Yukio Mishima e il suo sesto nō moderno
di Sergio Arecco
Non mi pare inopportuno ricordare il centenario della nascita dello scrittore (14 gennaio 1925) – attualmente evocato in abbondanza tramite ampi sussidi mediatici, editoriali e museali: prossima mostra a Roma – con la rivisitazione dell’unico film diretto e interpretato dallo scrittore come se fosse una figura nel senso auerbachiano, ovvero una pre-figurazione, autoriale e attoriale, del suicidio da lui solennemente inscenato per via diretta e non più finzionale il 25 novembre 1970. Paul Schrader, ha giusto concepito il suo Mishima del 1985 simulando questo doppio legame (che corrisponde tecnicamente sia al double bind teorizzato in antropologia da Gregory Bateson sia alla posizione schizoteorizzata da Melanie Klein in psicoanalisi). Il titolo del pezzo rimanda ai Cinque nō moderni di Mishima pubblicati nel 1956.
“Il 28 febbraio 1936 (tre giorni dopo l’Incidente del 26 febbraio) il tenente Shinji Takeyama, profondamente turbato dall’aver saputo che i suoi più stretti colleghi si erano messi dalla parte degli insorti fin dall’inizio, e indignato dall’imminente prospettiva di vedere truppe imperiali combattere contro truppe imperiali, prese la spada da ufficiale e, secondo il cerimoniale, si aprì gli intestini nella stanza da otto tatami della sua residenza privata. La moglie Reiko ne seguì l’esempio, pugnalandosi a morte”. Sono le parole di apertura di una pergamena che una mano in guanti bianchi – la mano destra dello stesso Yukio Mishima – svolge davanti agli occhi dello spettatore di Patriottismo (Yūkoku (1966, b/n, 30’) a mo’ di didascalia esplicativa.
L’Incidente è il colpo di stato abortito a cui il tenente è venuto meno, pur avendolo promosso, maturando così in sé un tale complesso di colpa da sentirsi indotto alla consumazione domestica del seppuku. E le parole sono le parole d’apertura del racconto omonimo scritto da Mishima cinque anni prima, nel 1961 (compreso nella raccolta Morte di mezza estate), intitolato a sua volta Patriottismo (Yūkoku). Un commento ispirato a quel senso di lealtà militare che per un giapponese come lui, acceso nazionalista e interprete della tradizione dell’onore imperiale – la stessa celebrata dall’Hagakure, il trattato settecentesco sull’etica samurai di cui lo scrittore si è fatto esegeta e apologeta –, non può non sconfinare nel sacrificio di sé e della propria causa.
Mishima si fa, nei medesimi anni Sessanta, interprete della tradizione più sofisticata e puristica della scena giapponese, con una rivisitazione quasi filologica del nô, forma teatrale rarefatta e formalizzata, antinomica alla messa in scena popolaresca del kabuki, tendenzialmente chiassosa e ridondante. Per cui, in Patriottismo, il tenente Takeyama, impersonato da Mishima stesso, con la visiera da ufficiale della Guardia imperiale abbassata fin quasi a coprirgli gli occhi – allusione alla maschera dello shite, l’attore protagonista della drammaturgia nô – entra così cerimonialmente in campo dal lato sinistro e va a occupare la piattaforma centrale dello spazio predisposto (lo hon-butai), un involucro bianco della misura di otto tatami sovrastato da un takemono con la scritta, in nero e a caratteri cubitali, “Sincerità assoluta”: un parallelepipedo astrale al cui centro lo attende, in kimono scuro, la moglie Reiko (l’attrice debuttante Yoshiko Tsuruoka).
Capitolo I. Reiko (così si legge sulla pergamena). Una giovane Reiko innamorata accarezza animaletti in miniatura che le sono cari, sparsi su un panno candido, se ne stringe uno al petto destinato a infrangersi sul pavimento (infausto presagio) e immagina (sovrimpressioni) di essere a sua volta accarezzata dalle mani del marito, sul punto di manifestarsi in carne e ossa. La donna ha appreso la notizia dell’Incidente dai giornali e sa bene che lui non acconsentirà a sopravvivere alla morte dei compagni, votatisi sacrificalmente al suicidio per decapitazione. Come sa bene che non potrà, per devozione, non morire con lui.
Capitolo II. Il ritorno del tenente. Takeyama rincasa. Dopo essersi scrollata la neve dal cappotto, una volta nell’anticamera si sfila gli stivali appoggiandosi al muro, un poco barcollante su una gamba; consegna alla moglie-assistente (ruolo postulato dal nô) la spada d’ordinanza; si siede ritualmente accanto a lei su una stuoia posta sotto un muro vuoto su cui è dipinto un ideogramma che significa “Lealtà”; l’abbraccia; la bacia; le rivolge mute parole di comunione (il film è di per sé muto, solo increspato dall’eco orchestrale, wagneriana, del Preludio/Amore e morte dal Tristano e Isotta); si fonde con l’analogo vuoto con cui si è fusa Reiko.
Capitolo III. L’amplesso finale. Sullo sfondo della concertazione del liebestod wagneriano, la congiunzione sessuale, dopo un reciproco sguardo tenero e malinconico, viene consumata in intima comunione con la spada assegnata al seppuku, occhi negli occhi (primissimi piani), tesi tra gioia e dolore, membra allacciate, capelli lussureggianti di lei disciolti tra le mani di lui, l’addome di lei coperto dal palmo della mano di lui, vello toracico di lui sul vello pubico di lei, in un’estenuante sequenza di pose segmentate e stilizzate (torna in mente il Resnais di Hiroshima mon amour).
Capitolo IV. Il tenente fa harakiri. Prima completamente nudo, ai piedi di lei rivestita con il kimono ora bianco del suicidio, sempre con il conforto della spada-feticcio. Poi rivestito a sua volta di tutto punto secondo le regole del bushidō, con l’istituzionale berretto a visiera, infine inginocchiato nell’atto di affilare la lama, impugnarla proteggendosi il palmo con un usuale foglio di seta, affondarla nel basso ventre dopo essersi sbottonato la divisa e rigirarla a fondo fino a far scorrere il sangue a fiotti; fino a ripiegarsi, straziato, su se stesso con la bava alla bocca – lungo l’intero arco dell’esecuzione, il campo-controcampo provvede a suggerire l’impressione di un duplice orgasmo, sommando la visione estatica di lei all’estasi di lui.
Capitolo V. Il suicidio di Reiko. Il bushidō comporta, per antico costume, lo shinjū, il suicidio a due per amore, una variante che Mishima prevede al posto e a compenso della mancata, nella circostanza, decapitazione. Un tocco di delicatezza tutta orientale che sospinge Reiko prima davanti allo specchio per il trucco (piumino, rossetto, sorriso complice a se stessa), poi a condividere con il marito la morte violenta in un modo meno crudo, trafiggendosi la gola con la punta di uno stiletto estratto dalla manica del kimono. Poco prima ha deterso la saliva mista a sangue dalle labbra del marito. E ora cade in diagonale, sacralmente, sul suo corpo. Al che, lo scenario si dissolve. La stuoia si trasforma in un banco di sabbia sottile, ondulato come un tipico manto nô. E, come fossero su una zattera, i due morti riappaiono trascinati alla deriva, verso una sorta di eternità.
La delicatezza, persino il quotidiano, perché no, in mutua simbiosi. Tanto che l’iconografia conclusiva estetizza il connubio dei due sposi – lei riversa sul corpo di lui – proiettando in abstracto i defunti sullo sfondo di un giardino zen, mentre la mano di Mishima lascia che si riavvolga definitivamente la pergamena, una volta inscrittavi la parola Fine. In fondo lo scrittore, impegnato come detto nella sua unica performance su pellicola, non fa altro – girando quasi in clandestinità, e in modo assai difforme dalla novella originaria, il suo Yūkoku cinematografico – che anticipare di quattro anni il seppuku consumato il 25 novembre 1970 in diretta televisiva dal Quartier generale dell’Armata Est di Ichigaya, a Tôkyo, previo appello al reggimento di turno a fare come lui, in segno di protesta contro la smilitarizzazione imposta al Giappone dagli Stati Uniti.
Il film, per volontà del medesimo Mishima, non sarebbe mai dovuto circolare. Custodito per 40 anni dalla vedova Yoko, è stato recuperato dal produttore Hiroaki Fujii nel 2006 e presentato pubblicamente in dvd allo scopo di far conoscere ai giovani l’autentica, intima idea della morte coltivata dallo scrittore, molto meno indelicata di quella offerta in pasto alle telecamere. Marguerite Yourcenar (1903-1987), potendo fruire per sommo privilegio di una ricezione preventiva dell’opera, finalizzata alla stesura del suo fondamentale Mishima o la visione del vuoto (1981), già sottolineò a suo tempo l’impasto di prosaico e di sublime, come se l’esecuzione di sé non infirmasse in alcun modo lo scorrere di un tempo che, malgrado l’incidenza tragica di un arresto momentaneo, non può non continuare a fare il suo corso immortale, cancellando in un soffio l’evento traumatico come un pallido sogno, come una pura evaporazione di una carne e di un corpo inesorabilmente mortali.
Di più. La scrittrice, arriva a proporre una differente traduzione del titolo Yūkoku, e suggerisce Lealtà, a conferma della sua lettura non convenzionale di Patriottismo, inteso come un nō moderno ambientato in una cornice borghese. Ma che dire della solennizzazione calligrafica con la quale Mishima trascende la solo apparente poetica della non recitazionedegli attori, nella misura in cui egli stesso recita, con i gesti rituali di una liturgia antichissima, il “poema dell’addio”, la preghiera della richiesta di perdono indirizzata all’Imperatore, un’orazione che recita in prima persona, in compagnia di Yoshiko Tsuruoka, davanti all’altare domestico? Parte del sangue che scorre dalle viscere di Mishima sarebbe, a detta di una Yourcenar che in tal caso smentirebbe se stessa, sangue suo. Al che, il nō non risulterebbe solamente ri-recitato, sia pure con qualche cadenza in minore, sarebbe nobilitato fino al suo estremo limite. As he wanted Mishima.
