Godard-Scénario. Un’altra Histoire (immortelle)
di Giovanni Festa
Histoire de Scénario (2025) inizia come Citizen Kane: con una serie di notiziari che annunciano, in tutte le lingue del mondo, una morte. Solo che stavolta “è tutto vero”: il 13 settembre del 2022, a 91 anni, Jean-Luc Godard è morto. Godard, Ruiz (e lo stesso Welles) condividono il distico dead/undead, dove non si tratta di immortalità, ma di qualcosa di assai più radicale: continuare a mostrare non solo immagini (Scénario non è, semplicemente, un film postumo), ma la condizione stessa della loro produzione (dietro le immagini c’è sempre un lavoro) sopravvivente (l’immagine vive di vita postuma). Godard ci mostra cosa fare con le immagini, come giocare con esse, come organizzarle: come montarle. E, nello stesso tempo, che un’immagine, ogni immagine, come la donna per Lacan, “non è mai tutta” perché rimanda sempre a un supplemento, a una serie di piani espressivi in integrazione complessa, problematica, sfuggente. Viene alla mente Ejzenstejn (non a caso, insieme a Hitchcock, l’autore più citato delle Histoire(s)) che parlava, al di là dell’immagine-obraz, di obrazovanie, divenire immagine, divenire forma. L’immagine non è qualcosa che, semplicemente, ci appare davanti, ma un lavoro, dove materiali complessi entrano in consonanza e dissonanza secondo quella che è corretto chiamare, come fa Pietro Montani nel suo libro Immagini sincretiche, “azione multimodale”.
L’idea di Scénario (ossia sceneggiatura: Godard allude di nuovo -dopo il film del 1982- a un atto di scrittura attraverso le immagini) nasce alcuni mesi dopo Le livre d’image, attraverso quaderni illustrati – che chiama brochure – con collage di immagini e fotogrammi, disegni a tempera e frasi come questa: “non siamo sufficientemente tristi affinché il mondo sia migliore”. Nella prima parte del film entriamo nel laboratorio di Godard: non si tratta della kammerspiel che ha “donato” alla fondazione Prada, ma di qualcosa di molto più semplice e allo stesso tempo, evocativo. Lo vediamo mentre, con voce bassa, discute con i suoi collaboratori, mostrando loro (e allo spettatore) il livre d’image più completo, dove c’è l’intero film. Ogni pagina è un vero e proprio “foglio di montaggio”. Il film sarà suddiviso in 4 sezioni (Fake news; Akenaton; Niepce-Hamlet; Le real disparu) più una Ouverture e un Finale(Berenice). Godard, per muoversi da un capitolo all’altro, sfoglia l’atlas di immagini nei due sensi rimpiangendo, dice, che questo non è possibile farlo con il cinema: “oggi tutto è piano, non si può distinguere una cosa dall’altra, rimane tutto sullo stesso livello, e un’immagine segue semplicemente a un’altra immagine. Un libro, invece, ha immagini che passano, e questo permette di percepire qualcosa… Si possono fare andare e venire… Al cinema questo manca”. Godard, che ci ha sempre detto di pensare con le mani (mani che lottano, come quelle del guerrigliero che stringe una bandiera rossa in British Sounds; mani che si accarezzano, come quelle degli amanti in Une femme mariée; mani che vedono, come quelle dei ragazzi ciechi che percorrono una statua di Rodin in The Old Place; mani che scrivono o montano, come quelle dello stesso Godard ne le Histoire(s)) è anche colui che ha mostrato più di tutti le mani che sfogliano le pagine di un libro, da La Chinoise a Adieu au langage: ma forse solo in questo film ha trasformato un gesto familiare della continuità (la lettura dall’inizio alla fine) e della rottura (ogni volta che si cambia pagina la continuità si interrompe), dove si avanza passo a passo, in un gesto eminentemente teorico perché anacronistico (come anacronistici sembrano non solo le immagini, per esempio, di Soft and Hard, con Anne-Marie Mieville davanti alla gigantesca consolle di montaggio, ma anche il gesto ripetuto di Godard davanti alla macchina da scrivere o mentre estrae un libro dalla sua biblioteca), in un gesto della sincope, che manca se stesso e diventa astratto come le mani degli automi spirituali di Robert Bresson.
Oggi, dove non si sfoglia più nulla, Godard, davanti a questo libretto magico che apre davanti a noi ci permette di osservare, per così dire, la filigrana dell’intervallo: a un certo punto, per esempio, dice che bisogna inserire qualcosa tra una pagina e l’altra per poter proseguire. Didi-Huberman nella sua mostra warburghiana Atlas. Como llevar el mundo a cuestas, mostrava come ogni libro di immagini sfidava la logica lineare e paratattica della storia da narrare instaurando una logica altra, multimediale, stratificata, policentrica. Questo “genere” di libro è il risultato di una “inquieta scienza, che tende ad iniziare in modo arbitrario e problematico” e, essendo composto da fogli o tavole, induce a una lettura erratica. Questa forma “saltata” di leggere (suggerita dallo scrittore argentino, maestro di Borges, Macedonio Fernandez) permette, allo stesso tempo, una “forma visiva del sapere” e una “forma sapiente del vedere” mescolando un paradigma estetico-sensibile con un altro epistemico-intelleggibile. L’atlante introdurrebbe nei due paradigmi un’impurità, una esuberanza fondamentale.
Godard prende la pagina, la taglia con una forbice, la fotocopia e la introduce nel libro tra due pagine di “transizione”. Queste ultime sono pagine occupate da tracce nere che sembrano fuochi di artificio o siepi, che marcano una cesura, un’interruzione fra un capitolo, una sezione e l’altra. Modulare l’intervallo, inserire, nel momento vertiginoso del cambio, le battute nere dello spartito. Le mani sono anche quelle del direttore d’orchestra.
L’Ouverture, De Natura rerum, mostra 5 “tappe” attraverso 5 immagini: “capitalisti contro socialisti” (vediamo, incollata sulle pagine dell’Atlas, un’immagine de I miserabili di R. Freda con la folla che attacca la polizia, ma, come dirà poi, un’immagine vale l’altra: avrebbe potuto inserire, per esempio Eisenstein, Dovzenko, Griffith… Dos Passos); “donne contro socialisti” (vediamo un’immagine doppia: la prima metà è una donna che grida, con le mani aperte – da Russ Meyer – e la seconda è un quarto di carne sanguinante, da Bacon o Soutine). Altre coppie sono: “bambini contro donne” (un disegno animato), “animali contro bambini” (un bambino e un lupo) e “natura contro animali” (la tigre di Annaud circondata dal fuoco). L’ouverture si chiude con una frase di Merleau-Ponty, e l’immagine di transizione del cespuglio nero.
La prima sezione, Fake news, è straordinaria, perché mostra, letteralmente, come Godard compone una sequenza. Al centro c’è “una ragazza che piange la perdita del suo amante”: il collage mostra il primo piano di una donna (una presentatrice tv, dice Godard) davanti alla silhouette della testa di un uomo. “Bisognerebbe filmare la donna (deve essere un’attrice) mentre cammina in una stanza” e, come nella piece de Cocteau, parla a telefono con l’amante. Poi, aggiungere altri elementi: la voce di Anna Magnani nel film di Rossellini; il pianto della governante degli Amberson nel film di Welles; la lite fra George Bancroft e Betty Compson (attrice che Bataille inserisce in Documents associandola alla foto di un uxoricida mutilato) in The docks of New York (Von Sternberg, 1928) e la voce di Françoise Rosay in Jenny di Carné/Prévert. L’incipit della sezione, invece, deve essere quello di Les Dames du bois de Boulogne con Jaques–Jean Marchat e Hélène-Maria Casarès, dentro un’auto lussuosa, di notte: la giovane piange per il suo amante perduto, e l’uomo le dice che “non esiste l’amore, solo le prove dell’amore”. Alla fine della descrizione della sequenza Godard chiosa: “tutto questo deve mescolarsi”: il termine utilizzato è mélanger, che è una parola proustiana: nella Rechercheè ciò che si oppone alla “bellezza pura” dei Guermantes, che però, come scoprirà il Narratore molto più avanti, è “pura illusione”: la bellezza – e la poesia – si incontrano quindi solo nello screziato, nella mescolanza). T.S Eliot, in The metaphisical poet, utilizza la stessa parola quando dice che “Quando la mente del poeta è perfettamente equipaggiata per il suo lavoro (e qui sembra di ascoltare Bressane quando dice che “la mente del cineasta-montatore deve essere equipaggiata in modo creativo”) non fa altro che amalgamare esperienze disparate; l’esperienza dell’uomo comune è caotica, irregolare frammentaria. Che si innamori o legga Spinoza (e qui sembra di ascoltare Godard durante le lezioni canadesi), queste due esperienze non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra o con il rumore di una macchina da scrivere o con l’odore del cibo in cottura: nella mente del poeta queste esperienze non fanno altro che generare nuovi interi”.
Il poeta è il campione che assimila il disparato, l’eterogeneo, e gli dà una forma. Ossia colui che, e qui ci viene in mente Nabokov (un autore che ha seguito, suo malgrado, il consiglio di Godard: cambiare nazionalità e, con essa, adottare una seconda lingua), quando dice più o meno che l’artista è colui che “proietta la luce della lampada dell’arte sulla carta di protocollo della vita” rivelando “il disegno irripetibile dell’intricata filigrana”.
Scénario, come Le Livre de image e Adieu au langage prima di lui, sono organismi modificabili, in quello che di nuovo Montani chiamerebbe “stato permanente di potenziale rimontabilità” grazie alla quale il lettore-spettatore “si sente autorizzato ad effettuare in proprio questa restituzione di coerenza” per poi chiosare (e qui Montani sembra Pierre Reverdy): “ogni intervento interpretativo che renda leggibili nuovi legami tra le parti è legittimo”.
Sfogliamo rapidamente gli altri “capitoli” che compongono Scénario. Il secondo si chiama “Akenaton”, come il faraone eretico che introduce il monoteismo in Egitto. Godard si riferisce al libro di Naguib Mahfuz, il grande scrittore già presente in Le Livre de Image, e la sequenza centrale doveva essere prelevata proprio da quest’ultimo film (nell’Atlas vediamo il fotogramma di un bambino che cammina in un campo).
Il capitolo terzo è facile immaginarlo come una storia di fantasmi, già che mescola Niepce (“quando vide la prima immagine in un obbiettivo e la proiettò su un cristallo”) e Hamlet, che invece ha visto un altro fantasma, quello del Padre. Godard non lo dice, ma possiamo ipotizzare quello che il principe danese e l’inventore della fotografia hanno in comune: entrambi, in una dissimmetria vertiginosa, hanno scoperto una tecnica per vedere i fantasmi che, in realtà, come direbbe Derrida in quella “storia di fantasmi per adulti” che è Gli spettri di Marx, è allo stesso tempo, una “tecnica per farsi vedere dai fantasmi: il fantasma è, sempre, ciò che mi guarda”. Niepce davanti all’evocazione, davvero spettrale, della prima natura morta o del primo cavallo “fotografati”, Amleto davanti allo spettro del padre (si) dicono: “guardati attorno, nel mondo, e di tu stesso se in ogni cosa non c’è uno spettro che ti ossessiona”. Il mondo delle immagini è quel mondo dove “ci si sente guardati da ciò che non si vede” e viene a galla, per interpellarci.
Per questo, il titolo della quarta parte non può non essere Le real disparu, dal titolo -modificato- del libro di Badiou che, in una epoca di finzioni del reale, parla, proustianamente, di una “Ricerca del reale perduto” (il filosofo francese ha scritto anche un’opera sullo “splendore del nero”: pensava a questo Godard quando dipingeva le sue siepi buie da mettere “tra” una pagina e l’altra?). La sequenza inizia con una ragazza su un monopattino (e chissà perché vengono in mente le immagini della ragazza in bicicletta di Sauve qui peut (la vie), per seguire con una sequenza di Ivan il Terribile: nell’Atlas vediamo solo un disegno con un tratto leggero, a matita: pensiamo possa essere la sequenza della festa nera, dove il reale, appunto, viene ritrovato sanguinosamente dietro le sue maschere.
La parte finale è dedicata a Berenice: Godard la immaginava como una sequenza assai semplice, con un’attrice (Issa Traoré) che recita la parte finale della tragedia di Racine davanti alla Piramide del Louvre; quando a parlare è Tito, alle immagini dell’attrice si sostituiscono quelle, documentarie, di Macron.
Segue un inserto dove vengono mostrate le prime due pagine dell’Atlas, con un travelling all’indietro. A questo movimento, che dà al film una forte spinta lineare a ritroso, segue un montaggio opposto dove le immagini, attaccate su una parete bianca (che fa pensare a quella che appare in M del regista argentino Nicolas Prividera) seguono la logica della costellazione dell’Atlas Mnemosyne: vediamo così, fra le altre, la Cacciata di Masaccio; l’Angelo piangente di Giotto (si dovrebbe dedicare un capitolo al ruolo de le pleur in Godard); il cane di Adieu; una figura di Matisse; etc.). Sulla parete, una scritta a pennarello che sembra un epitaffio: “Che importanza fa? Tutto è grazia”. Ma il film non è ancora finito
Godard, prima di andarsene, aveva lasciato ai suoi collaboratori indicazioni chiare e dettagliate su una versione ridotta e modificata di questo suo colossale film postumo. Si sarebbe dovuto dividere in due parti, ADN e IRM. Ognuna doveva contenere 13 piani. Mancava l’ultimo piano della seconda parte, che avrebbero girato l’ultimo giorno sotto forma di una piccola “scena”.
I piani sono per lo più fotogrammi o brevi sequenze che creano un altro Atlas, che mescola, come sempre in Godard storia (per esempio, il Vietnam) e storia, secondo una praxis che avevamo definito “montabilità”. Alla fine della prima parte appare, apparizione incongrua come quella del cane in Adieu, il muso di un cavallo bianco, che “meglio di un non-cavallo può mostrare che i cavalli non sono cavalli, perché se l’universo è un dito, tutto è un cavallo”.
La successione dei piani nelle due parti, all’inizio, è identica (a cambiare è il sonoro). Già a partire dal piano numero 5 della seconda parte, però, tutto cambia, e inizia un lungo movimento di morte (l’uccisione del partigiano nella sequenza fiorentina di Paisà, la sparatoria nella galleria degli specchi de The Lady from Shangai, l’incidente mortale alla fine di Le Mepris, la coppia che cammina nella fila automobili carbonizzate di Week-end).
Alla fine, vediamo Godard seduto sul bordo del letto, nella stanza illuminata da una luce gialla (e pensiamo che da lì a poco sarebbe andato nella clinica, a morire) mentre recita, in vestaglia, con il petto nudo: “usare le dita per mostrare che le dita non sono dita è meno efficace che usare le non dita per mostrare che le dita non sono dita”. Il linguaggio qui sembra consegnarci qualcosa di irriducibile. Nella ripetizione spiraliforme, ci troviamo di fronte, come in Lewis Carroll, come in Beckett, a una raschiatura dell’esperienza.
Usare le dita. Usare le mani. Pensare con le dita. Pensare con le mani O usare le non-dita, le non-mani. Quante non-mani ha un bambino che non conosce il senso della parola “mano”? Come le utilizza? (o le non-utilizza?)
Pensiamo, forse, che per questo piccolo dio-gnostico, che ha imparato a sfogliare le pagine del libro della vita, percorrendo senza sosta la non-pagina dell’intervallo, la non-mano e la mano, “il gran gioco della baraonda delle sfere” (per citare un altro autore amato da Godard) e “sfogliare una margherita” (come faceva, sorridendo, Charlie Chaplin), sono una sola e la stessa cosa.

Histoire de “Scénario” (2025): https://www.arte.tv/fr/videos/101411-001-A/l-histoire-de-scenario/
