Desiderio di diventare pellerossa: il “cinema” di Kafka
di Lorenzo Esposito, Karel Och
La versione in inglese, più breve e sensibilmente differente, di questa introduzione alla rassegna THE WISH TO BE A RED INDIAN: KAFKA AND CINEMA tenutasi durante il Karlovy Vary International Film Festival dal 28 giugno al 6 luglio 2024, è pubblicata sul catalogo del Festival e diponibile on-line sul sito www.kviff.com
Oh, essere un indiano, sempre pronto, e sul cavallo in corsa, fendere l’aria, vibrare sempre di nuovo brevemente sul terreno che vibra, finché si lasciano gli speroni, poiché non ci sono speroni, finché si gettano le briglie, poiché non ci sono briglie, e non si vede più che la campagna davanti a sé come una landa pelata, già senza il collo e senza la testa del cavallo.
(trad. Anita Rho)
Se fossi un pellerossa, e sempre pronto, e sempre vibrante sopra il cavallo in corsa, cavalcando, sulla terra che vibra, fino a non servirmi degli speroni, poiché non c’erano speroni, fino a buttar via le redini, poiché non c’erano redini, e vedessi appena la terra davanti a me come un prato mietuto di fresco, già senza collo di cavallo e testa di cavallo.
(trad. Henry Furst)
Se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sinché si lasciavano gli sproni, perché non c’erano sproni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza collo e la testa del cavallo!
(trad. Rodolfo Paoli)
Ma se almeno si fosse un indiano, subito pronto, e sul cavallo in corsa, obliquo nell’aria, si vibrasse sempre un poco sulla terra vibrante, fino a lasciare gli speroni, perché non c’erano speroni, fino a gettar via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedesse appena la campagna davanti a sé come una brughiera liscia e mietuta, senza ormai il collo del cavallo né la testa del cavallo.
(trad. Mauro Nervi)
Nelle parole e nel desiderio del racconto di Franz Kafka che dà il titolo a questa rassegna si intuisce una forza immaginativa che potremmo definire senza dubbio cinematografica. Desiderare di essere un pellerossa in corsa sul suo cavallo e piegarsi nel vento fino quasi a diventare il cavallo e poi, sempre più sottili, fino a vedere il proprio corpo liberarsi (anche di quello che ci tiene aggrappati al cavallo, gli speroni e le briglie – che però forse non ci sono mai stati) e allinearsi all’elettricità dell’aria (perché anche il cavallo viene risucchiato dalla velocità e non ha più collo né testa – che però forse non ha mai avuto). Come l’avventura cubista dell’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov o come la cinepresa di Michael Snow che ispeziona la terra e ci fanno girare la testa portandoci nella region centrale (“una brughiera liscia e mietuta”, l’immagine liscia e liquida che si vede da questa posizione). O solo come l’effetto lisergico della cavalcata di Muybridge.
La bellezza e la grandezza di Kafka (e, talvolta, del cinema) è che ogni interpretazione è solo la prima o l’ultima di tante ancora possibili, tutte portatrici di un viaggio che sicuramente vale la pena intraprendere (se non fosse che – come Kafka ci dice in un altro racconto breve e prodigioso, Il prossimo villaggio, scritto presumibilmente all’inizio del 1917 circa dieci anni dopo Desiderio di diventare pellerossa – ci sarebbe da chiedersi come anche solo si possa pensare di cominciare questo viaggio “senza temere che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontamente a una simile cavalcata”).
Kafka muore cent’anni fa, il 3 giugno 1924, nel sanatorio di Kierling in Austria per un aggravarsi della tubercolosi diagnosticata nell’agosto 1917, quando alla fine la malattia dai polmoni si era diffusa fino alla laringe quasi non permettendogli più di parlare. A cent’anni dalla sua scomparsa, tutto è ancora possibile, Kafka è ancora tutto da leggere e da… vedere.
Dunque, per una rassegna di cinema ‘kafkiano’ (una delle molte possibili) la scelta di questo racconto breve tratto da Meditazione, il primo libro pubblicato in vita da Franz Kafka nel 1912, non è casuale. Così come il primo desiderio è di diventare pellerossa e poi quasi di diffondersi nell’aria intorno all’idea di un cavallo in corsa, questa rassegna segue due linee principali: da una parte gli adattamenti, i film e i registi che hanno cercato di confrontarsi direttamente con le opere di Kafka; dall’altra le influenze, quella specie di onda d’urto provocata da Kafka che così tante volte ci fa definire kafkiani un film o un regista o la nostra realtà: tutta la storia del cinema è attraversata, spesso anche dove meno ce lo si aspetta, dall’influenza di Kafka.
Di Desiderio di diventare pellerossa, che in quei racconti giovanili per stile e visionarietà è, insieme a Il commerciante (un altro racconto che finisce con dei cavalli), uno dei più strani e fuori dal coro, ci piace anche che non esista manoscritto, e che dunque non sia possibile datarlo con esattezza (dovrebbe essere stato scritto, insieme alla maggior parte di questo gruppo, intorno al 1907, tanto che in seguito, per esempio quando Kafka regala una copia del libro alla fidanzata Felice Bauer, lo scrittore praghese li definirà “roba vecchia”). Kafka stesso non vi fa mai riferimento specifico, né nei diari né in altri frammenti. È come se Desiderio di diventare pellerossa fosse una pietra unica custodita all’interno di un gruppo di pietre già miliari (un po’ come accade a tutti noi quando facciamo una lista di film preferiti e ne mettiamo dentro uno che non ci si aspetta, che è solo nostro). Una vera e propria visione, un pensiero improvviso lì per lì importantissimo ma per qualche misterioso motivo subito dimenticato. Ecco, pensare Kafka, vedere Kafka oggi – qualcuno che siamo certi accompagna tutti noi per tutta la vita – significa farsi attraversare dal desiderio, forse dall’utopia, di recuperare quell’immagine, quell’idea improvvisa subito volata via. Una conversazione ininterrotta nell’attesa quasi mistica – tipica di chi non smette di leggere Kafka – di venire a sapere qualcosa della vita o di sé stessi.
Eppure, Kafka ha in qualche modo sempre sentito la centralità di questo racconto e non ha mai smesso di tornarci sopra. E la stessa cosa vale per Il prossimo villaggio.Bertold Brecht resisteva quando Walter Benjamin lo invitava a discutere Il prossimo villaggio. Come riporta Benjamin negli appunti presi a Svendborg nell’estate del 1934, la prima reazione di Brecht è: “Bisognerebbe studiarlo bene”. È il 5 agosto. L’appunto successivo data 31 agosto e riporta di una lunga discussione su Kafka che “si è concentrata per momenti sulla storia Il prossimo villaggio”. Brecht, che si richiama alla storia di Achille e la tartaruga (così come fa anche Borges, che mette Zenone tra i precursori di Kafka), dice “uno non arriva mai al villaggio vicino”, ma “l’errore sta in quest’uno. Poiché proprio come è scomposto il percorso, così lo è anche chi lo percorre”. Benjamin risponde: “Io, da parte mia, do l’interpretazione seguente: la vera misura della vita è il ricordo”.
Desiderio di diventare pellerossa è forse il racconto di Kafka che più anticipa e più si avvicina al mistero abissale contenuto ne Il prossimo villaggio. Benjamin li legge insieme, li sovrappone. E ne aggiunge uno (annunciato in una lettera a Gershom Scholem del 11 agosto 1934): Il cavaliere del secchio, scritto da Kafka nello stesso periodo de Il prossimo villaggio, durante il durissimo inverno 1916-1917, mentre viveva da solo a Praga nel minuscolo appartamento della Alchimistengasse. Così il secchio con cui si andrà a implorare un ultimo badile di carbone in quei tempi così difficili non viene portato ma “cavalcato” e l’impugnatura è la “briglia più semplice” e le “strade congelate” vengono percorse al trotto. Forse anche Benjamin – studioso geniale fra l’altro dell’immagine vertoviana (nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) – vedeva le implicazioni cinematografiche di questi racconti. I tre cavalieri acrobatici – il pellerossa, l’uomo del secchio e il giovane cui lo spazio e il tempo di una vita verrebbero a mancare se si fermasse per un momento anche solo a pensare alla vita stessa – hanno in comune proprio questo con i film e il cinema: sono al tempo stesso protagonisti e spettatori di un naufragio che gli è dolce. Non sono solo l’immagine né solo lo spettatore, vivono continuamente in equilibrio tra le due posizioni, arrivando a far coincidere perdita di sé e verità.
Ecco, il cinema, ancora oggi l’unica cosiddetta arte che, inventando altre realtà, riesce a farci comprendere meglio la nostra realtà, sembra dirci quanto sia difficile essere, arrivare all’essenza delle cose mentre la vita ci travolge. In fondo questa era la preoccupazione maggiore di Franz Kafka. Siamo vivi, respiriamo, godiamo, godiamo a vedere rivedere leggere rileggere amare riamare: eppure tutto questo ci soffoca (però, mentre diciamo questo, dobbiamo immaginare Kafka che ride, non che piange!). In una lettera a Felice scritta fra il 4 e il 5 marzo 1913, Kafka si lamentava che un attore di teatro molto famoso e da lui molto apprezzato, Albert Bassermann, desse la sensazione di aver perso la sua aura nel passaggio al cinema, dove sembrava troppo umano e dove le piccole storie che doveva recitare potevano essere senza significato, mentre “in fin dei conti le istantanee di un cavallo che salta sono belle quasi sempre” (Kafka forse sta pensando ancora a Muybridge).
Così, quando Kafka viene colpito dalla malattia e si trasferisce per otto mesi fra il settembre 1917 all’aprile 1918 a Zürau, nella campagna boema a casa della sorella Ottla, e scrive i famosi 109 aforismi, è ancora a questi due racconti che torna a pensare:
Aforisma 38: “Un tale si meravigliava di quanto facilmente procedesse sulla via dell’eternità; di fatto, stava sfrecciando in discesa.”
Aforisma 45: “Quanti più sono i cavalli che attacchi, tanto più velocemente riuscirai – non già a svellere il blocco dalla sua base, cosa impossibile, ma a strappare i finimenti e a lanciarti nel vuoto, allegro viaggio.”
Scrivere fare film e essere poeti: sono cose vane? Lo spettatore di cinema, il lettore sono indiani? Vorrebbero liberarsi dalla poltrona, dallo schermo, dal libro (ammesso che queste briglie ci siano mai state) e finanche dai loro stessi occhi che inseguono il desiderio? E poi, esiste ancora la possibilità che il desiderio si aggiri liberamente per il mondo? Per esempio, l’ultimo film di Martin Scorsese sui nativi americani, non parla proprio di questa ricerca della verità e della libertà in un mondo assediato dalle ombre? Di nuovo, non è angoscia, è un misto di riso e consapevolezza: Kafka, in uno dei racconti più comici che abbia mai scritto, la definisce la confusione di ogni giorno. Desiderio di diventare pellerossa risponde a questa domanda ricordandosi di una certa malinconia che gli respira intorno e che resta intatta anche dopo la trasformazione; Il prossimo villaggio risponde con un misto misterioso di pura metafisica e spirito caustico.
Che rapporto aveva con il cinema Kafka? In un lontano diario di viaggio a Friedland e Reichenberg (gennaio-febbraio 1911), Kafka racconta quasi di sfuggita un’esperienza al Kaiser Panorama che rivaleggia con quella, più famosa, di Benjamin in Infanzia berlinese. Prima nota che nel Kaiser Panorama “le immagini sono più vive che al cinematografo perché consentono allo sguardo la calma della realtà”. Poi scrive una frase impareggiabile, difficilissima da capire: “Il cinematografo imprime a ciò che si guarda il suo moto irrequieto, mentre la calma dello sguardo mi sembra più importante”. Per calma dello sguardo Kafka intende la calma della realtà – qualcosa di così semplice, da risultare irraggiungibile. Tuttavia, nonostante la gravità dell’intuizione, l’immagine più potente viene scritta qualche paragrafo prima quasi sottovoce, ed è di un’ironia tenace, mirabile e disperata: quando Kafka entra nel Kaiser Panorama si accorge di avere le scarpe tutte sporche, ricoperte di neve, e allora resta tutto il tempo in una posizione goffa, seduto toccando il tappeto con le punte dei piedi. Qui Kafka sembra la figura di uno dei suoi disegni o schizzi oblunghi e dinoccolati e denuncia la tenerezza di chi, per vivere, sa che bisognerebbe non prendersi mai troppo sul serio. Benché sappiamo che le parole di Kafka riportate da Gustav Janouch sono di dubbia veridicità, va ricordato qui il famoso passo sul cinema contenuto ne Colloqui con Kafka, che sembra non lontano da queste riflessioni del 1911. A domanda di Janouch, “lei non ama il cinema?”, Kafka avrebbe risposto: “A dire il vero non ci ho mai pensato. Si tratta di un giocattolo grandioso, ma io non lo tollero, forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi e il cinema impedisce di guardare […]”. In verità, l’analisi di Kafka non è negativa, ma coglie qualcosa che – mentre si continuano a fare film – sappiamo del cinema: per trovare “una calma di sguardo” spesso se ne allontana.
Dunque è questo che desideriamo: essere pellerossa. È questo che facciamo: cerchiamo il prossimo villaggio. Eppure ci resta incomprensibile come si possa anche solo pensare di cavalcare, a meno che non si diventi in tutto e per tutto il cavallo, zoccoli criniera e vento – il segreto dell’indiano.