C’est pas moi di Leos Carax
Ceci n’est pas une pomme, c’est du cinéma!
di Edoardo Mariani

Alex Christophe Dupont è un uomo, un artista, un punto di vista sul mondo. Due occhi dietro gli occhiali scuri, due gambe distese, due mani con la perenne sigaretta accesa, le dieci dita passepartout. Alex è il padre di Leos, e invertendo i ruoli, Alex si ritrova spesso nel nome dei personaggi principali dei film di Leos, che durante la sua carriera di cineasta, ha in qualche modo portato nei suoi lavori tutte le sfaccettature di una storia intimamente distaccata e sfaldata dagli eventi intercorsi tra la finzione e la (sua) vita vera.
“J’ai changé de nom à 13 ans, bien avant de savoir que je ferais du cinéma”.
Non sono io, è la risposta di Leos Carax alla domanda “a che punto sta Leos Carax?”. Il Centre Pompidou lavorava da tempo con Carax alla possibilità di una grande video esposizione all’interno del museo, ma per una serie di motivi e complicazioni, questo progetto è rimasto incompiuto.
WORK IN PROGRESS: il flusso delle immagini non viene mai interrotto in questo film-saggio se non da delle schermate di testo, bianco o rosso su fondo nero, nelle quali Carax si sfoga, si dichiara, provoca e si lascia andare (ne riporto alcune in carattere MAIUSCOLO).
Carax aveva pensato alla figura di una tuffatrice, che avrebbe saltato dall’esterno della struttura rettangolare del Pompidou e che sarebbe finita all’interno della fossa del Beaubourg, in uno schermo-splash-gigantesco. Da progetto questi schermi sarebbero stati di 8 metri d’altezza, e avrebbero in qualche modo ridefinito il concetto di “come si risponde ad una commissione”, erano anche state pensate delle serie di schermi organizzati in orizzontale sui quali sarebbero passate le corse di Denis Lavant nei film di Carax. Ma nella carriera di Carax le cose sono state rimandate spesso, a partire dal primo tentato cortometraggio, interrotto a causa di un incendio sul set, o Les Amoureux du Pont Neuf, che rischiava di non arrivare mai alla conclusione delle riprese. Tra un film ed un cortometraggio (spesso commissionati su richiesta dopo lunghi periodi di silenzio) passano spesso degli anni, e attraverso questi lavori, Carax rinasce, torna a galla e si affaccia in superficie, per poi, spesso, tornare disteso sul letto, dai suoi cani adorati. Come Roxy per Godard e Milou per Tintin, tutto comincia con Carax disteso sul letto, attorniato dai suoi fidati canini-compagni di vita, fuma una sigaretta, l’immagine è disintegrata, con i colori invertiti. Poi Carax si stende, e comincia a scrivere sonnambulicamente dei pensieri con la mano destra, la mano che scende sul lato del letto, dove a terra giace un quaderno aperto.
I’M OK. I’M KO. L’UOMO, LA MANO, MON CUL.
Come per il gentiluomo solitario di Max et son Chien Dick di Max Linder, Carax si mostra in perfetta armonia con i suoi cani, che riempiono la stanza (e l’inquadratura), facendolo sembrare in qualche modo un uomo meno solo, anzi, un uomo in buona compagnia. Guardando questo quadretto, simile ai dipinti con i cani seduti al tavolo del poker di Cassius Marcellus Coolidge (A Friend in Need) verrebbe da dire, “meglio soli che mal accompagnati”…
Da qui, l’Helvetica, la font grafica che caratterizza tutto il lavoro di Jean-Luc Godard a partire da Numéro Deux, cucito a quattro mani con Anne-Marie Miéville, dove aveva cominciato a scrivere testi tra le immagini dei suoi film. Questi non rappresentano i cartelli nella funzione tecnica intesa dal cinema fino a quel momento, ma anzi, sono delle immagini dattilografiche indipendenti, parte integrante del montaggio. Come nelle Histoire(s) du Cinéma, come in Adieu au Langage e in Livre d’Images, C’est pas moi è un primordiale testamento cinematografico di Leos Carax. Il montaggio delle idee, la contemporaneità che entra ed esce, il cinema che non salva le vite, le immagini di morte, la rigidità e la freddezza delle immagini di Pola X in cui appare Katerina Golubeva, ultima compagna di Leos Carax (deceduta nel 2011, “quel giorno mi sono addomentato più presto del previsto”, è la frase iniziale del film…) e madre di Nastya Golubeva Carax, che qui appare prima in un vecchio video girato con uno smartphone dal padre non lontano dal Pont Neuf, e in un’altra dimensione, quella del contemporaneo, l’attrice, la giovane donna che suona al pianoforte un tema malinconico. Tutto pensa, e parla della mancanza, della mancanza di una moglie, di una madre, di una compagna. Tutto è solitudine, nella vita, forse, ancora di più che nella morte, che è come un tuffo, che è fredda come l’acqua, che è silenziosa come un fiume che sfocia nel vuoto.
C’est pas moi è un film condensato della durata di circa 40 minuti, durante i quali si susseguono diversi capitoli, che nell’insieme compongono un film denso, stranamente sinuoso, tempestoso e tragico. Trattato basato su diverse dicotomie tematiche attraverso le quali viene affrontato il rapporto dell’essere umano che si nasconde dietro al cinema di Leos Carax, e quindi dietro Carax stesso. Una mela su sfondo nero a 24 FPS non è più una mela.

MAUVAIS PERES.
CATTIVI PADRI, è in qualche modo l’incipit del film. Una serie di immagini, di foto selezionate, di memorie collettive, di eventi intimi, ma anche di “belle fotografie” della Storia della fotografia, si susseguono, e iniziamo a sentire la voce cavernosa e lontana (non mi concentrerei sull’utilizzo della voce, è la sua voce, registrata probabilmente dal microfono di uno smartphone, o comunque homemade) che commenta fuori campo : “Quello è mio padre, anche quello è mio padre. Quello no. Qui non c’è. Quello lì al centro della foto è mio padre.” Questa sequenza termina poi con l’arrivo di fotografie di cineasti (Nicholas Ray, John Ford, Jean-Luc Godard…), sui quali Carax continua a dire che sono suo padre. Ma questi sono “padri cattivi”, coloro che hanno dato al mondo loro stessi, nei film, come nella prole, ma che non ne hanno curato la crescita. I film, come i figli, una volta messi al mondo, sono della società, di chi li incontra, di chi li vive e pur mantenendo il legame genetico, sono esseri altri (da sé). O come direbbe Julio Bressane, riguardando i propri film, non si vede altro che un oggetto anonimo che ci appartiene.
Come era stato pensato per l’installazione, c’è un capitolo Denis Lavant: prima una passeggiata romantica, nel Parc de Buttes Chaumont, Leos et Mr. Merde, come due vecchi amici, a parlare del meno e del meno. Poi però a Mr. Merde scappa “una di quelle grosse”, senza pensarci due volte corre in un punto a ben in vista, abbassa il suo lurido pantalone verdone, si genuflette a natiche scoperte e (se la memoria non mi inganna, accompagnato da un peto tonante) comincia a defecare. Anche lui aveva bisogno di sfogarsi, il povero Mr. Merde. Sparse in tutto il testo del film ci sono anche tutte le varie corse carrellate di Lavant-Carax, di profilo, con la camera da una parte e la performance dell’attore dall’altra. Su richiesta, come per studio del corpo e delle sue trasformazioni davanti all’obiettivo fotografico, come fu per il fisiologo-cineasta Étienne-Jules Marey e le sue cronofotografie, Denis Lavant rende il suo corpo negli anni alla mummicazione fotografica di ogni istante che, fotogramma dopo fotogramma, correrà per sempre verso l’infinito. La corsa di un cavallo senza avversari è di per sé una corsa verso il nulla. Come Artaud nel Teatro e il suo doppio, “nell’aspetto fisico dell’attore, come in quello dell’appestato, tutto testimonia che la vita ha reagito fino al parossismo, e che pure non è avvenuto nulla“.
THETIMEISOUTOFJOINT
Polanski appena nato, Polanski a 10 anni, Polanski a 15 anni, Polanski a 20 anni, Polanski a 40 anni, Polanski a 60 anni, Polanski da vecchio. “Sono tutti uomini nati nel XX secolo…lo stesso bambino fuggito dai campi di sterminio dei nazisti, dove ha perso tutta la famiglia, lo stesso ragazzo che si è cresciuto da solo negli Stati Uniti, lo stesso marito che ha perso sua moglie e un figlio mai nato assassinati da un gruppo di invasati, lo stesso che ha stuprato una ragazzina di dodici anni”. Nel film, dopo Polanski, con la quale figura in qualche modo Carax si sente affine, passano fotografie dei vari dittatori e despoti del secolo scorso, ad un certo punto arriva Putin. Qui Carax parla degli uomini cattivi che ci vogliono fa gridare HURRA! alla violenza, alla morte e alle guerre.
SE NON SBATTIAMO LE PALPEBRE CI SI SECCANO GLI OCCHI
OGGI IL CINEMA NON RESPIRA PIÙTRA LE IMMAGINI
E RISCHIA DI SECCARSI
IL CINEMA DEVE RESPIRARE
Il carrello lento e cigolante, nebbioso, sintomaticamente traballante dell’Aurora di Murnau è lo sfondo sul quale Carax si interroga sul presente, che non può che disturbare il futuro, dello sguardo. “Se un ragazzo filma con il suo smarthpone la passeggiata della sua innamorata di spalle, quello sguardo che cos’è rispetto a quando una serie di persone spingevano il carrello a seguire i personaggi dei film”. Oggi sul set, prima di ogni scena, si grida ancora “MOTORE”, quando nelle videocamere digitali non c’è più nessun motore in azione, nessun ingranaggio. E si dice ancora “SI GIRA”, quando non c’è più nessun genere di supporto fisico che gira per registrare i fotogrammi. Il cinema è ormai un discorso numerico ma…”speriamo che non finisca anche l’azione” (ha detto Carax al Centre Pompidou durante l’avant-premiere del film).
COME RITROVARE LO SGUARDO DEGLI DEI ?
Sempre durante la prima parigina del film Leos Carax ha detto: “per fare cinema non serve saper dipingere, saper suonare uno strumento o saper cantare…ma bisogna avere il ritmo della musica”, come canta David Bowie nel brano Lazarus che apre il suo ultimo disco:
You know, I’ll be free
Just like that bluebird
Now, ain’t that just like me?
Oh, I’ll be free
Just like that bluebird
Oh, I’ll be free
Ain’t that just like me?
In Mauvais Sang ci sono due figure, forse rappresentanti di un’altra epoca, di un altro cinema, che in qualche modo rispondono a questa serie di questioni, che oramai arrivati alla fine di questo testo sembrano non arrivare più a toccare il fondo. Michel Piccoli, nei panni di Marc, dice “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, e più avanti invece Hugo Pratt (Boris) dirà “Je veux changer de vie, c’est hors e prix!”
Citando da uno scritto di Daniela Turco, pubblicato qui su Filmcritica: “Oggi si continua a essere grati a Carax, come a Godard, a Tarantino, a Garrel, a Lynch e a tutti i registi che continuano a considerare il cinema e tutta la sua storia infinita come un corpo ancora vivo e pulsante, che non ha mai smesso di pre-occuparci, perturbarci e di esserci contemporaneo”1. E, in ogni caso, come scriveva per l’uscita di Annette due anni fa anche Francesco Scognamiglio, “Tra battiti cardiaci o musicali, il fumante Leos Carax è ancora vivo grazie al montaggio”2. Allora facciamoci marionette senza fili, e come Baby Annette, liberi balliamo, e balliamo forte sognando ancora un mondo senza guerre.

- https://www.filmcriticarivista.it/annette-di-leos-carax-3/ ↩︎
- https://www.filmcriticarivista.it/annette-di-leos-carax/ ↩︎