Jeanne Dielman 23, quai du Commerce 1080, Bruxelles di Chantal Akerman
di Daniela Turco
Encore…
A cinquant’anni dal suo esordio alla Quinzaine del Festival di Cannes del 1975, rivedere oggi Jeanne Dielman 23, quai du Commerce 1080, Bruxelles – che il gruppo di Fuori Orario con la consueta attenzione ha trasmesso nella notte dell’8 marzo – significa confrontarsi con un’esperienza esigente, dura, per la nettezza cristallina delle sue inquadrature, per una struttura narrativa densa, e, insieme, lacunosa, mancante, e per la dimensione continuamente sfuggente del tempo, che nel film può scorrere senza tregua nelle lunghe scansioni in tempo reale, mentre Jeanne lava i piatti o prepara metodicamente le cotolette impanate, o viceversa, contrarsi e precipitare nelle ellissi temporali, davanti alla porta chiusa della sua stanza.
Rivedere oggi Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce 1080, Bruxelles, significa abbandonarsi alla sottile economia di scambio e di coincidenze occasionali tra tempo filmico e tempo diegetico che sostiene il film, che in tre ore e 18 minuti scandisce quasi tre giorni nella vita di una donna, vedova con un figlio adolescente, e trasmette allo spettatore fin dall’inquadratura iniziale un vago senso di inquietudine: Jeanne in piedi in cucina mentre mette il sale nella pentola con le patate e accende il fornello, subito prima dello squillo del campanello. L’incontro con questa madre e casalinga perfetta, che oltre a cucinare, fare la spesa e riordinare la casa, ogni giorno, salvo il sabato e la domenica, si prostituisce regolarmente con i clienti che riceve nel tardo pomeriggio, è dell’ordine spiazzante dell’unheimlich, dello straordinario che emerge all’improvviso nel cuore dell’ordinario, come teorizzato da Freud. L’immagine di Jeanne, protagonista del film, va a saldarsi indissolubilmente con quella di Delphine Seyrig, attrice splendida e vagamente remota, lavorata dall’esperienza con Buñuel, Resnais, Truffaut, Demy e altri, che qui, nei panni di una casalinga, incontra, paradossalmente, il suo personaggio più radicale ed estremo, soggetto enigmatico all’interno di un film destinato a cambiare la storia del cinema, per aver osato mostrare qualcosa di mai visto prima. Come già era capitato a Orson Welles con Citizen Kane, anche Chantal Akerman a venticinque anni, con Jeanne Dielman, era riuscita a scrivere e a filmare qualcosa di unico e irripetibile, tanto che, sentendo di aver raggiunto con quel film ciò che cercava, in quello stesso istante, aveva avuto paura di non riuscire ad andare mai più oltre.
In questi cinquant’anni, di Jeanne Dielman si è scritto e discusso molto, e molto ci si è interrogati da prospettive diverse sul mistero che si porta dentro; di certo Jeanne Dielman come Gertrud di Dreyer di cui condivide un certo grado di insondabilità, non si fa leggere facilmente, eppure, non si insisterà mai abbastanza sulla centralità della scrittura interna al film, intesa non tanto come sceneggiatura, quanto come radice primaria – testi, lettere, parole scritte – da cui prendono corpo le immagini, e sull’importanza dell’inconscio, lungo la cui linea perturbante e sottratta, scorre tutto il film, il cui titolo – un nome e un indirizzo – coincide con l’intestazione di una lettera, appunto, che diretta a Jeanne Dielman, viene fatta scivolare nelle mani dello spettatore,.
Chantal Akerman ha ricordato spesso che era stato Pierrot le fou di Jean Luc Godard, il film che nel 1965 a soli quindici anni l’aveva spinta verso il cinema – fino ad allora aveva immaginato di poter diventare in futuro una scrittrice -, un film che Godard stesso sosteneva di aver realizzato “senza né stampo, né materia, organizzato come una specie di happening, ma controllato e dominato… un film del tutto inconscio” (cfr. Jean Luc Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti 1981, pp. 238-239).
Fra i tanti cineasti che hanno ammirato e inseguito il suo stile inimitabile, è stata forse proprio Chantal Akerman l’erede più naturale di Jean Luc Godard, per il talento inventivo che li accomuna, e per il ruolo primario conferito da entrambi al linguaggio, alla scrittura, tanto che l’idea stessa “di poter scrivere con il cinema” (cfr. C. Akerman “Une jeune cinéaste lit Proust”, intervento al College de France, 2013) ha impresso alle sue opere – nella falsariga di Pierrot le fou -un ritmo e una costruzione delle immagini che parte dalla realtà, ma per metterla in scena spostata nell’ombra dell’inconscio.
Chantal Akerman realizza Jeanne Dielman nel 1975, immediatamente dopo Je, tu, il, elle portato a termine nel 1974:un altro film-manifesto di un nuovo modo di scrivere e filmare tempo e spazio, un gesto rivoluzionario, anche, per come Chantal aveva filmato il suo stesso corpo, come già Orson Welles, come lui sia davanti che dietro la macchina da presa, regista/soggetto che dirige e, insieme, corpo/oggetto di un’altra declinazione/invenzione dell’immagine. Chantal in Je, tu, il, elle, nell’ultima parte del film, arrivava a spogliarsi completamente e a incontrare la sua amante, ripresa insieme a lei dalla mdp, nelle lunghe sequenze “fisiche” d’amore e di contrasto violento fra le lenzuola, completamente prive di esibizionismo, ma, al contrario, definite da una tensione spasmodica, messa in gioco fino a toccare – al limite dell’astrazione, della stilizzazione che talvolta le è stata rimproverata – il mistero dei corpi, l’instabilità dei sentimenti, nella flagranza effimera della pellicola in b/n.
Tutto questo comunque non avrebbe potuto esistere, a metà degli anni ’70, senza la presenza del movimento delle donne, che in Usa e in Europa, con il dilagare contagioso dei cortei e delle lotte femministe per le strade, aveva improvvisamente occupato la scena, rivoluzionando il modo di fare politica e mettendo totalmente in questione e in crisi un sistema patriarcale di valori borghesi e il conseguente ordinamento della società. In particolare Jeanne Dielman, con una troupe quasi completamente al femminile, e con il coinvolgimento diretto di Delphine Seyrig che militava nel movimento delle donne, diventa immediatamente insieme a Je, tu, il, elle, un film-manifesto radicale, negli anni in cui si faceva strada l’affermarsi di un linguaggio completamente nuovo nel cinema realizzato dalle donne. I film di Chantal Akerman erano già questo, fin dall’inizio, mostravano pienamente la nascita reale, sfaccettata e contraddittoria di un nuovo sguardo. Erano film i suoi dove si osavano nuove forme per osservare e trasmettere l’esperienza del desiderio, per rivelare il conflitto di classe tra le immagini, facendo in modo che immagini finalmente diverse potessero conquistare un loro spazio. Era questa la nuova costellazione portata nel cinema da Chantal Akerman, che aveva estremizzato il metodo godardiano del tra le immagini, come lei stessa aveva fatto osservare in un’intervista: “Volevo soprattutto lavorare sul linguaggio, prendendo delle immagini che nel cinema in generale fanno parte delle ellissi, le immagini meno valorizzate, perché c’è una gerarchia nelle immagini. Per esempio un incidente di macchina o un bacio in primo piano è più elevato nella gerarchia che lavare i piatti. Lavare i piatti è il gradino più basso, soprattutto se avviene di schiena. E non a caso è in ottimo rapporto con il posto della donna nella gerarchia sociale. (…) Io lavoro nelle immagini che sono tra le immagini “(cfr. Ca Cinéma, febbraio 1976).
Chantal Akerman era convinta che attraverso la forma fosse possibile mettere in evidenza i “rapporti di classe” fra le immagini, come, ancora oggi, appare evidente guardando Je, tu, il, elle e Jeanne Dielman, due film spartiacque che accolgono un passo e uno sguardo completamente nuovo, sui corpi, sullo spazio e sul tempo, mostrati e fatti sentire come materiali del cinema, ma anche scoperti nel loro forte legame con la vita. Per arrivare a questo, erano stati a loro volta determinanti gli anni passati da Akerman tra il 1971 e il 1973 negli Stati Uniti, dove aveva scoperto il cinema di Michael Snow, Andy Warhol, Stan Brakhage, e dove aveva conosciuto altri artisti come Philip Glass, Bob Wilson, Charlemagne Palestine. Grazie all’eccezionalità di questi incontri, l’aspetto istintivamente sperimentale presente fin dall’inizio nel suo lavoro, diventa per Akerman un tratto ricorrente, esplorato in ogni suo film, in cui la funzione narrativa viene piegata sistematicamente verso la ricerca di un diverso rapporto tra le immagini, che muovono sempre, come grado zero, dalla secca nitidezza frontale dell’inquadratura akermaniana, l’unità di misura essenziale, oltre che segno e destino di tutto il suo cinema.
L’idea iniziale di Jeanne Dielman era una storia che aveva a che fare con il matrimonio, la prostituzione, il lavoro, ma la prima versione del film, scritta insieme a Marilyn Watelet – con cui Akerman avrebbe poi fondato la Paradise Film, casa di produzione di tutti i suoi film -, non riusciva a convincerla, era troppo sociologica, troppo schematica e ideologica per poter funzionare. Ma, come aveva raccontato Chantal in un’intervista con la redazione delle edizioni delle donne, a un certo punto c’era stata una svolta: “Poi d’un tratto ho capito. Una frase filmica mi si è imposta: asciugamano di spugna sul letto, godimento, patate che bruciano. Ho riscritto la sceneggiatura d’un fiato, era l’evidenza, ritrovavo tutto. E soprattutto un rapporto con la mia infanzia. (…) Il labirinto di Jeanne Dielman è perfettamente pianificato, organizzato. Il quadro codificato aiuta a organizzare lo spazio mentale. Ha ritualizzato le sue emozioni, il suo tempo affettivo, finché d’un colpo il meccanismo sballa, il ritmo si spezza” (C. Akerman, Jeanne Dielman, Je tu, il elle, edizioni delle donne, Milano 1979).
Però, mentre l’aspetto politico-concettuale di Jeanne Dielman si rivela nel dispiegarsi di un archivio-inventario di gesti comuni, catalogati insieme: lavare i piatti, preparare il caffè, impanare le cotolette, lucidare le scarpe, tutte azioni condotte rigorosamente da Jeanne/Delphine in tempo reale, accanto al senso di oppressione che appartiene alla ripetitività dei gesti e all’ambiente domestico, che nel suo primo film Saute ma ville (1968) una giovanissima Chantal Akerman aveva infatti fatto saltare per aria, insieme a se stessa, si avverte, in aperta contraddizione, anche il desiderio da parte della giovane cineasta di comporre amorosamente il ritratto di un mondo femminile che era quello di sua madre Nathalie – il cuore centrale e segreto di tutte le sue immagini – e delle sue zie. E’ qui utile ricordare che l’indirizzo di Jeanne Dielman, quai du Commerce 23, coincide con il palazzo in cui realmente vivevano le sue zie a Bruxelles. Questo significa che l’estrema iperrealtà, magnificamente astratta, di Jeanne Dielman preleva i gesti, i movimenti e i tempi, rispecchiandovisi, dalla stessa realtà familiare di Chantal Akerman, la cui madre Nathalie, giovanissima, aveva vissuto l’esperienza del campo di sterminio, da dove era ritornata, devastata al punto da non poterne parlare mai con nessuno.
Filmare la propria madre, filmarne il silenzio, diventa così uno dei fili potenti che muovono in sottotraccia il cinema di Chantal Akerman, che alla domanda di Jean Luc Godard su quale fosse stata la sua prima inquadratura, aveva risposto di aver filmato sua madre dentro un palazzo mentre ritirava dalla cassetta la posta, (cfr. J.L. Godard e Chantal Akerman, Entretien sur un projet, in “Ca Cinéma”, 1980, pp. 5-16). Si riesce allora a comprendere meglio il legame intenso che tutto il cinema di Akerman stabilisce con la comunicazione postale, con le lettere, con una scrittura affettiva che raggiunge il suo vertice in News From Home, tra tutti i suoi film, il più concentrato e ossessivo su questo tema, che ne diventa il soggetto-fantasma; ma, anche in Jeanne Dielman, la lettera della sorella, e soprattutto il pacco postale, in essa preannunciato, diventa il dettaglio fatale di una successiva concatenazione di gesti, che nel folle avvitarsi di un vortice porteranno Jeanne a uccidere, alla fine del film. Nella lunga, statica, sequenza finale, dopo l’omicidio, si vede Jeanne immobile, seduta al tavolo da pranzo, con la camicetta sporca di sangue, mentre guarda nel vuoto davanti a sé, una prolungata immagine-tempo su cui alla Biennale Arte di Venezia del 2001 Chantal Akerman era ritornata, allestendo un’installazione: Woman sitting after killing, in cui veniva appunto isolata la sequenza finale della durata di 8 minuti, riprodotta da sette monitor posti in cerchio con un lieve scarto temporale in ciascuno rispetto a quello successivo, che fissavano nel loro insieme il crollo del mondo di Jeanne nell’abisso del tempo. .
A distanza di cinquant’anni, dalla sua realizzazione, in un mondo radicalmente cambiato rispetto alla metà degli anni ’70, Jeanne Dielman protegge ancora con forza la sua resistenza all’interpretazione, che resta probabilmente il fascino più profondo di questo film “dove tutto è una chiave e niente offre una soluzione”, come scrisse su Sight & Sound nell’inverno 1975/76, dopo averlo visto al festival di Edinburgo, Jonathan Rosembaum, in quella che resta tuttora una delle recensioni più acute e convincenti di Jeanne Dielman.
Perché Jeanne Dielman uccida il suo ultimo cliente, con un gesto repentino che si riflette nello specchio del comò, resta una domanda che apre a diverse ipotesi, nessuna delle quali realmente sicura, tuttavia, credo che attraverso Jeanne/Delphine Seyrig che usa come arma un paio di forbici che “provengono” da Pierrot le fou, Chantal Akerman abbia voluto consapevolmente/inconsapevolmente uccidere e far fuori un certo tipo di cinema, a lei contemporaneo, e nello stesso tempo fissare il suo ingresso nel cinema con un gesto compiuto con spavalderia da una regista appena venticinquenne che osa prendere in prestito le forbici da maestri come Godard (e da Hitchcock, naturalmente), per aprirsi da sola la sua strada, necessariamente attraverso uno squarcio violento, alla ricerca di un suo spazio-tempo personale e politico nel cinema. Questo rimane per me il senso più profondo di Jeanne Dielman, insieme, naturalmente, al silenzio, al vuoto, al senso irrimediabile di perdita sepolto dentro le vite delle donne, che trovava per la prima volta, la forma definitiva della visibilità.
