell’insostenibile, i gesti di una cura, solitamente pensata a carico delle donne, anche se, da un altro punto di vista potrebbero essere anche letti quasi come dei gesti di riparazione, dettati, non tanto da una necessità contingente, quanto dalla stessa colpevole partecipazione alla guerra dei soldati, che ha messo tutti loro in contraddizione con il comandamento di non uccidere. “Una linea rossa è stata oltrepassata”, dice il personaggio di Jeremiah Knupp, l’unico che, dopo la battaglia, si vede singhiozzare mentre cerca di lavare via il sangue dalla camicia. Che il nemico sudista non si veda sostanzialmente mai, se non come ombra confusa stagliata contro il tramonto o per i lampi delle esplosioni dei fucili, durante lo scontro a fuoco, non sorprende, anzi fa muovere The Damned nel segno dei film di guerra più profondi e problematici – penso per esempio a Seminole di Budd Boetticher -, che proprio grazie a questa presenza/assenza fanno sorgere le domande più insistenti che ricadono sui soldati protagonisti, ritornando a più riprese nel film: perché combattere, perché uccidere altre persone, che sono persone come noi, che cosa significa diventare uomini…Per inciso, Minervini, dopo l’11 settembre, avrebbe voluto fare il reporter di guerra, anche influenzato dai suoi studi con il fotografo David Turnley.
La bellezza a tratti dolorosa di questo ultimo film di Roberto Minervini sta nel lasciar fluire questi momenti di vicinanza e di intimità legata alla parola e allo scambio di esperienza, a fronte della solitudine e della paura, soprattutto dopo l’assalto al campo, quando un gruppo è rimasto al campo base con i feriti e un altro piccolo gruppo di quattro persone si dirige verso il valico. E’ dall’incertezza della direzione da prendere – uno dei due soldati impegnati nella salita verso il passo innevato chiederà a un certo punto all’altro “dove ci stai portando” –, dalla necessità di dividersi ancora, per risparmiare le forze, che si avverte anche più acutamente di quanto avvenisse al campo base, che nel frattempo è stato assalito e distrutto lasciando sul terreno gelato solo dei morti, il farsi strada tenace di un bisogno disperato di vicinanza e comunicazione se non proprio di comunità, per quanto fragile, esigua e minacciata.
In fondo, del cinema di Roberto Minervini che continuo a seguire negli anni a partire dalla presentazione al Festival di Venezia 2012 di Low Tide – una folgorazione e una scoperta -, ho sempre pensato che, analogamente, traesse in pari misura la sua forza e la sua grazia misteriosa e gentile proprio da quello stesso senso di comunità che gli appartiene intimamente e gli dà forma alla radice. Non a caso in The Damned si ritrovano Tim Carlson con i figli Judah e Noah, già presenti in Stop The Pounding Heart, a portare anche qui la forza luminosa della loro fede cristiana, mentre Jeremiah Knupp, ricercatore e storico, aveva fatto parte della gang di teppisti nel corto Vodoo Doll, realizzato da Minervini nel 2005 a New York, a dimostrazione di quanto l’esperienza personale e i legami di amicizia entrino profondamente nel modo stesso che ha questo regista di pensare il cinema e di realizzarlo. Legami profondi che si creano tra le persone con cui lavora ma che si trasmettono anche ai suoi film, che a loro volta presentano fra loro dei punti di contatto e delle connessioni che solo se presi in considerazione nella costellazione che nel loro insieme vanno a formare si rendono evidenti.
Ancora solo un paio di brevi note sul film, una che riguarda la magnifica colonna sonora di Carlos Alfonso Corral – anche direttore della fotografia -, che porta nelle immagini il ritmo ipnotico di una salmodia grave che traccia lungo le stesse linee di fuga del grandangolo, la propria direzione e destino. Infine, un’ultima breve osservazione sulle presenze animali, che così spesso, con la loro irriducibile alterità entrano nei film di Roberto Minervini, e ovviamente anche in questo. Dopo il pasto dei lupi che apre il film, il gruppo dei soldati forse non a caso verrà attaccato dal nemico solo dopo l’uccisione di un bisonte, come se da quella violenza compiuta dall’uomo sull’animale e sulla natura, non potesse che derivare un iter successivo di sventura, che trova il suo climax nell’immagine straziante di un cavallo che dopo la carneficina al campo base, è rimasto imprigionato dalla briglia e, completamente solo, si dibatte nell’aria gelata per liberarsi. Insieme a una breve inquadratura di Colby, il ragazzo asmatico, già presenza indimenticabile in Stop The Pounding Heart e in Louisiana. The Other Side, e qui filmato solo per un istante durante la battaglia, a restare impressa è l’immagine del cavallo prigioniero e sperduto, la traccia più commovente di un film che – ancora Rossellini – continua a sentire la tenerezza come unica posizione morale da opporre alla guerra.
- Cfr D. Girish, Interview: Roberto Minervini on The Damned, in Film Comment, 24/5/’24 ↩︎