Joker: Folie à Deux di Todd Phillips
Lo “Spettacolo di varietà” delle forze psicopatiche che governano il mondo.
di Giovanni Festa e Gustavo Celedón Bórquez
“Questo pianeta non ha mai avuto tanti sociopatici e idioti al potere”
Aki Kaurismaki
“Può essere che ti sbagli, amica mia.
Fino adesso, ho creduto di vedere più la mia ombra che me stesso”.
F. Nietzsche
Il film non risponde alle aspettative e questo lo rende interessante. L’ascesa del super-cattivo non si realizza mai, perché alla fine nessuno può cadere in una psicopatia più grande di quella del governo del pianeta. Joker 2: folie à deux sembra essere un film originato da forze politiche che cercano di intromettersi. Proviamo a pensarlo (anche) così. Abbiamo fin dall’inizio l’ipotesi della bipolarità, per mezzo di un cartone animato che propone (impone?) un argomento facile ma efficace: due persone abitano in Arthur, il giovane debole maltrattato dalla vita e lo psicopatico sorridente che si è liberato dalle sue catene attraverso la violenza e l’anarchia, guadagnandosi l’ammirazione di molti. Quest’ombra indipendente e violenta, che, usurpatrice, ci mostra il corpo imbelle, ossuto, del suo “portatore” alienato, ci fa pensare a Nietzsche e a Walt Disney. Il filosofo, nell’ultima parte di Umano troppo umano, in una cornice ironicamente “platonica”, immagina il dialogo fra un viandante e, appunto, la sua ombra. L’ombra nietzschiana è un’ombra senziente e umbratile che però dipende dall’essere umano di cui è, appunto, l’emanazione. All’improvviso il filosofo le dice: “Non sappiamo se tu da schiava ti convertirai, senza saperlo, in padrona”. Ovvero nell’ombra di Mickey Mouse che si separa quando prova terrore, o in generale dei cartoon disneyani che Ejzenstejn chiamava del “protoplasma vivente”, dove la violenza, come nell’ouverture del film, si scatena senza remore in un olocausto delle forme “corrette”. Umano troppo umano non è citato a caso (e non solo perché potrebbe essere il sottotitolo posto sulla cartella psichiatrica di tutti gli Arthur Fleck del mondo) giacché nel libro il filosofo parla, tra l’altro, dell’ “uomo commediante del mondo” e di libero arbitrio. Quest’ultimo sorgerebbe da una concezione sbagliata: l’individuo crede che la libertà sia radicata in ciò che lo rende audace, forte e indipendente: nel caso di Arthur Fleck nel primo film, questo vuol dire essere “visto”, guadagnare il controcampo dell’altra/o (anche se questo significa inventarlo, come nel caso della storia d’amore con la vicina, o ucciderlo, come nel caso dell’anchorman tv), ovvero, essere Joker. O essere Thomas Wayne: l’audacia dei desideri e il potere dell’odio appartengono infatti al sovrano, mentre lo schiavo vive in uno stato di oppressione e necessità. La teoria del libero arbitrio sarebbe allora una invenzione delle classi dirigenti che chiamano i subalterni (come accade sempre nella prima parte del film) “pagliacci”. Pagliacci-criminali (un romanzo di Stephen King inizia con una curiosa soggettiva: sui sedili di pelle di un’auto, fra vari oggetti comuni, incontriamo una vecchia maschera di plastica di Pennywise, il pagliaccio protagonista di It. Il padrone dell’auto la indossa e compie una strage), che vanno messi al bando. Che vanno rinchiusi. Questa è l’origine della grande pulsione concentrazionaria dell’età classica di cui Arkham è una archeologia abitata che ne ripete il gesto sovrano e creatore di alienazione: l’attendente, sempre nella prima parte del film, rivela a Fleck – alterato perché non ha più l’accesso ai farmaci – che ad Arkham non ci finiscono solo i folli, ma anche tutta una serie di altre “categorie” di persone che la società considera “deviate”, fino alle semplici “persone sole”. Ad Arkham non si tratta semplicemente di isolare dei corpi considerati “anormali” (il che sarebbe già di per sé aberrante), ma di crearli, alterando foucaultianamente quelli che erano volti familiari nel paesaggio sociale, mettendo una sbarra sul controcampo e fare di quello che dovrebbe essere familiare un estraneo davanti al quale ogni possibile movimento di riconoscimento (che si realizza attraverso una costruzione) è bandito (ossia liquidato attraverso una detenzione). Il volto che il l’“uomo dabbene” non vuole più riconoscere come proprio, rimane agghiacciato nella smorfia stereotipa del riso (che nel film si muove secondo una catena metonimica sdrucciolevole: disturbo di Fleck, marca del rossetto sulla parete di vetro del parlatoio della prigione, smorfia sulla maschera del pagliaccio). E, nello stesso tempo, è il volto stereotipo che, nel primo film (pericolosamente reazionario) si era caratterizzato per un “carattere distruttivo” che alla fine faceva il gioco della classe dominante.
Tutto il film gira intorno al processo per gli omicidi compiuti dal Joker nella prima parte. La carta tentata dell’avvocato difensore è proprio quella della bipolarità. I giudici devono determinare se il criminale è responsabile o no delle sue azioni, ovvero se ha potuto servirsi della ragione o non è stato inconsciamente forzato. Se viene castigato, è perché ha scelto coscientemente le ragioni “sbagliate” (non esiste Joker, esiste solo Fleck); se è dominato da una coazione inconscia, se non è la ragione che lo guida, non lo si può castigare (esiste solo Joker, non esiste Fleck). Arthur è un essere oppresso dalla vita e dall’ingiustizia; il Joker è la sua uscita irrazionale, un personaggio che usurpa la sua vera personalità. Argomento, diciamo, democratico. Ma Lee Quinzel-Harley Queen, interpretata da Lady Gaga, si occuperà di esaltare il Joker, di trasformarlo in una forza naturale, una forza antisociale, un potere politico basato sulla follia illimitata. Argomento, diciamo, repubblicano, per il quale non agisce nessun motivo e, nietzschianamente, l’atto si realizza come un miracolo, uscendo dal nulla, e ad intervenire è il puro capriccio. Chi conosce la legge non avrebbe agito. Il criminale agisce e lo fa senza ragione né oggetto. Quindi, non avendo usato la ragione, non sarebbe comunque punibile. È la gratuità sovrana del Joker, la sua personale dépense, la sua nostalgia animale, che Lee Quinzel vuole mettere allo scoperto. Certi elementi del film possono farci pensare che Lee sia addirittura una sorta di agente incaricato di mantenere viva la figura del Joker. Il suo principale ostacolo è l’avvocato, la dialettica del film è incarnata da quei due personaggi femminili che hanno nel Joker la figura della bipolarità della società americana. Il Joker è un repubblicano in stato psicopatico e Arthur è un democratico preso dal discorso del buon comportamento sociale tipico del progressismo. Joker, come usurpatore di personalità o come estrapolazione dell’umano nella follia senza limiti, cioè in entrambi i casi, pensiamo avrebbe vinto il processo.
Certamente Todd Philips e Joaquin Phoenix (poiché l’attore sembra essere più consapevole del regista del divenire del film) sanno che il Joker, come era stato concepito nel primo film, risveglia passioni repubblicane e le immagini della presa del Campidoglio a Washington, nel 2021, o l’assalto alla Piazza dei Tre Poteri a Brasilia, il 2023, “hanno molto” di quel primo Joker che, d’altra parte, la critica cinematografica rimpiange con nostalgia. Beh, sì, Trump è un Joker. Che dire di Milei, il Joker di tutti i Joker.
La psicopatia dell’estrema destra internazionale ha rovinato allora quella che sarebbe stata forse una delle saghe più importanti nel cinema degli ultimi anni. Todd Philips e Joaquin Phoenix non dubitano, smontano con intelligenza la normalità di una sceneggiatura destinata quasi a scriversi da sola, con sondaggi e tutta quella parafernalia. La scelta del musical, che ha innervosito quasi tutta la critica, va proprio contro i desideri, addirittura contro la nozione stessa di desiderio. Lady Gaga e Joaquin Phoenix sembrano dolci, cantano bene, vanno ad un ritmo più lento del desiderato. E qui si inserisce il secondo tema del film: il musical: la folie a deux (o “disturbo psicotico condiviso”, dove un sintomo di psicosi -ad esempio, una convinzione delirante- passa da un soggetto all’altro) diventa un pas de deux (il momento nel quale, durante un balletto, il ballerino e la ballerina si muovono in sincrono compiendo gli stessi movimenti). Il film hollywoodiano non manifesta in nessun luogo meglio che nel musical, questo genere misto, ibrido, la sua vocazione generalizzata all’evasione. Evasione, qui, letterale: è durante la visione di un film di Minnelli (riprodotto più volte), Band Wagon-Spettacolo di Varietà (1953), che la coppia tenta la fuga. La scelta del film non è casuale. Daniela Turco, nel suo libro sul regista americano Vicente Minnelli, la materialità del sogno, scrive che “il film non può che sprofondare e concludersi nello spettacolo (…) rilanciandolo ancora una volta, come una macchina celibe, nell’illusione di un infinito intrattenimento evocato dall’ultima canzone, “That’s entertainment”. Solo che l’entertainment di Band Wagon non è, naturalmente, quello di Joker 2: il doppio sogno di Fleck (essere una star dello spettacolo e avere “qualcuno da amare”) è uno pseudoevento che non è stato realmente vissuto in un orizzonte dove la vita individuale non possiede nessuna storia. Non è un caso che lo spettacolo si (ri)produca in uno spazio concentrazionario come Arkham: trovandosi al margine dell’esistenza, è necessaria la rappresentazione che, invece di essere quello spazio-tempo irrepetibile dove una storia d’amore si produce e consuma (Band Wagon e il pas de deux di Fred Astaire e Cyd Clarisse) è l’annichilazione della facoltà d’incontro rimpiazzato per il fatto sociale allucinatorio (Joker e la folie a doix con Harley). Come annota Andrea Pastor in un appunto folgorante, “non c’è musical, seppur spettrale, gli onirici, irrealistici coloratissimi e luttuosi inserti musicali vivono di danze tragiche, dove i valzer sono sempre gli ultimi, terminali, (…) mentre gli spettacoli di varietà si interrompono, vivono di continue cesure e fughe”.
Il realmente spettacolare si sostituisce allora, debordianamente, alla realtà o, al massimo, nietzschianamente, edifica quella “domenica di libertà” senza la quale non si sopporterebbe la vita, e che mette una toppa anche davanti alla morte reale. Domenica di libertà che si può consumare anche nello stesso carcere, che si oppone a tutto il “secondo genere” presente, quello carcerario (che al centro ha anch’esso, come il musical, un’evasione): è durante l’ora d’aria che Fleck bacia sulla bocca un compagno di cella; è in carcere che Fleck vede il film di Minnelli tenendo Lee per mano; è in una cella di rigore che i due fanno l’amore per la prima volta, dopo che lui ha smesso di nascosto con i farmaci, e il trucco che lei le pone sulla faccia si scancella sul volto sudato rivelando che il controcampo, per i due, è possibile solo attraverso la maschera. Ma se è attraverso la maschera che si consuma il riconoscimento dell’altro, si tratta di un falso movimento di reciprocità: un movimento di reciprocità inibito perché trasfigurato. E destinato al fallimento.
Questo movimento, che si era visto potenziato quando Fleck decide di “assumere” il Joker come suo avvocato difensore, va in crisi durante l’arringa finale.
Il personaggio di Phoenix, che adesso che non è più né Arthur né il Joker, aveva cominciato ad avere sentimenti, pensieri, e a pensare i pensieri mediocri delle persone intorno a lui: poliziotti, avvocati, compagni di cella. Cioè, aveva iniziato a diventare un soggetto. Bene, è necessario dirlo, se tutto indica che è la postura democratica quella che trionfa in Joker 2: Folie à deux, questo non è vero (anche se, forse, avrà qualche influenza sulle elezioni).
Se alla fine Arthur si rende conto che il Joker è un impostore, non è lo stesso Arthur dell’inizio, incapace di parlare, tormentato all’infinito, attraversato da una risata cronica che la società gli ha impiantato per farlo soffrire come tutti quelli che vivono al suo interno, senza scampo. Al contrario, è un’altra persona, qualcuno che ha saputo epurare l’orrore di questi tempi, impregnato nei nostri cervelli, senza essere democratico né repubblicano. Si tratta di qualcuno che decide per sé stesso, che ha un incontro con la lucidità (non con la normalità), che rompe l’argomento della bipolarità, quella diagnosi con cui le case farmaceutiche fanno grandi affari e con cui la psichiatria, oltre a riempire le sue casse, assume un ruolo di analista internazionale di cui non è all’altezza.
La postura democratica non è quella che trionfa nel Joker 2, anche perché Arthur non ritorna sui suoi passi dopo aver licenziato il suo avvocato. Non lascia che il progressismo parli per lui. Il suo grande trionfo è di aver parlato lui, all’inizio con un trucco sinonimo di precarietà (gran dettaglio del film) e poi senza trucco, come quell’essere spogliato, nudo, che è Arthur. E, d’altra parte, Lady Gaga, con poco protagonismo (ma è straordinaria), rappresentante del mondo dello spettacolo, mondo che si assicura della sofferenza del mondo attraverso i suoi individui e che, in sostanza, è la forma sensibile della psicopatia, si trova in una posizione inaccettabile per il femminismo: è un Eva, una tentazione, un agente di corruzione. La scelta anti-repubblicana è molto chiara. Ma ci sono certi movimenti nel film, più complessi e quindi più impercettibili, che non danno tregua alla scelta democratica. Si impone l’ambiente elettivo, la democrazia rappresentativa, bisogna scegliere il male minore (ma si può oggi parlare davvero di un male minore?).
Alla fine, appaiono due figure cinematografiche, una scala e un corridoio, che si riflettono l’una nell’altra: una scala che non conduce più a nessun “cielo” dopo questo ennesimo Matter of Life and Death che è il cinema e uno shock corridor che finisce su un corpo straziato che muore dopo la favola raccontata da un idiota che lo accompagna nell’agonia con la sua risata e il suo furore, che per Macbeth erano la vita stessa, che “non significa niente”. Perché la cosa davvero inquietante del film è il riconoscimento che le persone sono sole, costituite dalla sofferenza, ostaggio di forze superiori impenetrabili in agguato, forze psicopatiche che, abbiamo detto, governano il mondo.