Shadow of Fire di Shinya Tsukamoto
Ripensando ai disegni degli altri bambini
di Edoardo Mariani
I bambini giocano alla guerra
È raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
E’ la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.
Bertolt Brecht scrisse
questa poesia nel 1939,
che verrà poi inserita nella raccolta di
canzoni e poesie Le Poesie di Svendborg.
I bambini sono curiosi, sono vivi nel senso più puro e libero della vita, aprono una porta e comincia una storia. Bruno Roberti intitolava “Spettri di carne nel Giappone anno zero” su Fatamorgana, quando il film venne presentato a Venezia 80. Tsukamoto, in tempi di guerra pensa ai bambini, come anime dolci e salvifiche in un mondo di anime perdute, sfinite dalla violenza infinita di un conflitto appena terminato. Siamo in un Giappone di sopravvissuti alle bombe atomiche, o come dicono in giapponese “Hibakusha” (被爆者), una parola nata proprio per non denigrare la memoria di coloro che sono caduti di Hiroshima e Nagasaki, e letteralmente significa “persone esposte all’esplosione”. Hibakujumoku (被爆樹木) significa invece “albero che è stato esposto al bombardamento atomico”. Ecco forse in questo Hokage (ほかげ, Ombra del Fuoco) il piccolo Oga Tsukao, un bambino senza nome, Edmund, Marcello, Baltazar, il monello, è un albero colpito che ritirerà fuori i suoi fiori, che appena nato già rinascerà dalle sue tenere radici autarchiche. Il film è il racconto degli ultimi attimi di vita di alcuni hibakusha che si incontrano tra le mura incrinate di una casa, anch’essa reduce della guerra, condividono insieme al piccolo una prigione tenebrosa dove continuare a soffrire in silenzio. Sul tatami, tra le doghe del pavimento della casa, Tsukamoto ricrea lo scenario delle celebri foto aeree di Tokyo dopo il bombardamento nel 1945. Le dissolvenze si fanno sempre più oscure e senza uscita. Tra le macerie dell’apocalisse, quelle sulla destra dell’Angelus Novus: «dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto». Ma nel film di Tsukamoto, il piccolo, come un’ombra, dà le spalle al passato, si allontana, cammina verso un’umanità che non smette di ricostruirsi, ancora e ancora, nuove case dai resti delle case ancora fumanti delle esplosioni. «Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro», a cui volge lo sguardo, mentre si lascia indietro il cumulo delle rovine.
In questa triste primavera 2025, in cui le stragi, il caos e la morte continua a scendere sugli innocenti (tra gli altri) Palestinesi, Ucraini, Sudanesi, l’uscita ritardata in sala di Hokage, accompagnato da quasi l’integralità dei film di Shinya Tsukamoto, ricade come ennesimo messaggio disperato di STOP ALLE GUERRE.
