Gli artisti fermano il tempo: Megalopolis e Napoléon
di Edoardo Mariani
Nelle temporalità che dividono un film come Napoléon vu par Abel Gance, datato 1927 (ma girato in Corsica nel 1925) che racconta la poetica del tiranno illuminato francese dei primi dell’Ottocento, e Megalopolis di Francis Ford Coppola, che narra le vicende urbane di un architetto con l’utopia di rifondare New York, gli Stati Uniti d’America e poi il mondo intero, tutto sembra senza limite.
Megalopolis è stato presentato al 77º Festival di Cannes e uscito nelle sale nell’autunno del 2024, e durante uno dei miei passaggi a Parigi ad inizio settembre 2024, ho avuto la fortuna di partecipare alla proiezione della copia restaurata di Napoleon vu par Abel Gance alla Cinémathèque Française. Questo lavoro di riqualificazione del film forse più fratturato della Storia del cinema è durato più di quindici anni ed è costato più di 4 milioni di euro.
Qualche giorno dopo, usciva in Francia il film di Coppola, e da qualche tempo avevo già preso dalla cassetta delle lettere la copia del Cahiers du Cinéma del mese, che ha messo in copertina una bellissima foto di Coppola con lo sguardo diretto alle rovine del passato, serio e illuminato, con il buio del futuro alle spalle. Questi due film si somigliano in qualche modo, e malgrado i cento anni che li separano, respirano di una stessa necessità di sperimentare e di interpellare visivamente l’intoccabilità del tempo. «Voglio che voi siate attivi, esigenti, che vi poniate delle nuove domande […] Marvel fa la Coca-Cola: vi vogliono dipendenti da un film che sarà sempre lo stesso, ripetuto all’infinito».
Pensiamo Napoleon come un antenato, il bisnonno di Megalopolis, e alla sua immortale costruzione-provocazione: una complessa frammentazione della narrazione (basata su fatti reali, scritti e leggende comuni) e una perfetta disintegrazione dello spazio attraverso un continuo esercizio di immagini, provocazioni e alternanze con momenti della storia francese degli anni della Rivoluzione Francese. Siamo sempre nel mentre di qualcos’altro: siamo sul campo di battaglia, dei bambini giocano a palle di neve in un cortile trasformato in zona rossa, con tanto di trincee e bandiere issate. Qui conosciamo il destino di Napoleone, condottiero capace di fermare il tempo e di vedere oltre, di guardare dietro le pareti. E questo, come l’anima creatrice che brucia nel personaggio di Cesar Catilina (Adam Driver), è una questione di ambizione e di fiducia in sè stessi. «Quel che abbiamo alle spalle e quel che abbiamo davanti sono piccole cose se paragonate a ciò che abbiamo dentro», diceva Ralph Waldo Emerson; e anche «Scava dentro. Dentro è la fonte del bene, fonte inesauribile, se ci scaverai sempre» disse Marco Aurelio. Questo gioco di ambizioni e sensazioni è «rozzo e antico», come scriveva già ai tempi di Rumble Fish Serge Daney, definendo Coppola «un cineasta che vuole ripensare il potere dell’illusione al cinema» e che «manipola la materia solo per recuperare un po’ della sua anima»[1].
La macchina da presa indomita, come il protagonista della storia che racconta, non ha paura di spezzare le figure all’interno delle cornici distratte, vuole esserci, nel vento, nella pioggia, nel bene o nel male, nella vita e nella morte, ma soprattutto nella nascita di una Repubblica. Questo paradigma tecnico dei film di Abel Gance si può ritrovare perfettamente anche nel lavoro di Coppola, che non ha paura di filmare durante le tempeste di fulmini (che in Napoleon sono catturati all’interno della pellicola), e che vuole dare al suo film un senso continuo di instabilità, che è anche quella delle nostre metropoli(s) e della nostra società. Sicuramente, come nell’impresa di Toulon immortalata nel Napoleon di Abel Gance, Coppola è solo con e contro il suo stesso destino di condottiero, in primis capo di una grande famiglia, e poi unico padrone della sua carriera di regista. Il film, costato circa 120 milioni di dollari (ai tempi soltanto i primi 13 kilometri di Napoleon costarono quasi 20 milioni di Franchi), che Coppola ha ricavato dalla vendita delle sue vigne in California, è un film spontaneo e umanamente sgangherato. Nella maggior parte delle critiche fatte al film sembra che il cinema sia uno spazio di compattezza, linearità e universalità, un’arte dedita a raccontare storie lineari e ben strutturate, magari con il lieto fine. Coppola dice di no, come in una grande congiura sulla scia di quella di Catilina, con la troupe al suo seguito si lancia al contrattacco di un cinema contemporaneo che si è dimenticato di che cosa è il Cinema, di quali squarci di tempo sono formate le Histoire(s). «Saltando nell’ignoto dimostriamo la nostra libertà», si ripete di continuo Cesar Catilina. Riprendendo le parole di Daney, siamo noi soli davanti al nuovo film-flipper di Coppola:
« Come funziona? Dove sono i bumpers, i colori, gli spazi liberi, le cifre, le palle perse o quelle supplementari, gli special? Che rumore fa? Come si fa a vincere?».
«Lo stesso tentativo fatto da Coppola, con tutte le sue incertezze e le sue ambiguità, ma anche con la sua reale battaglia? E lei dà il bel nome di manierismo a questo stato di contrazione e convulsione, sul quale il cinema fa leva per rivoltarsi contro il sistema che vuole controllarlo o sostituirlo» scriveva Gilles Deleuze a Serge Daney: «e, se è vero che gli americani si sono serviti del video per andare ancor più veloce (e controllare le alte velocità), come restituire il video alla lentezza che sfugge al controllo e che conserva, come insegnargli ad andare lentamente, secondo un “consiglio” di Godard a Coppola?»[2]
La favola raccontata da Coppola, un’altra battaglia epica contro il destino, ha in sé tutte le caratteristiche di un’azione napoleonica: Megalopolis ci propone un modello estetico di cinema, in cui i dialoghi sono melodrammatici e recitati come in uno scenario teatrale, immersi in un décor dal design neoclassico e dorato. New York, New Rome. Decadenza del cemento e dell’impero precedente, e in generale della civiltà occidentale («finché esisterà il Colosseo, esisterà Roma, e quando Roma cadrà»[3]) con la pretesa di realizzare la più impossibile delle utopie. Un po’ come nell’ideale di un’Europa moderna voluta da Napoleone Bonaparte, Coppola si mette (di nuovo) nei panni del profeta del presente: «il cinema è ancora una forma d’arte molto giovane, e io sono sicuro che i film che faranno i nostri pro-pro-pronipoti saranno così diversi da quelli di oggi che ci sembrerebbero incomprensibili»[4], e per quanto sembri chiara questa cosa, proviamo ad immaginare un Wolfgang Mozart con un paio di AirPods nelle orecchie e il nuovo album di Tyler, The Creator a tutto volume, o anche più semplicemente una Let It Be dei Beatles…
“Al culmine di tutte le azioni, quindi anche di quelle della storia del mondo, stanno gli individui, in quanto soggettività che realizzano il sostanziale. In quanto sono la vita del fatto sostanziale dello Spirito universale, e così immediatamente identici a quello, tale sommità è nascosta ad essi stessi e non ne è oggetto e fine; essi hanno anche l’onore di quello e la riconoscenza non nei loro contemporanei, né nell’opinione pubblica dei posteri; ma, in quanto soggettività formali, hanno soltanto in questa opinione la loro parte, in quanto gloria immortale”[5].
La celebre frase paradigmatica di Karl Marx venne inizialmente composta proprio per descrivere il passaggio tra le gesta rivoluzionarie di Napoleone Bonaparte e le aspirazioni tiranniche del nipote Luigi Napoleone: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Il peplum di Coppola è «un film pieno d’amore[…] che impone dei principi assoluti, come: nessun bambino dovrebbe essere ucciso»[6]. Modellato da immagini fluide e deformate, e da suoni e musiche sentimentali e indefinite, il progetto di Megalopolis respira ed esprime in ogni istante una certa purezza d’animo della mente alla base del film. Quest’idea dell’artista come “genio con il controllo del tempo”, diventa per Coppola una formula magica attraverso la quale riesce, come in tutti i suoi film, a parlare di sè e della sua vita «lasciando fare agli spettatori quello che vogliono», tirandoli a sè con una corda invisibile ma presente, viva, come l’amore che muove il sole e le altre stelle.
Nel lontano settembre 1981, come in una favola moderna, si racconta che Francis Ford Coppola comprò i diritti per proiettare all’interno del Colosseo una versione della quale ha seguito personalmente le fasi di restauro, e per il quale il padre Carmine Coppola compose l’accompagnamento musicale. Il castello a tre schermi di Abel Gance oggi viene ribadito dalle divagazioni digitali di Coppola in Megalopolis con lo split screen, particolarmente con il suo uso nell’episodio carnevalesco e decisivo dei Saturnali. Gli artisti fermano il tempo. È un paradigma semplice, che ci sembra di conoscere alla perfezione, ma come l’amore, non ne sappiamo niente e cerchiamo di fare del nostro meglio per rispettarne il senso universale. Il cinema, più o meno classico, americano, del nord, del sud, europeo o asiatico o africano, il cinema, in quanto divinità-umana lo fa ogni volta, come in una unica pennellata sullo spazio che si ripercuote nel tempo. Il Cinema non fa che fermare il tempo, e come cerca di dirci Coppola Catilina: «se la nostra mente è capace di inventare gli dei. Invece di lasciargli il tutto potere, perché non lo usiamo direttamente?».
Il tempo e l’amore è l’auspicio con cui Coppola lascia chiudere questa love story, dedicata alla recente scomparsa della sua compagna di vita Eleanor, prima di immobilizzare tutto. Mi piace tanto ripensare a Sunny Hope che cammina a quattro zampe sullo schermo quando tutto il resto è immobile. Una sorta di contro-fermo immagine che ribadisce di quanto, soprattutto al cinema, «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni».
La cosa più giusta per concludere questa fuga di parole è riportare a Coppola quello che è di Cesare, o meglio di Cicerone:
«Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?»[7]
[1] Serge Daney, Ciné Journal da «Rumble Fish del 15 febbraio 1984», Biblioteca di Bianco e Nero, p. 194
[2] Da una lettera di Gilles Deleuze a Serge Daney del aprile 1986, pubblicata come prefazione del libro Ciné Journal
[3] In Megalopolis c’è da un lato la voglia di parlare di un futuro distopico, come poteva essere nelle corde del Metropolis di Lang; ma c’è anche un richiamo al cinema più recente, di cui la presenza di Laurence Fishburne, che qui ritrova in qualche modo la sua forma di guida spirituale nel personaggio dell’autista-narratore Fundi Romaine, ma che palesemente riporta al Morpheus di Matrix.
[4] Cahiers du Cinéma nº812 – Septembre 2024, p.18
[5] Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto scritti nel 1821 si rifaceva in qualche modo alla filosofia del bonapartismo, la corrente favorevole alla ideologia di Napoleone Bonaparte, una revisione autoritaria e conservatrice degli ideali della Rivoluzione francese.
[6] Cahiers du Cinéma nº812 – Septembre 2024, p.16
[7] «Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà [la tua] sfrenata audacia?».
Dalle Oratio in Catilinam (prima, 1, 1) di Cicerone.