Di alcune vecchie lettere ritrovate
di Sergio Arecco
Solo una cosa ti chiedo, di credere a tutto ciò che il mio dolore, rifugiatosi presso di te, ti confiderà. Credi a tutto, solo di questo io ti prego.
Stefan Zweig, Lettera di una sconosciuta, 1922 / Max Ophuls, Lettre d’une inconnue, 1948
Da New York (Franco Angeli, Italia, 1969, 45’)
L’impatto della Grande Mela, della sua novità foto-fono-iconografica sul neofita che la vive per la prima volta non è, tanto per dire, il medesimo impatto tradotto in immagine/feticcio da Mario Schifano nel 1964 – il monocromatico Reflex, b/n, spiazzato e spiazzante, scorporato dall’insieme, estraniato, introverso, da occhio feticista, ossessionato dall’epifania schermica o multischermica. L’impatto della Megalopolis, della New Rome, esercitato cinque anni dopo su un esponente contiguo dell’avanguardia romana, Franco Angeli (1935-1988), è di natura più estroversa, più glamour. Sarà per l’impiego caldissimo del colore, per giunta sgranato come su una tela pop, sarà per la reminiscenza dei Diaries di Jonas Mekas, della loro texture rutilante e circense, sarà per il montaggio post (postsonirizzazione e postproduzione) di un caos organizzato in cui sono ben visibili le giunte e le cuciture – laddove Schifano preferiva “montare in camera”.
Fatto sta che Lettera da New York (colore, 16 mm., ultima performance del breve excursus cinematografico di un artista che è principalmente pittore, e si scopre filmmaker solo nel triennio 1967-1969) si offre, quasi fanciullescamente, come un festival del suono e del colore, dell’attimo fuggente (cifra distintiva, per il neofita Angeli, di New York) e della disarmonia prestabilita. Nel senso che il “fanciullino” Angeli, perlomeno in Lettera da New York, è ludico non perché giri fotogrammi al contrario, come talvolta fa negli altri corti sperimentali; è ludico perché continua la personalissima ricerca che conduce in pittura, in particolare sulla dissolvenza incrociata e sulla scenografia come stratificazione – pensiamo agli spazi concepiti come dispositivi onirici creati per I visionari di Maurizio Ponzi, 1968.
Gli spazi di Lettera da New York, e di New York (visivi e sonori), sono cioè, per Angeli, altrettanti spazi onirici coniugabili tra loro in virtù di multiple dissolvenze e di multiple sovrapposizioni, secondo una grammatica dell’artificio che osserva ritmi e frequenze tutt’altro che casuali o accidentali. Non a caso si è detto caos organizzato e disarmonia prestabilita. I registri preferenziali, peraltro gestiti in modo non dogmatico, sono infatti due. E sono semplicemente due perché due sono semplicemente le coordinate spaziotemporali del cinema come pura texture, l’esterno (per Angeli perlopiù esterno giorno) e l’interno (per Angeli interno giorno e interno notte). L’artista Angeli, che si trova a visitare e percorrere la Grande Mela a poco più di trent’anni, non è solo un neofita di New York City, è anche un neofita, nonché un frequentatore passeggero, del cinema, per cui vi si muove (nel centro urbano come nel centro dell’immagine) da nuovo venuto, da nuovo fanciullesco manipolatore della sua anima e dei suoi prestigi (usiamo una dittologia cara al poeta Lucio Piccolo). Dove fanciullesco sta per elementare. Sicché, elementarmente, la dissolvenza incrociata per via di accelerazione, a tratti vorticosa, al limite della leggibilità dell’icona, investirà l’esterno giorno; mentre la sovrapposizione, anch’essa spinta a tratti oltre la soglia della discernibilità dell’icona, investirà l’interno giorno o notte. E a legare il tutto interverrà un tappeto sonoro non meno multiforme, intessuto di annunci, notiziari, commenti, voci d’ogni origine e indole.
Dimenticare Schifano? Non del tutto. Nell’ambito dell’interno giorno o notte la sovraesposizone ottica di Angeli è spesso sovraesposizione schermica e si omologa a quella di frame della più varia natura (bar, ritrovi, cinema, sale giochi, musei, stanze del Chelsea Hotel, volti e oggetti giustapposti in una sorta di bombardamento alla Lichtenstein). Nell’ambito dell’esterno giorno l’accelerazione visionaria è spesso così vertiginosa da evocare da vicino il senso di vertigine di opere schifaniane come Round Trip e lo stesso Reflex – con la differenza, certo sostanziale, che la ricognizione di Angeli è tutta in orizzontale, un’espansione rettilinea di piani e contropiani convulsi, in una fuga senza fine di ‘prestigi’ che, per definizione, tendono a sfuggire a ogni identificazione, anche a quella del più prestigioso dei prestigiatori. Sì, crediamo, per alcuni secondi – grazie a un illusorio rallentamento – di riuscire a seguire il motu proprio di un fanciullo metropolitano, berrettino e giubbotto ben calati, alla ricerca di un telefono o di un interlocutore (è la sequenza più struggentemente autobiografica del film), ma ecco che lo perdiamo di vista quasi subito, irrimediabilmente. Sì, crediamo, per alcuni secondi – sempre grazie all’illusione di un arresto nella corsa a inseguimento dello spazio-tempo – di afferrare, addirittura in primo piano, il bel volto di una fanciulla bionda in libera uscita su una terrazza, ma anche la sua si rivela una presenza effimera.
La corsa riprende inarrestabile – auto, folla, insegne, mezzi pubblici, hotel, strade innevate (è gennaio) – e, a un determinato punto (verso la fine) dà l’impressione di diluirsi solo per la, voluta, diluizione di un colore finora accesissimo e ora momentaneamente più scialbo: non certo per virtù propria. Per cui succede che l’unico episodio del film riprodotto a velocità normale sia quello, in esterno giorno, dei festeggiamenti tributati da New York agli astronauti della prima missione spaziale sulla Luna (che la fanciulla si sporgesse dalla terrazza per vedere proprio loro, sia pur facendo parte di una ‘serie’ precedente?). Chissà perché? Forse, nel gioco fanciullesco di Angeli, per una sorta di antitesti ideale tra chi ha tanto viaggiato – addirittura nei cieli – e chi, come lui o qualunque comune mortale, ha viaggiato solo per viaggiare, illudendosi di non fermarsi mai.
Jeune femme à sa fenêtre lisant une lettre (Jean-Claude Rousseau, Francia, 1983, 46’)
La prima immagine tangibile, in Jeune femme à sa fenêtre lisante une lettre (colore, super8) non è, come sarebbe legittimo aspettarsi, quella dell’omonimo quadro di Jan Vermeer dipinto intorno al 1657, il primo ritratto nel vero stile Vermeer, esposto oggi alla Gemäldegalerie di Dresda. L’opera comparirà, sì, ma più avanti, e fuggevolmente, solo al ventesimo minuto del mediometraggio, come se fosse un objet trouvé, e trovato per caso, nella logica illogica del dada. La prima immagine, dadaica quanto basta, è quella di una carta topografica, spiegazzata, appesa senza una ragione plausibile a un muro, la carta di una zona imprecisata della Francia. Casuale. Illegittimo. Nel suo primo film, propiziato come i successivi, quantomeno fino al lungometraggio-capolavoro, La Vallée close (1988), dall’amichevole rapporto con Jean-Marie Straub e Danièle Huillet – maestri che si guarda bene dall’imitare –, Jean-Claude Rousseau, pur prendendo spunto dall’idea di atelier (si pensi al loro Cézanne), si diverte a comporre-scomporre materiali per l’appunto dadaici, quei materiali componibili-scomponibili a piacere che gli può offrire un set verosimile ma non vero, con tanto di finte-vere finestre aperte sull’esterno (un paesaggio con abitazione dirimpetto e albero frusciante per effetto di un leggero vento tra le fronde), pannelli rimovibili, rumori o voci o musiche radiofoniche, pareti vuote assimilabili ad altrettanti pannelli, soffitto inquadrato dal basso in alto, il tutto su tinte chiare, esaltate dal frequente controluce della finestra che trasforma i due unici personaggi – un donna-assistente che non ha nulla a che vedere con la giovane donna che legge una lettera davanti alla finestra di Vermeer e un giovane uomo – in due ectoplasmi.
Catturati da chi? Evidentemente, autobiograficamente, da quel giovane uomo che è lo stesso Rousseau, il quale, come fanno spesso i registi sperimentali, si manifesta in quanto tale solo dieci minuti prima della fine, mentre armeggia con il treppiede e la cinepresa, per giunta inquadrandosi, provocatoriamente, da un’angolazione sghemba. Lo si riconosce perché, vedendo poi La Vallée close(che è proprio la Valchiusa delle Chiare, fresche e dolci acque cantate da Petrarca in onore di Laura), lo s’intravede lì, a un dato momento – uno solo –, seduto su una sedia di cucina (il film, poggia per intero sul contrappunto esterno/interno, solarità/grigiore). Sennonché La Vallée close è, com’è prevedibile, molto più pittorico di Jeune femme à sa fenêtre lisant une lettre, il quale, è antipittorico per partito preso, forte della dadaica mescolanza di materiali intercambiabili (fenêtre non rima con lettre?) Al punto che, verso la conclusione, a leggere la lettera, introdotta dal primissimo piano di una busta gialla ancora da aprire e già ricoperta di appunti – come se fosse stata prima utilizzata quale superficie neutra per trascrivervi metacinematograficamente le note di lavoro per il film in corso –, davanti alla finestra che ha fatto o da sfondo o da punto focale per l’intero mediometraggio, è il giovane uomo, Jean-Claude Rousseau in persona, chino sul lungo foglio piegato verso il basso per via della piega della mano di chi lo sta reggendo/leggendo, come appare china sul lungo foglio piegato verso il basso la giovane donna di Vermeer.
Qui, tuttavia, non rifulge, come in Vermeer, alcuna tenda verde sulla destra né alcuna tendina rossa in corrispondenza della finestra né alcun tappeto o addobbo. Qui, dadaicamente, lo spazio è nudo per assioma, piattaforma astratta per movimenti fine a se stessi: quelli dei pannelli cha sembrano quasi spostarsi da soli in conseguenza dei rapidi spostamenti della mdp, quelli della donna-assistente (di cui vediamo, da tergo, solo le grosse gambe a tubo) che li rimuove per rimetterli poi dov’erano prima, quelli del giovane uomo che cammina avanti e indietro, prima indossando un camice, poi sedendo su una sedia, poi togliendosi il camice che depone sulla spalliera della sedia stessa, infine decidendosi ad accostarsi alla finestra per leggere una buona volta, indugiandovi poi a lungo, la lettera. Del cui contenuto scribacchiato frettolosamente a mano, sempre per assecondare la grammatica irregolare di significanti discretamente arbitrari e fungibili (la lettera rubata?), ci è già stata offerta una parzialissima nozione parecchio tempo prima: “Cette lettre verrait, dans le film, verrait posée sur la table à la visionneuse. […] Et après mon départ la fenêtre ouverte faira que la lettre s’envole”. Quando, sempre a contrario, niente del genere avrà luogo nel film definitivo (per così dire). La lettera non volerà affatto via dalla finestra e resterà tra le mani dell’assorto leggente (veggente?), il quale, dopo averla a lungo visionata, si allontanerà perplesso dalla finestra e chiuderà la cosiddetta visionneuse, vale a dire quanto è stato visibile di un film probabilmente in progress, come tutti i film d’avanguardia. Per intendere il quale sarà forse opportuno ricorrere all’epigrafe con la quale Rousseau introdurrà La Vallée close, dedotta da un vecchio corso di geografia (1924) di Jean Brunhes: “Ogni lezione di geografia dovrebbe essere sia preparata sia completata da uno studio condotto sul terreno, da una lezione-passeggiata”.
Ecco. Ecco il perché della carta geografica (qualcuno ha parlato di “frammenti di una geografia amorosa”). Ecco il perché dell’andirivieni, non soltanto delle persone ma delle cose, di Jeune fille à la fenêtre lisant une lettre. Il mediometraggio è giusto interpretabile come una lezione-passeggiata autour de sa chambre, all’interno dello studio o dell’atelier o del set immaginario, come una perlustrazione esplorativa – quando compare per la prima volta, la lettera compare per caso sul ripiano superiore di una scaletta da appartamento, a metà della “Première pile” (l’opera è data per suddivisa, amatorialmente, in 4 bobine, con tanto d’intestazione di ciascuna bobina). Tra opposte angolazioni, stacchi improvvisi, punti di vista capovolti, spaziature da décadrage, chiaroscuri e penombre, lunghe fissità (i neri, oppure la perenne finestra, ora a due ora a quattro scomparti) e bruschi moti circolari, inquadrature a specchio, dinamiche ritmiche in virtù delle quali quella che pareva dapprima una prigione (allusa dai riquadri dei vetri) diviene via via un open space, per quanto minacciato esso sia da una luce soffusa che, se non è qualcosa di pulviscolare, è pur sempre qualcosa di smerigliato, una quarta parete che fa da schermo ombrato a ogni figurazione.
Per cui la stessa istanza figurativa si trasfigura in istanza antifigurativa, in ordine a quell’envolementda finestra dischiusa e polarizzante immagini e suoni, presenze e assenze, pellicola al lavoro (esemplata spesso, come poi in La Vallée close) e profilature rigate. Dopotutto Jeune femme à sa fenêtre lisant una lettre non è che una variazione su una variazione (l’epifania del dipinto di Vermeer, con funzioni di antefatto più o meno obliabile), un’operazione di reductio ad plurimum di un’unità compositiva sfaccettata secondo la variabile filosofica dei mille piani elaborata a suo tempo da Deleuze e Guattari.

Lettre à Paul / Dear Doc (Robert Kramer, Francia/USA, 1991, 35’)
Doc o Paul, non fa differenza. Sono la stessa persona, una sorta di alter ego con il quale Robert Kramer (1940-1999) ha condiviso esperienze di ribellismo sociale e di cinema di lotta come The Edge e Ice(1967-1969) e con il quale, vent’anni anni dopo, ritrovandolo nei panni del dottor Paul McIsaac, decide di condividere altre due esperienze di cinema più esistenziale – nel quale l’antagonismo politico di dieci anni prima si stempera in elegia, la militanza in comunanza d’affetti – come Doc’s Kingdom e Route One/Usa (1987-1989). Potendolo fare nella misura in cui Robert constata che in vent’anni quell’alter ego non è affatto cambiato; e che, come accade nell’amore e nel lavoro più creativo, chi si sente parte integrante dell’altro continua a provare identiche passioni e identici sentimenti.
Anche Doc’s Kingdom e Route One/Usa, come The Edge e Ice, sono insomma le due facce di una medesima simmetria, quella dell’erranza e della deriva dei due alter ego. Nella prima faccia si riflettono l’erranza e la deriva di Doc a Lisbona, dove, disilluso e avvilito, il dottore si è autoesiliato per curare gli altri e per curare se stesso, oltre che dalla malattia dell’esistere e dall’alcolismo, da una malattia tropicale contratta in Africa, dove il suo attivismo mai domo l’ha portato a svolgere una missione umanitaria: un’autoreclusione che comporta una triplice lontananza, dal natio New Jersey, dalla moglie Rozie e soprattutto da Jimmy, il figlio mai incontrato. Nella seconda faccia si riflettono l’erranza e la deriva di entrambi gli amici lungo la superstrada che collega, tagliando l’intera West Coast, il Canada a Key West (Florida), superstrada destituita oggi da arteria più trafficata del mondo a via periferica, sottile striscia d’asfalto percorrendo la quale – e la coppia Robert/Paul lo fa per cinque mesi – si ripercorrono uno a uno tutti i vecchi sogni della nazione, ricavandone un’impressione che, più è laterale, più è credibile: all’ombra, ma solo all’ombra, delle grandi autostrade e dei grandi centri urbani, dei grandi edifici di vetro e dei grandi poli industriali (cinema compreso), lungo un piano inclinato vòlto inesorabilmente verso l’oscurità. Nostalgie dell’american dream americano. Solitudini insondabili. Sensazioni inafferrabili.
Al punto che, dopo aver montato per nove mesi Route One/Usa (un excursus-monumento di oltre 4 ore), capolavoro non inferiore a Doc’s Kingdom (un excursus ben più raccolto: 90’), Kramer non si sente e non si dice convinto. E si dice sicuro che con il racconto “dell’avventura di Robert e Paul, ovvero di un certo tipo di storia d’amore tra uomini, di qualcosa che affonda le radici nel passato, negli anni in cui hanno militato insieme”, non sia stato detto tutto, che sia rimasto fuori qualcosa: forse proprio il nocciolo vero e segreto del loro rapporto: rintracciabile, a volerlo cercare con puntiglio, solo tra le pieghe dei due film, tra i clivaggi delle loro analogie e delle loro diversità, magari nella quantità di materiale rimasta inutilizzata, nella pellicola scartata e non riprodotta. È così che viene fuori la videolettera Lettre à Paul / Dear Doc (colore, video), un tipo di filmato nel quale Kramer si muove a proprio agio, avendo sempre e comunque concepito il cinema come interlocuzione e dibattito, atto di congiunzione, colloquio perenne con l’altro, sia esso un amico, un parente o il mondo intero (indimenticabile la serie di video-lettere scambiate, in sincronia con il montaggio di Lettre à Paul / Dear Doc, 1991, con Stephen Dwoskin): frutto della rielaborazione dei materiali di Doc’s Kingdom e Route One/Usa e dell’aggiunta di altri materiali, girati per l’occasione in Hi8.
I primi filmati sono riconoscibili dalle tracce lasciate da Paul, padre fantasma e fantasma tout court, in quel di Lisbona, nelle passeggiate lungo la riva del Tago o nelle corsie dell’ospedale (puntualmente decorate, come tutti gli edifici della capitale portoghese, dalle stazioni alle chiese, con una quantità di azulejos). I secondi filmati sono riconoscibili dalle tracce di un dialogo tra Paul e Robert collocato in coda a Route One/Usa e poi, chissà perché, cassato: dove spicca l’ammissione reciproca della reciproca stanchezza, dopo tante miglia percorse infaticabilmente all’inseguimento di un miraggio; e dove si manifesta, da parte di Paul, la volontà di tornare a casa, di riprendere la propria professione, il proprio ruolo a stretto contatto con la gente, e, da parte dell’apolide Robert, la volontà di tornare in Europa, a Parigi, dove egli ha non solo un domicilio (condiviso con la moglie Erika e la figlia Keja) ma anche una sala di montaggio tutta sua, in cui potrà mettere a punto Route One/Usa e, se non ne sarà soddisfatto, provvedere a una sua eventuale postilla: giusto quella che si chiamerà Lettre à Paul / Dear Doc. Gli ultimi filmati sono riconoscibili dalla presenza, in sala di montaggio, del trio jazz composto da Michel Petrucciani al piano, Pierre Favre alla batteria e Barre Phillips al basso, i compagni d’avventura che assistono Robert nel lavoro di cucitura del vecchio e di ricucitura del nuovo, con le riprese aggiunte di Erika, di Keja o dello stesso regista, sorpreso – volto in primissimo piano – mentre scrive con le immagini la videolettera, piena di romantico rimpianto (perché Kramer era un grande romantico) e di confidenza quasi incestuosa con il dispositivo, i monitor, la truka, il minutaggio, la messa a fuoco, l’espunzione dei difetti, l’equalizzazione del sonoro. Al punto che, se per Doc era valido il motto medice, cura te ipsum, il motto stesso non suona meno valido per Robert, malato di perfezionismo e di ansietà tecnologica.

Carta a mi madre para mi hijo (Carla Simón, Spagna, 2022, 24’)
“Di te serbo pochi oggetti e pochi ricordi. Tutto quello che ho di te sta in una scatola, con dentro un orologio che ti regalò tuo marito e mio padre, la medaglietta della comunione, alcune lettere, il passaporto, le spillette delle Olimpiadi, il testamento che diceva con chi sarei dovuta rimanere”. Carla Simón, da Barcellona, perde i genitori a soli sei anni – oggi ne ha trentasette. Il padre e la madre muoiono sciaguratamente di Aids negli anni ottanta, di un Aids procurato dalla vita disordinata e anarchica che conducevano; e viene accolta dagli zii nella campagna catalana, magnificamente affacciata sul mare. Mamma Ainet, da piccola, primogenita di sette fratelli, taglia di nascosto la gonna che le ha cucito la madre per farne una minigonna: una scena simbolica, che Carla s’inventa per offrici un’idea della carattere intraprendente di Ainet, una giovane dalla forte personalità che non a caso se ne va di casa prestissimo e torna solo quando sa di essere incinta – e quando si è già lasciata con il genitore di Carla, determinata com’è a diventare madre da sola.
In Alcarràs (2022), nome di un piccolo villaggio della Catalogna – titolo dell’opera seconda dopo il già notevole Estate 1993 (2017) –, Carla Simón racconta la vicenda della famiglia Solé, nonni figli nipoti, radicata alla terra da un’identità contadina che la definisce e la connatura alla ruralità della Spagna: grazie a un podere trasmesso ‘con una stretta di mano’ da un proprietario all’antica – i cui figli se lo riprenderanno senza colpo ferire per convertirlo in un’immensa distesa di pannelli solari –; un podere connotato da un fantasioso frutteto, pesche in primis, gialle bianche nettarine percoche tabacchiere; un podere dei prodotti del quale i Solé vivono e godono da generazioni, malgrado la dura spettanza di mansioni arcaicamente consolidate. Il tutto in virtù di una disciplina concepita quale tratto distintivo del vivere, ispirato da una sorta di pensiero magico che è tutt’uno con la felicità del rapporto intimo con la terra, e che si fa generatore di senso, memoria, emozioni, rituali secolari – vedi il seppellimento dei conigli o l’oltraggiosa allegria delle feste di piazza.
Se Alcarràs è l’autobiografia di una nazione sostanzialmente perduta, Lettera a mia madre per mio figlio (colore, video) è figlia di quell’autobiografia, con tanti riflessi in comune, con tanti lembi di passato in comune. Simón è nata a Barcellona ma è cresciuta a Garrotxa, il mondo remotamente agreste abitato dalla famiglia adottiva, da cui lei ha succhiato fino allo spasimo linfa e ardore. Quell’ardore che le fa disegnare un gesto desueto, un po’ come le tende di macramè che, nell’incipit come nell’explicit, disegnano tremule ombre sul foglio chiamato a ospitare le righe della carta eponima. Nel tentativo di scrivere una lettera postuma all’Ainet misconosciuta scomparsa tanti anni prima. Nello sforzo di ricucire quello strappo doloroso consumatosi anzitempo, e di ricucire con esso il discorso dell’amore, della maternità, della memoria degli oggetti, come si fa con i ricordi che usiamo per cercare di definire chi veramente siamo.
Quale struggimento, verso la fine, in quel loro sorridersi al di là del tempo e dello spazio cinematografici, da madre finzionale (l’immortale Angela Molina, con una mariposa al dito indice) a figlia reale, nel dehors della villa sul mare catalano! E senza mai un briciolo di retorica, con un andirivieni ininterrotto tra passato e presente, grazie alle tre attrici convocate a impersonare la bimba, la giovane, la donna. Attenzione. In nome di chi? In nome del figlio Manel, chiamato a sua volta a conoscere la nonna attraverso lo sguardo di una Carla che l’ha conosciuta appena, appena sfiorata. Per cui la lettera è davvero vergata dalla madre para su jiho, nella speranza che Manel non debba tragicamente soffrire del problema irrisolto di cui ha sofferto lei. Quando Miu Miu [Miuccia Prada, committente della serie Womens’s Tales, due corti l’anno, con carta bianca concessa alle registe prescelte] le propose il progetto, Carla era immersa nella promozione di Alcarràs e si disse: “Devo pensare qualcosa che risulti strettamente connesso con me stessa, così che le idee sgorghino in modo spontaneo”.
La maternità: ecco il tema, il più incombente. In quel momento Carla era incinta di Manel e non faceva che pensare alla propria condizione. Tanto che nel prologo del corto si fa inquadrare, a lungo, interamente nuda con il pancione. “In effetti, anche adesso che è nato Manel, non penso ad altri se non a lui”. Quel Manel che vediamo dormire tranquillo sul lettino o sul lettone o in braccio a lei sullo sfondo marino, e che ha certo cambiato lo sguardo di lei sulle cose, sulle persone, sullo stesso fluire woolfiano delle onde, sulla stessa Spagna. In Alcarràs è ben presente un’eco della Guerra civile del 1936-1939 – i Solé coltivano da un secolo il podere che il padrone ha loro ‘delegato’ per ringraziarli di averlo protetto durante i combattimenti –, come è più che mai presente in Madres paralelas (2021) di Pedro Almodóvar. Un omaggio, quello di Pedro, non solo a due immaginifiche madri parallele ma anche alle due ricerche parallele condotte da Janis (Penélope Cruz), spavalda fotografa quarantenne: la prima, per scoprire se la bimba che alleva è davvero sua figlia; la seconda, per fare una buona volta i conti con il passato franchista del paese, scavando a mani nude nella fossa comune del suo villaggio.
Il tutto a partire da che cosa? Da un contraddittorio con la co-partoriente Ana – fatalmente, medesimo ospedale e medesima camera –, ragazza ventenne meno fortunata ma non meno consapevole di sé. A sentire Penélope Cruz, che deve intendersene non poco, Almodóvar pensava a Madres paralelas fin dai tempi di Tutto su mia madre (1999). Ebbene, Lettera a mia madre per mio figlio è un Tutto su mia madreal femminile, realizzato più di vent’anni dopo. Malgrado l’impianto da cinema breve, addirittura da malcerto filmino di famiglia, vi sussistono infatti, in analogo, la vocazione allo scavo interiore, il disincantato mettersi in gioco (l’aspetto ludico è praticamente sotteso a ogni momento del film) da figlia a madre anziché da figlio a madre, l’intensità del coinvolgimento emotivo – vi si riprende persino l’idea della festa in piazza di Alcarràs –, lo sguardo amoroso gettato tanto sulla storia individuale quanto sulla storia collettiva.
