Per Otar: il geniale saggio di diploma di Ioseliani, scomparso il 17 dicembre
di Sergio Arecco.
Più nel segno del muto di René Clair, di Entr’acte (1924) e in particolare di Il milione (1931, sospeso tra il muto e il sonoro), che dello spirito del Vgik: frequentato da Otar Ioseliani (Tbilisi, 1934 – Tbilisi, 2023) a partire dal 1956 non tanto per seguirne le direttive artistiche, quanto per imparare le tecniche, specie il montaggio. Aprile (Urss, 1961, 45’, b/n, 35 mm), saggio di diploma del cineasta georgiano, musicista e matematico per formazione, dissidente per vocazione, irriverente per l’umore beffardo che lo abita, corteggia fin da subito la leggerezza e l’amabilità del maestro francese, il suo senso del cinema balletto, muto anche quando è sonoro, musicale anche quando è dialogato. La censura sovietica boicotta Aprile e ne impedisce la circolazione bollandolo sì con l’ovvia accusa di ‘formalismo’ ma in realtà leggendovi in filigrana un apologo ideologicamente insidioso sul degrado generato in Urss dalla società dei consumi. Il mediometraggio resterà bloccato per quindici anni, i primi cinque dei quali rappresentano per Ioseliani, refrattario tra l’altro a qualsiasi forma di ideologia e se mai attratto dall’allegoria e dal sovrasenso surreale, una vera via crucis, un periodo d’inattività registica che l’autore, agguerrito e indomito come non mai, occupa da par suo facendo appello a lavori manuali – fonditore (esperienza che gli fornirà il materiale per il corto La fonte, 1964), pescatore, scaricatore –, lavori di cui è il primo a esaltare la dignità e l’umana grandezza. L’imperituro operaio Ioseliani, quando parlerà della professione dell’attore, ne parlerà sempre come di un mestiere analogo a qualsiasi altro, anzi, meglio interpretato se a interpretarlo saranno dei dilettanti, efficaci proprio per la loro naturalezza e mancanza di carisma. Quando parlerà della professione del regista, ne parlerà sempre come di un mestiere artigianale, portato avanti per un verso con il labor limae degli antichi intagliatori e per l’altro con lo scrupolo esecutivo del vecchio tappezziere, che tesse la tela e intreccia i motivi con una sensibilità tutta musicale per i rapporti geometrico-decorativi. E quando parlerà della professione del cineasta – che per lui è diversa da quella del regista, essendo ben più complessa e onnicomprensiva –, ne parlerà come di un mestiere di abilità e destrezza, da equiparare al mestiere del giocatore di scacchi: chino sulla scacchiera, come il tappezziere sulla tela o l’intagliatore sull’ornamento, per ricavarne mosse e variazioni, diversioni e strategie. La scacchiera non è forse è il fulcro mitologico-scenografico di Entr’acte, asse diegetico attorno a cui ruota tutto il resto, compresa la variante del funerale? E le scale del condominio popolare abitato dal pittore Michel – la scacchiera è qualcosa di scalare, aggregato funambolico del rischio e dell’azzardo – non sono forse il fulcro simbolico-iconografico di Il milione – scale percorse in continuazione, al ralenti, dai condomini, in un balletto da operetta o da vaudeville che fa corona alle peripezie di Michel e dell’innamorata Béatrice? In Aprile i due innamorati non hanno nome, ma hanno gli stessi problemi condominiali, dettati dall’eccessiva attenzione dei vicini di casa, in particolare dell’amministratore del piano di sotto, per la loro disinteressata riluttanza all’isteria del trasloco. Solo per la malsana iniziativa dell’amministratore – il quale, approfittando di un momento di disattenzione dei fidanzati coincidente con un momento di intense effusioni reciproche, sottrarrà dal bric-à-brac dell’arredamento del proprio salotto una poltrona imbottita stile Luigi Filippo per insinuarla non visto nel loro appartamentino completamente vuoto –, la coppia si sentirà incoraggiata a prendere in considerazione l’idea di ammobiliarlo. Lungo i primi minuti del mediometraggio, dominati dal viavai isterico, alla René Clair appunto, di giovani uomini scamiciati recanti l’uno un attaccapanni l’altro un tavolino l’altro uno sgabello, lo spettatore non si rende ben conto di quale sostanza comica o per meglio dire tragica sia permeato il vorticoso cerimoniale in corso: sciami e sciami di personaggi tra le vie dissestate di un distretto fatiscente (Ioseliani si è preoccupato di fornirci una visuale dall’alto dei tetti in rovina) che, frettolosi e furtivi, e nondimeno sicuri del loro modo d’agire, come altrettanti “favoriti della luna” – Les favoris de la lune, 1984, il primo film francese dell’autore, è un film sui trafugatori di opere d’arte, mentre, in Aprile, e senza che la variante faccia una grossa differenza, le opere d’arte sono sostituite da sedie e armadi, e la luna è sostituita da un gran sole meridiano –, si stanno indirizzando non si sa bene verso dove. Solo un po’ più avanti lo spettatore ne scopre la destinazione e l’obiettivo comune: vanno a occupare la fila di condomini popolari appena costruiti nel distretto vicino, a piedi, solleciti e arditi, carichi di suppellettili e quant’altro. Una deriva inarrestabile. Un flusso al quale, anche per la nostra giovane coppia che, dimentica di tutto, tende ad amoreggiare in aperta campagna sotto un’antica quercia tra mucche al pascolo, è arduo non abbandonarsi, se non altro per sfida. Strapuntini? Specchiere? Servizi e calici di cristallo? E perché non un ventilatore? Un aspirapolvere? Sennonché, proprio loro che, nell’abitazione ancora spoglia di ogni confort, facevano magicamente scoccare con un semplice bacio la scintilla dell’attivazione del gas o dell’apertura del rubinetto o dell’accensione del lampadario – magie ancora clairiane –, faranno ahimè seguire all’indispensabile pure il superfluo, trovandosi alla fine sovrastati come tutti dal “mare dell’oggettività”, definizione di Italo Calvino. L’ultima immagine di Aprile è un campo lunghissimo che li vede, dopo gli inevitabili dissidi da mancanza di spazio, nuovamente riconciliati – all’ombra dell’antica quercia che non esiste più in quanto barbaramente recisa a metà film dalla furia devastatrice degli intagliatori modernisti. Perché allora scrivere all’ombra? Perché Ioseliani li inquadra in lontananza come se l’immenso albero svettasse ancora verso il cielo, florido e rigoglioso. Del resto le mucche non sono affatto scomparse. Sono sempre lì che brucano l’erba tranquille. Antenate dei tanti animali in libertà della futura filmografia di Ioseliani.
