Conversazione con Simone Bozzelli
a cura di Andrea Pastor
Su Simone Bozzelli e sul suo cinema deviante
È molto lunga la conversazione con Simone Bozzelli, frutto di più di due ore trascorse al telefono, ma quando mesi fa ho visto il suo primo lungometraggio, Patagonia, reduce dal festival di Locarno, mi ha entusiasmato, non mi capitava da molto tempo, e in particolare dallo stupefacente La dernière seance di Gianluca Matarrese, di emozionarmi e sorprendermi per la scrittura filmica di un quasi esordiente. La successiva visione, il recupero dei suoi precedenti corti, selezionati e premiati in più festival, mi ha confermato che quello di Bozzelli è uno sguardo radicalmente anomalo, singolare, molto differente da quello di presunti nuovi autori del cinema italiano, anche di quello più indipendente. È bello scoprire che un cineasta, appena uscito, o quasi, dal Centro Sperimentale, possiede già una sua visione del mondo, dei rapporti umani, un’idea di cinema ben precisa, rinforzata dalle ossessioni che ricorrono, di film in film, capaci di innervare e ‘aprire’ il senso, e le strutture narrative, solo apparentemente lineari. Dal suo esordio, Mio fratello, a Patagonia, sono il corpo, il desiderio, l’impossibilità di un rapporto (omo)sessuale che esuli da una dinamica di potere (in assonanza con la poetica di Fassbinder, un regista peraltro molto amato da Bozzelli), ad essere centrali, a farsi brucianti materiali di un immaginario dove il nostro punto di vista coincide quasi sempre con uno dei suoi personaggi, il più fragile, il più disagiato, potrei dire disfunzionale, nella vana ricerca di una identità e di un legame con l’altro, e con l’altro se stesso, quello insomma che più fatica a consistere, a prendere forma. Ed è grazie alla giusta, amorevole, distanza dai suoi adolescenti, senza storia alle spalle, sempre e solo destinati a vivere nel presente della visione, in spazi claustrofobici, in tempi sempre sospesi, in perenne movimento, anche e soprattutto interiore, sempre oscillanti tra campo e fuori campo, che Bozzelli ci fa sentire come anche nostri i conflitti pulsionali che muovono i suoi personaggi: i due adolescenti di Mio fratello, che si amano, odiandosi, in una claustrofobica camera da letto, il protagonista di Loris sta bene che volendo vivere il suo sogno d’amore, sceglie di farsi infettare, di diventare sieropositivo, come il suo compagno (che forse non esiste nemmeno). Ed è sempre il suo gesto di filmare, molto mobile, che registra, ‘pietoso’, alternando sapientemente i piani, nel calibrato montaggio, i giochi proibiti, violenti o ambiguamente sessuali, dei corti successivi, J’ador e Amateur, brevi racconti di iniziazione alla violenza e alla sessualità, a farci sentire vicini Patagonia, la fluida corporeità di Agostino, sempre cangiante, e soprattutto quella di Yuri, magnificamente interpretato, vissuto, da Andrea Fuorto…
Sono i suoi occhi curiosi, sgranati, ma anche timorosi, aperti su un mondo che sembra sempre altro da sé, a condurre le immagini e il nostro sentire, dalla prima all’ultima, incendiaria, sequenza, quella dell’abbraccio fra le rovine. Di Yuri non sappiamo nulla, si percepisce però che ha qualche disturbo di personalità, che lo rende molto più infantile della sua età. Vorrebbe pisciare nella vasca ma la zia che lo accudisce non glielo permette. È solo lo sguardo coraggioso, partecipato e trepido di Bozzelli, che lo accompagna, a farci condividere il suo innamorarsi da subito di Agostino, un illusionista per un pubblico di bambini, che gira col suo camper per la regione, un Abruzzo poco riconoscibile, di fatto un territorio soprattutto mentale. Yuri lascia tutto per seguire il suo desiderio, si fa lui stesso macchina desiderante, iniziando, con Agostino, un viaggio che sembra essere all’inizio un liberatorio e trasgressivo racconto di formazione, un road movie dello sguardo. Yuri impara, addestrato dal suo compagno di giochi, a (s)ballare, a guardarsi allo specchio e negli occhi dell’altro, che gli restituiscono una più che definita, e liberatoria, Immagine. Ma a circa metà film il camper si ferma, il viaggio, con uno scarto secco, quasi violento, si interrompe, e il film stesso cambia registro. Arrivati ad un rave party, nella ‘comunità’ di Agostino, il rapporto a due assume tonalità differenti, il singolare si fa plurale, i giochi di potere si fanno più espliciti, cominciano a scorrere il piscio e lo sperma, la Normalità ha il sopravvento, anche se la tensione resta incessante, e la canzone del padre continua a farsi puro significante di un luogo utopico, (impossibile) da raggiungere, insieme…

Quando nasce il tuo amore per il cinema? Eri già un cinephile prima di frequentare le scuole come il Naba o il Centro Sperimentale?
Non ho cominciato ad andare molto presto al cinema però avevo una videoteca sotto casa, una videoteca di paese dove quello che più mi affascinava erano le locandine, le custodie, all’epoca erano dvd, le guardavo, le sfogliavo e, se vuoi che ti dica la verità, sceglievo il film in base alla copertina, per questo oggi curo io per primo tutte le locandine dei miei film, tutti i materiali promozionali. I primi film che vedevo erano perlopiù thriller e horror e poi ho capito il perché, e perché mi piace anche il genere erotico, perché penso che il thriller e l’erotico abbiano la stessa ‘cassetta degli attrezzi’. Ho poi cominciato a vedere sempre più film e, visto che ho fatto l’istituto tecnico industriale, indirizzo informatica, cercavo di trovare qualcosa che legasse i miei studi con l’interesse per il cinema. Ho iniziato come montatore di spot pubblicitari e di videoclip, e ho poi continuato a farlo anche a Milano, al Naba, e là, per un esame, ho realizzato un corto. Fu in quel momento che un mio docente mi disse: “Simone, tu vuoi fare il montatore, e lo capisco, ma l’unico che potrebbe fare il regista qui sei tu”. Questo riconoscimento mi ha dato una bella spinta per farne un altro, che affrontava, in un modo anche molto terapeutico, una tematica che in quel periodo mi stava a cuore, una piccola ‘dipendenza affettiva’ per un mio compagno di classe, un piccolo amore, è così che ho realizzato la storia di due fratelli di cui uno dei due è innamorato dell’altro, cercando quindi di esagerare, di estremizzare quella che era il mio vissuto in quel momento, due amici nel reale, due fratelli nella finzione. È nato così Mio fratello. Comunque il primo ricordo che ho è di un film di cui non ricordo il titolo, c’era un ragazzo con l’orecchino dorato, e in quel momento ho capito tante cose di me, sia che volevo un orecchino dorato, e sia che mi piacevano i ragazzi, e dunque il cinema ha contribuito a farmi scoprire delle cose di me…I corti girati per il Naba mi hanno permesso di entrare al Centro Sperimentale dove ho avuto la fortuna di avere come docente, al primo anno, Gianni Amelio…Per tornare alla tua domanda, i grandi autori li ho conosciuti a scuola e paradossalmente sono andato in ordine non cronologico, nel senso che avevo una professoressa che ci faceva vedere dei film contemporanei, anche se lei teneva un corso di storia del cinema, ci faceva però vedere dei film recenti, parlo ad esempio di Gummo di Korine, dei film di Gaspar Noé, di Haneke…e interessandomi a questi registi, leggendo poi le loro interviste, rubandogli anche le cose che dicevano, ho scoperto che, per esempio, Haneke ama molto Bresson e quindi andavo a scoprire chi era Bresson, e così di seguito, andavo insomma all’indietro, e tuttora lo faccio …e poi c’è stato il colpo di fulmine quando ho scoperto Fassbinder..
Da un’intervista risulta che il tuo film del cuore è Benny’s Video. Confesso che mi riesce difficile riuscire a legare il cinema, a mio parere glaciale, cinico, privo d’aria, come quello di Haneke, a quello comunque bruciante, radicalmente ed estremisticamente poetico politico di RW. Fassbinder…
Vedi, quello che mi ha insegnato Haneke è l’essere spettatore, io come montatore mi sentivo anche come il primo spettatore di quello che montavo, e Haneke, quando fa cinema, riesce a ferire lo spettatore con delle soluzioni di montaggio, di regia, che mi piacciono, ad esempio ‘tiene’ il più a lungo possibile un’immagine forte, e lo stesso vale per il suo conservare a lungo, molto alta, la traccia sonora, e per così tanto tempo, trovo insomma che quello sia un film che ferisca, con gli strumenti freddi del cinema, mentre gli strumenti caldi, l’amore per i personaggi e tutto il resto me l’ha insegnato Fassbinder, penso in particolare al suo amore, fino alla fine del film, per Fox, nel Diritto del più forte, là dove, con grande pietà, lo segue in tutti suoi errori, lo segue con grande tenerezza fino al momento della morte, quando ci sono questi bambini che gli rubano anche la giacca, con la scritta Fox, che gli rubano insomma anche l’identità, e lui rimane lì, accanto al suo personaggio, questa è una cosa che Haneke non farebbe mai…
Hai dichiarato che le immagini dei film ti hanno anche aiutato nella scoperta del tuo orientamento sessuale. I registi della Nouvelle Vague non vedevano sostanzialmente una differenza tra cinema e vita, tu condividi dunque, il loro pensiero…
Certo, il cinema è vita, è una finestra sulla vita che ti permette, anche in una maniera un po’ voyeuristica, di guardare, lo stesso atto di guardare il film, per non parlare poi dell’atto di girarlo, di mettere l’occhio in un mirino, è un atto voyeurista, è un voler guardare dentro un buco della serratura, è guardare la vita…Io sento, soprattutto nei film che mi piacciono, che il personaggio si attacca a me e che, tramite lui, conosco nuove cose di me, anche quando magari fa delle scelte sbagliate, quelle che spesso ho fatte io, o quando fa delle scelte giuste, come quelle che vorrei fare io… insomma, mi ci riconosco, e scopro nuove cose di me …
Mi hai detto che hai lavorato al montaggio di alcuni videoclip, come regista ne hai girato uno con i Maneskin. Quello che ho notato, in questo clip, al di là della ritmica, ovviamente differente rispetto a quella dei tuoi film, è il discorso sui corpi, sui dettagli, sull’ambiguità sessuale, pensi di volerne fare ancora altri clip?
Quando ero giovane seguivo molto MTV, è presente in alcuni film contemporanei, ma anche in alcune serie tv, questa commistione di cinema e videoclip, penso alla serie Euphoria, penso a tutta la filmografia di Dolan, dove c’è questo innesto, che a me non interessa, mi interessa il cinema. Quando ho fatto il clip dei Maneskin avevo comunque già realizzato i miei primi corti, che mi piace definire “pillole”, perché la cura che ho messo in questi corti è la stessa che poi ho avrei messo in Patagonia … Realizzare da regista il video per i Maneskin, pur non tradendo la forma videoclip, è stato un modo per fare ricerca, la stessa che faccio e che mi interessa fare con i miei film, per il clip dei Maneskin mi sono, ad esempio, ispirato alle foto di Mapplethorpe …
Ma tu stesso sei fotografo, a Brescia c’è stata nei mesi scorsi, una tua mostra di foto di nudi maschili.
La fotografia mi aiuta ad esercitarmi con i corpi, lo vivo come un esercizio all’intimità.
La corporeità, il corpo sono centrali nel tuo cinema.
Il corpo è una mia piccola ossessione, da piccolo ero grassottello, vedevo delle cose del mio corpo che non mi piacevano, e quindi le cercavo altrove, anche adorando i corpi degli altri negli spogliatoi…al mare, poi, non riuscivo a togliermi nemmeno la maglietta, guardavo, era un costante guardare, e me la sto continuando a portare dietro questa ossessione, ma c’è da dire che sono corpi sinceri i miei, quelli dei miei film, e poi sono corpi differenti, penso alla differenza in Amateur, perché la differenza dei corpi porta anche a dei giochi di potere, il potere del più bello, ma non solo…Noi siamo esseri relazionali ma nel momento in cui ci relazioniamo con le persone, si generano dei piccoli giochi di potere, e in ogni relazione abbiamo una postura di potere diversa…
Tutti i tuoi film, dai corti a Patagonia, li sento molto liberi, non si avverte la sceneggiatura, ci sono dei margini di improvvisazione? I tuoi personaggi, poi, fin dal tuo primo lavoro, sembra che non abbiano una storia, un passato alle spalle, sembrano vivere prevalentemente nel presente, vivere per noi, non ci sono, tranne che nel tuo corto Giochi, padri o madri, sembrano tutti orfani…
Non posso parlare di sceneggiatura senza nominare il mio sceneggiatore, Tommaso Favagrossa, con lui scrivo le sceneggiature, anzi le scrive proprio lui, è lui che batte i tasti fisicamente, poi magari mi invia i files a fine serata e io faccio delle correzioni. Patagonia è quasi fedele a come era stato scritto però, per me, come anche per lui, la sceneggiatura è un pezzo di carta, un documento che può servire alla sarta piuttosto che allo scenografo, in modo che loro sappiano che per quella scena serve un certo tipo di vestito o un determinato interno, ma noi pensiamo che la sceneggiatura non debba essere bella scrittura (ora è molto di moda scrivere una sceneggiatura e poi farla pubblicare da Feltrinelli, o comunque da un grosso editore), noi abbiamo sempre detto che è un pezzo di carta, che alcune cose le si può rimuovere, altre aggiungere, e già quando faccio i provini per gli attori mi capita di avvertire nella sceneggiatura gli elementi che scricchiolano, è allora che si comincia a cancellare e a scrivere alcune cose con la penna, e ti dirò di più, io sono un grande “ridoppiatore”, nel senso che faccio tante modifiche sul set, ad esempio faccio sì che l’attore professionista dia un ritmo a quello non professionista e spingo a mia volta l’attore non professionista a sorprendere l’altro… e “doppio’ tantissimo, ci sono spesso scene che rifaccio facendo dire tutt’altro perché poi, in sede di montaggio, si abbia una consapevolezza diversa del film, quindi faccio tante operazioni di rimontaggio, tutto questo per farti capire quanto tutto è costruito…Poi magari trovi scene che proprio non funzionano e lì davvero strappo la sceneggiatura e si fanno altre modifiche…Ma non mi riconosco certo nel metodo hollywoodiano dove tutto deve essere “storyboardato”, preparato. Io mi preparo molto su quelli che sono gli aspetti più propriamente visivi, per il resto mi affido molto a tutti i miei collaboratori, pur dando loro indicazioni precise di ciò che voglio…E comunque odio tutte quelle che sono le regole della sceneggiatura, legate alla definizione dei personaggi, come se si dovesse sempre sapere da dove provengono, la loro origine. Per me il personaggio deve dirti da dove arriva, ma agendo nella storia, dalle sue azioni capiamo le cose, non ci deve essere per forza un dialogo esplicativo, avrei potuto ad esempio far dire a Yuri che è stato abbandonato, che solo le zie lo volevano, fargli insomma raccontare il suo passato, ma penso che non ci sia migliore attestato sul suo passato del suo presente …
Tu filmi con precisione il corpo riflesso nello specchio, fin dal tuo secondo corto, Loris sta bene, quando il protagonista, che vuole farsi infettare, diventare sieropositivo, cambiare ‘pelle’, insomma, lo vediamo riflettersi inconsapevolmente nello specchio posizionato sullo sfondo della stanza, nella parte finale invece lui e la zia si abbracciano davanti a uno specchio che sembra però sdoppiare la loro immagine, come in uno split screen…In Patagonia, in uno dei passaggi più emozionanti, Yuri riesce a guardarsi nello specchio come se fosse per la prima volta, a ‘riconoscersi’, nella sua nudità, e questo avviene solo quando ha cominciato a provare il desiderio per l’altro..
Per me l’immagine di un personaggio ripreso allo specchio è l’immagine di un personaggio che pensa, inserisco questa immagine quando il personaggio si guarda, e pensa…
I tuoi film, quasi interamente declinati al maschile, con al centro il corpo maschile, si possono leggere come una riflessione su una sessualità che non riesce ad esprimersi fino in fondo, comunque inevitabilmente spostata, dove si rimane sempre sulla soglia?
Sì, concordo, ci sono sempre dei coiti interrotti, si rimane sempre nella sfera del desiderio, di guardare, di aspettare l’altro. È un cinema dove non si arriva mai, o quasi, al godimento.
La figura dell’ellissi legata al rapporto sonno veglia è importante, in Patagonia dopo un’inquadratura in cui si vede Yuri per la strada, di notte, ecco che in quella successiva, lo si coglie nel suo risveglio, in maniera inaspettata, vicino al camper di Agostino, senza che lo si sia mai visto addormentarsi, c’è una ellissi molto forte e estremamente significante…
È vero, l’ellissi per me è importante perché mi permette di essere libero, di dire più cose e allo stesso tempo mi permette di aprire all’interno del cut una cosa preziosissima al cinema, i puntini di sospensione, che lo spettatore deve colmare, è così che si crea un film diverso, per ogni spettatore…Per quanto riguarda il rapporto tra sonno e veglia, è vero, spesso i miei personaggi dormono, mi piace guardarli dormire, soprattutto lo fanno quando sono tristi, sai io ho una tendenza spesso depressiva, per me il sonno non è mai un luogo felice, e dunque, quando i miei personaggi dormono, di certo non sono felici.
Gli animali: nei titoli di testa di Giochi c’è un gatto che vediamo diventare un tramite del gioco, quasi sadico, tra la madre e il figlio; in Patagonia il primo sguardo, la prima soggettiva di Yuri è su un cane, un cucciolo, poi, quando arriva al rave party, c’è il topolino bianco che lo accompagnerà a lungo, ma ci sono ancora dei cani, e poi molti animali in gabbia, tra i quali un serpente…Non credo siano solo simbolici, che si voglia far pensare solo alla sua condizione di ‘prigioniero’ del suo desiderio per Agostino…
Ho un ricordo ben preciso: da piccolo ero nel giardino della scuola e c’era un gruppetto di bambini che punzecchiava con degli aghi di pino il formicaio, per uccidere le formiche, io a quel punto mi sono buttato a terra e mi sono messo a piangere perché quella mi era sembrata la forma più grande di cattiveria a cui avevo assistito nella mia vita, ecco, gli animali per me sono il segno di qualcosa di indifeso, da proteggere, io stesso vorrei proteggere i miei personaggi, e dunque gli animali sono come un prolungamento del protagonista, una sorta di protesi, che mi serve anche per raccontare determinati stati emotivi..
Il lavoro sugli spazi: nel tuo primo corto, Mio fratello, l’azione si svolge in un’unica stanza, estremamente claustrofobica, ma anche nei tuoi lavori successivi tendi a privilegiare gli interni, soffocanti, dove abitano le pulsioni, i generi, il maschile e il femminile, i desideri detti, e quelli taciuti, il rifiuto, la castrazione, è come se solo in questi spazi opprimenti il corpo potesse esprimersi…
Questi spazi sono scatole sigillate, chiuse…e comunque nei primi corti la scelta di questi luoghi chiusi, unici, era dovuta a un fattore economico, dopodiché mi sono accorto che potevano anche essere importanti da un punto di vista metaforico, in Patagonia il camper stesso è come un luogo chiuso, una scatola chiusa, dove i personaggi vivono i loro desideri ma come sotto vuoto…
Già in Mio fratello sono presenti due corpi maschili, quelli di due fratelli, che si desiderano ma che sono anche in conflitto tra loro, uno dei due apparentemente razionale, l’altro, sembra, disagiato. E in questa stanza ci sono già tracce di un perverso, anomalo, breve racconto di formazione…
Sì, è vero, come in Patagonia, già in quel mio primo corto mostro una sorta di battesimo, già da allora ho scoperto quanto per il mio cinema sia congeniale raccontare una storia condividendo il punto di vista di una persona ‘stupida’, ma nel senso di una persona che si stupisce di tutto, come se fosse per lui ogni volta la prima volta, così come ogni spettatore vorrebbe sempre essere stupito da un film e vedere tutto come se fosse la prima volta …
E, ancora, per restare al tuo primo corto, la macchina da presa è molto mobile, come se fosse sempre tra i due personaggi, che entrano ed escono di campo…Tu lavori molto sul fuori campo…
Per me il film è una cornice…C’è una frase molto bella, mi pare dei fratelli Dardenne, dove si dice che quello che è fuori dalla cornice è molto più importante di quello che è dentro, pensa semplicemente a Lo squalo, quando non si vede, quando è fuori dallo schermo, ci fa molta più paura, il non vedere aumenta in genere molto di più il desiderio…
Yuri guarda e non guarda, sembra stupirsi di tutto, è quasi come il doppio dello spettatore che comincia ad amare e desiderare …
Ho cercato di scrivere il film in prima persona, l’istanza narrante, chi narra il film, è Yuri e tutto quello che vede, tutto quello che fa, coincide con quello che vede lo spettatore, se Yuri una cosa non la fissa, nello schermo non la riprendo, sullo schermo non la vedi…
E lui sembra anche cambiare fisionomia, nel corso del film, all’inizio, lo vediamo con dei connotati quasi femminei, alla fine, al momento della lotta, o quando dice ad Agostino ‘Dimostramelo’, quasi come se fosse un ordine, sembra essersi fatto più maschile, oserei dire, fallico, dopo però essere stato bagnato dal piscio e dal sangue …
Sono d’accordo, lo rivendico questo, in più aggiungo che volevo un deperimento di Yuri nel corso del film, noi lo vediamo all’inizio come nato in una macelleria, coccolato in un modo tale che i suoi bisogni principali, primari, sono soddisfatti. Nel camper, dove vediamo i due ragazzi mangiare sempre verdure, volevo proprio che lui deperisse, come un ramoscello secco …Però allo stesso tempo è come se imparasse l’esperienza del vivere, è come se si ‘allargasse le spalle’, perché Agostino lo mette sempre alla prova, in ogni inquadratura c’è il mettere alla prova Yuri, che viene dunque come allenato ad affrontare l’altro, fino allo scontro finale.
I due ragazzi si muovono tra terra, cielo, aria e fuoco, e la benzina è un elemento ricorrente…
Qui mi ricollego al corto Giochi, metto in scena degli amori che vivono nell’alternarsi di acqua e fuoco, la benzina produce fuoco, là si giocava col nome di questi elementi, qui io volevo che tutto quello che i miei personaggi calpestavano…bruciasse, siamo in un presente assoluto e, al massimo, c’è una, sia pur minima, prospettiva di futuro.
Un altro leitmotiv è dato dai soldi, dalla cassa della macelleria iniziale al salvadanaio, nella sorprendente e commovente sequenza dell’agenzia di viaggi…
Yuri non ha idea di quanto possa costare il viaggio, non sa neanche dov’è la Patagonia …A me serviva tanto la scena della macelleria dove la zia gli suggerisce il resto che deve dare, proprio per mostrare che lui non ha una percezione esatta del denaro, questo è anche un sintomo del suo ritardo mentale, e mi faceva molta tenerezza il fatto che lui, con questo piccolo salvadanaio, andasse in agenzia, e che poi non riuscisse nemmeno a contare i soldi, quasi come se non avessero ‘numero’ quei soldi, mi commuoveva molto questa cosa…
La musica è decisamente importante, c’è la canzone che dà il titolo al film, quella del disco amato dal padre di Agostino, chiamata a cementare il sogno, poi quella extradiegetica e, non ultima, quella che si ascolta al rave party…Se si esclude il videoclip, è il primo dei tuoi lavori dove si ascolta tanta musica…
Per quanto riguarda l’aspetto musicale ho dovuto agire su più fronti, la prima canzone, quella di Gianluca Grignani, che si sente nella macelleria, fa parte del mio bagaglio musicale meno ‘alto’ …Ad un rave party poi ho conosciuto dei ragazzi che facevano musica tecno e ho chiesto loro di comporre tutte le musiche, diegetiche o meno, non volevo scegliere semplicemente dei brani tecno, ma volevo proprio musica ‘da rave’ perché penso che uno spettatore che frequenta i rave party deve riconoscere nella mia musica una veridicità, deve ritrovare il tipo di musica di quel particolare tipo di ambiente che frequenta …Comunque tendo a usare la musica molto poco e se la uso di solito è solo diegetica, tuttavia in questo caso mi sono ritrovato col bisogno di far sentire un ‘piccolo ambiente’, avevo bisogno di una musica che abbracciasse Yuri, soprattutto nei suoi momenti di scelta e di solitudine, per quello abbiamo anche trovato una sorta di ‘tema di Yuri’, una musica elettronica quasi ‘sognante’…
Il brano Patagonia, come l’hai scoperto, o meglio ritrovato?
Patagonia era la canzone che mi univa al mio ex fidanzato, la storia del mio film si rifà al nostro rapporto, un giorno la stavamo ascoltando e lui mi dice: uno di questi giorni dobbiamo andarci in Patagonia, l’ascoltavamo spesso, anche in macchina…