La montabilità della “questione palestinese”. A proposito di Ici et Ailleurs
di Giovanni Festa


Ritornare a Ici et Ailleurs di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville per non smettere di pensare al genocidio palestinese, e mostrarne le cause, che sono precedenti all’attacco di Hamas del 7 ottobre: ci sembra già, questa, una motivazione sufficiente. Ce ne sono, però, anche delle altre: alcune proposizioni della coppia sul montaggio ci sembrano assolutamente rilevanti, oggi. Come attuale è la riflessione sulla demistificazione della retorica che può appartenere ad ogni immagine, anche quelle che si credono “giuste”. Il film, come si sa, è un rimontaggio e una critica del materiale girato da Godard e Gorin da marzo ad agosto del 1970, nei campi di rifugiati palestinesi in Libano e in Giordania, dietro invito diretto dell’al-Fatḥ di Yasser Arafat. Il film avrebbe dovuto intitolarsi Jusqu’a la victoire, ma viene abbandonato in seguito al massacro di Amman, in Giordania (il cosiddetto Settembre Nero). Nel 1975 Godard riprende in mano il materiale insieme a Elias Sambar (che ha il compito di tradurre il materiale in arabo – è il traduttore di Darwish in francese -) e alla sua nuova compagna e collaboratrice, Anne-Marie Miéville. È per questo che il film inizia con la voce fuori campo della Miéville che dice: nel 1970 il titolo del film era “Fino alla vittoria” e oggi è “Qui e in un altro posto”: la storia provoca una torsione delle immagini e quello che doveva essere un movimento ascendente e insurrezionale basato su materiali raccolti sul posto diventa un montaggio critico tra due sequenze, situazioni, fotogrammi: qui e là, Europa e Medio Oriente, guerriglia e politica, fedayin palestinesi e famiglia operaia francese (il padre partecipa alle lotte sociali).
Il film “palestinese” era stato pensato in quattro parti (come era diviso in parti il film precedente di Godard, La gaia scienza, che non a caso voleva mostrare, attraverso il dialogo fra due giovani studenti “rivoluzionari”, i mezzi per arrivare al cinema): la volontà del popolo; la lotta armata; il lavoro politico (in francese: travail sul cui doppio senso si è già espresso Didi-Huberman); la guerra prolungata fino alla vittoria. Vediamo, così, il piano sequenza di un fedayin palestinese che, nella spianata di un villaggio, parla della necessità di giungere alla pace per mezzo del fucile; un fedayin sparando da una roccia; una esercitazione di bambini in un “campo scuola” di Fatah; una giovane palestinese che parla della partecipazione della donna alla lotta di liberazione.
Segue la sequenza francese, “il ritorno a casa”, con i volti sfocati della coppia che si “tocca” con l’immagine di un miliziano trucidato durante il Settembre nero. È il flusso rivoluzionario delle immagini legato alla morte: il primo film filmò – senza esserne cosciente – gli “attori” in pericolo di morte, guerriglieri che poi saranno trucidati: “la morte è rappresentata por una corrente di immagini e suoni”. La morte, l’interruzione, la sincope è relazionata al flusso, alla corrente. Il flusso è la morte, e non solamente la piega dove questo flusso si torce.
In una catena di immagini “si tratta di ordinare le immagini secondo un certo ordine che permetterà ad ogni immagine di incontrare il suo posto nella catena”. Più avanti, Godard e Mieville spiegano di che catena si tratti: “una catena di immagini ininterrotte schiave le une delle altre”. Il modello è quello alienato-fordiano: seguendo la catena, l’unica forma di costruire la propria immagine è utilizzando lo sguardo dell’altro, “rappresentato per l’obbiettivo fotografico”. Una fabbrica di immagini, una catena, sostituisce la possibilità di creare immagini proprie? È per questo che Deleuze, ne l’Immagine Tempo, parlava, proprio a proposito di Ici et ailleurs, e del montaggio godardiano del “Tra le immagini” in generale, di salire dalla catena? Però come? Godard ci da alcuni suggerimenti: “prima di produrre” (nuove immagini), “distribuirle”; dopo di “scomporre il movimento e osservarlo con attenzione”; e, finalmente, di “alzare il volume”, affinché possa affiorare quello che il suono del più forte aveva opportunamente silenziato.
Bisogna allora, innanzitutto redistribuire le immagini anziché crearle, ossia, potremmo dire, utilizzare tutte la immagini già pronte, già filmate, o ritornare sulle proprie: è quello che fa Godard farà non solo con il materiale “palestinese”, ma con il suo stesso cinema (almeno a partire dalle lezioni canadesi) e con la storia del cinema.
Daney, nei Diari, diceva che il suo oggetto preferito (“sempre: nella musica, nei film, nei viaggi, in una giornata”) erano le concatenazioni, l’arte di passare da una tappa all’altra. E che il vero cinema che lo coinvolgeva era quello in cui la necessità di concatenare diventava “l’oggetto di un vero lavoro: impadronirsi del tempo, inventarlo, dilatarlo”. Il risultato (rivela con con una chiusa che fa pensare ad un regista che fa esattamente questo, e che sarebbe necessario oggi, mettere a lato di Godard, ovvero Werner Herzog), è “l’idea di cammino”.
Ci sembra di incontrare, qui, i prodromi di qualcosa che in assenza di un nome specifico, potremmo azzardarci a chiamare montabilità e che nasce dalla crisi, oggi, dei grandi paradigmi di montaggio attraverso u quali il cinema ci aveva restituito un racconto del mondo e che, nonostante tutte le differenze, erano essenzialmente due: il paradigma dell’invisibilità del taglio e della simulazione della continuità – paradigma industriale – e quello della visibilità del taglio e della breccia nella continuità – paradigma sperimentale -; nel primo caso, lo spettatore è passivo – enemi, diceva Godard -; nel secondo, creativo – co-autor, diceva Cortázar -. Non si tratta più, oggi, di montare o non montare (come era il caso della differenza baziniana tra montaggio e piano sequenza), ma di porre il montare e il non montare come questione. Né montaggio della fusione, né montaggio alternato, né montaggio della distanza, ma un montaggio che, resistendo al suo farsi e disfarsi, esibisce la sua montabilità in quanto tale. Ma che cosa implica nell’economia delle immagini? Che non sarà né relazionale né conflittuale, ma strategica. Cioè, politica prima che estetica. Il risultato è una comunità sperimentale dove si tratta, appunto, di condividere continuamente le immagini trovando (stimolando) l’alterità e – l’espressione è di Daney- “piuttosto l’altro lontano che l’altro vicino”. In questo gesto di scioglimento della cornice che racchiudeva l’immagine nella sua solitudine, per ritrovarsi davanti al più lontano (un’immagine tropicale con una industriale, direbbe Bressane), scopriamo che quella comunità di immagini è una comunità sopravvivente (ma ritorneremo su questo).
Adesso, si tratta di scomporre il movimento e fissarlo. Ovvero, di mostrare il lavoro che sta dietro alla concatenazione invisibile-industriale dei pezzi. Ma quando si fissa il movimento, qualcosa appare: la carne sconosciuta del film: il fotogramma. Sempre Daney diceva che il fotogramma, l’adozione di quello che chiama “carne e inconscio del film” segna “già prima dell’avvento del videoregistratore, un momento importante e nuove domande”. Si tratta allora, davanti a questo flusso di immagini ri-distribuito, scomposto e bloccato, di lavorare già a livello del fotogramma o comunque dell’immagine fissa.


Qui Godard e Mieville utilizzano una struttura ad incastro simile ai Parallels, alle aperture e agli slittamenti di Harun Farocki: nel piano con Hitler si inserisce, in alto a destra, prima un quadrato nero e, poi, una foto di Golda Meir con il braccio alzato e la scritta “Panisrael” e “Palestina” (la relazione fra nazismo e sionismo ritorna nel riferimento, fatta da Miéville fuori campo, al nome usato dai nazisti per riferirsi ai prigionieri dei campi ridotti a uno stato di morti-in-vita, che Primo Levi chiamava “sommersi”: mussulmani – gli ebrei erano per i nazisti quello che sono i palestinesi per gli ebrei, oggi- e musulmano è la scritta che appare accanto alla foto virata in viola di un uomo in un campo in Notre Musique). A questa tecnica dell’incastro segue una più complessa “tavola di montaggio”: uno schermo dove tre immagini appaiono simultaneamente (Nixon, un caccia, un fedayin, per esempio). Sempre Farocki (che, lo ricordiamo, è a sua volta autore di un libro, Speaking about Godard, un libro-conversazione “sulle coppie”, perché scritto a due con la sua compagna Katja Silverman) teorizzava la possibilità di un montaggio che aveva definito “blando”, caratterizzato dalla compresenza sullo schermo di due immagini (per esempio, un operaio in una catena di montaggio e un missile tele-diretto filmato da un aereo in ritirata) che permetteva un legame tra successione e simultaneità, in una esposizione delle forze di produzione e annichilazione della società capitalistica. Più che montaggio, quindi, una doppia proiezione (o nel caso di Godard, tripla, che verrà moltiplicata, su uno schermo identico, dalla regista argentina Albertina Carri in Cuatreros, un film dove le immagini lottano con la loro scomparsa). Sarebbe interessante, lo dico en passant, tentare una genealogia della “doppia proiezione” come prodromo del montaggio, la cui origine è da ricercarsi nella teoria degli stili: da Heinrich Wölfflin e le sue doppie proiezioni che mostravano “ici” il Rinascimento, e “ailleurs” il Barocco, ricercando alcune invarianti stilistiche fisse in una “storia dell’arte senza nomi”, che, se vogliamo, ci rimanderebbero con forza a quel “tra”, a quella divisione in due – superficie/profondità; molteplicità/unità; chiarezza assoluta/chiarezza relativa – che per Godard “non spiega nulla”; ad Aby Warburg dove il tratto di stile diventa elemento sopravvivente: “ici” una statua greca (il precettore dei Niobidi che si difende dalle frecce di Apollo), “ailleurs” un quadro rinascimentale (David che scaglia la pietra), fino all’Atlas Mnemosyne, montaggio non finito-non finibile che attraversa non solo le Histoire(s) di Godard ma anche, e non è un caso, l’ultimo Bressane e l’ultimo Carax.
Il problema, segnalano Godard e Miéville, è che il cinema (e il sistema di immagini capitalista) non ci permettono (come nei casi sopraelencati) di “vedere le immagini simultaneamente, tutte insieme”, ma solo “separatamente, una dopo l’altra”. Nel cinema un’immagine rimpiazza l’altra, le immagini sono incatenate “come due operai alla catena di montaggio”. Per dimostrarlo, Ici et ailleurs diventa una specie di performance dove una serie di personaggi, invece di assistere passivamente al flusso delle immagini, si fanno carico portarle con sé e, dotati di un fotogramma-cartellone lo conducono, nominandolo, da un lato all’altro della macchina da presa (il “lato dello spazio” e il “lato del tempo”) in una specie di disattivazione brechtiana che smonta così l’organizzazione seriale della catena. Catena che si spezza, quindi, in fotogrammi: una fabbrica di automobili; un guerrigliero con un fardello di teste tagliate che pendono da un palo che porta sulla spalla; ebrei dietro la rete di un campo di sterminio; la pubblicità di una catena di hotel con piscine climatizzate; la struttura del DNA. Fotogrammi che cercano una montabilità che li rimetta in movimento. Ma per rimettere in movimento è necessario criticare ciò che si era filmato.
È quello che accade nella seconda parte del film, dove la voce over (di Anne-Marie) critica le immagini “giuste” che Godard e Gorin avevano filmato in Medioriente. Per esempio, in una sequenza, vediamo un membro di al-Fatḥ parlare al popolo palestinese. Ma fra il primo e il secondo, come svela la voce-over, c’è una distanza non solo geografica (lo spazio vuoto della spianata) ma retorica, che trasforma l’attivismo politico in teatro. In un’altra sequenza, vediamo un gruppo di guerriglieri che sta per effettuare un attacco suicida contro una postazione nemica: “sono rivoluzionari, dicono cose semplici” (si lamentano della disparità delle forze): colui che li stava filmando “avrebbe dovuto dirlo”; in una terza sequenza, una giovane, in primo piano, dice di essere orgogliosa di fare un figlio per la rivoluzione. La voce over ci dice di stare attenti, di prestare attenzione a chi sta dietro la macchina da presa (un uomo) che dice alla giovane che fare e cosa dire; la ragazza è attraente (questo cattura l’attenzione dello spettatore), è una giovane intellettuale (sa cosa sta facendo), non è incinta, recita una parte. Quando non si conoscono questi segreti, “il fascismo diventa possibile” (e vengono alla mente le fake news generata della AI, oggi).
Non sappiamo ne possiamo, quindi, né vedere né ascoltare se “il suono è troppo alto”. Per questo è necessario questo passaggio continuo tra “ici” e “ailleurs”, non solo tra Francia e Palestina, non solo tra denuncia e genocidio, ma fra un flusso di immagini e la loro critica attraverso una montabilità e mobilità continua, dove si tratta di “apprendere a vedere qui per ascoltare in un altro luogo”.


C’è una presenza costante che attraversa il film: Mahmoud Darwish. La voce del poeta nazionale palestinese accompagna alcune sequenze, e la sua poesia Io resisterò è recitata da una bambina palestinese davanti a una casa distrutta. Non sarà l’ultima volta nel cinema di Godard: pensiamo a un altro film dove ritorna con forza la “questione palestinese” e la sua montabilità, ovvero Notre Musique. Nel film, il poeta viene intervistato dalla giornalista israeliana Judith Lerner/Sara Adler (attrice di Ana Arabia e Tsili di Gitai) alla quale dirà che, dato che la storia è sempre stata scritta dai vincitori, lui vuole ascoltare “la voce del poeta troiano”, ovvero, con Walter Benjamin, la versione degli oppressi. Per poi aggiungere: “Ci avete portato la disfatta e la fama”. Il poeta e la giornalista parlano attraverso il meccanismo del campo e controcampo: meccanismo che nel film, Godard “smonterà” come aveva già fatto in Ici et Ailleurs: durante il seminario che, poco più avanti, impartisce agli studenti di Sarajevo, il cineasta mostra due fotografie, due fotogrammi, il “qui” e il “lì” irriducibili della “questione palestinese”: qui i palestinesi, lì gli israeliani, qui il “documentario”, lì “finzione” (da un lato la foto, a colori, dell’arrivo degli israeliani sulle spiagge di Palestina dall’altro quella, in bianco e nero, della cacciata dei palestinesi dalle loro terre), qui “Nakba” e lì “Kedma”, qui Disfatta e lì Promessa: trasformare questo abisso (che da occupazione colonialista è diventata, oggi, pulizia etnica) in un movimento di campo e controcampo è ancora possibile? Trent’anni dividono Ici et Ailleurs da Notre Musique, e praticamente venti da questo film ai tragici fatti del 7 di ottobre. Adesso la differenza è fra un campo (Israele) che vuole annichilire il proprio controcampo (Palestina). “Così è come vedono gli israeliani i palestinesi, e viceversa” faceva dire Godard a Anne Wiazemsky con un sacco nero sulla testa ne La Chinoise. Adesso, il sacco che copriva la testa della ragazza, è diventata un involucro nero per i cadaveri, e la parete davanti alla quale ella posava, un cumulo di rovine.


Perché, come dice la voce over di Godard nel suo terzo film dedicato al Medio Oriente, Le livre d’ image (2018) – segnatamente, nel capitolo 5 dal titolo snowiano, la region central – “A nessuno importano gli arabi. E nemmeno i musulmani. Gli arabi possono parlare?” Intanto, appaiono sullo schermo immagini del cinema egiziano, tunisino, marocchino. Ovviamente, gli arabi parlano, non smettono di farlo. E noi, gli occidentali, che per secoli abbiamo “chiuso” mondo arabo dentro una serie di stereotipi che si sono depositati in uno sterminato congiunto di saperi (è quello che Godard mostra attraverso le inserzioni del Ladro di Baghdad, Pasolini, Salambò Flaubert, illustrando, per pezzi di montaggio, la tesi di Orientalismo di Said), non dobbiamo smettere di ascoltarli, superando il No Trespassing concentrazionario (immagine wellesiana che nel film Godard raddoppia con il “Défense d’entrer” di Notre Musique) che una certa politica fascista e razzista non cessa di erigere tra il nostro ici e il loro ailleurs.