Le regole della passione. Il gioco dei sentimenti. La regola del gioco di Jean Renoir
di Vittorio Giacci
La regola del gioco è il credo dei cinefili, il film dei film, il più odiato alla sua uscita, il più apprezzato in seguito… All’interno di questo “dramma giocoso”, Renoir agita senza averne l’aria una messe di idee generali, di idee particolari ed esprime soprattutto un grande amore per le donne.
François Truffaut
Opera troppo tardivamente considerata il suo capolavoro, La regola del gioco, titolo originario Les caprices de Marianne, in omaggio alla pièce teatrale di Alfred De Musset, ma ispirato anche a Giraudoux, è una satira sociale di impietosa lucidità oltre che un film pessimista senza appello sulla decadenza di una classe, la nobiltà, e, ancor più, su una borghesia corrotta e impotente, alla vigilia di una guerra che non ha il coraggio di capire e affrontare, isolata in sé stessa e incapace di distinguere il vero dalla finzione, lo spettacolo dalla realtà, l’omicidio da un incidente.
Una comunità, insomma, prigioniera della propria ipocrisia, di regole e convenienze che essa stessa si è data e dalle quali non può più uscire, come nel Buñuel de L’angelo sterminatore (1962). Scrive Truffaut – “ha un problema sentimentale da risolvere ma ciascuno si comporta nella maniera più inadeguata. (…) Il solo personaggio sincero – André Jurieu l’aviatore – avendo messo i piedi nel piatto, scatenerà un ‘gaio dramma’ di cui sarà la vittima per non essere stato alla regola del gioco. Sono personalmente incapace – conclude Truffaut senza minimamente celare, neanche in questo caso, la sua irrevocabile e indiscutibile scelta “di tendenza” a favore del suo regista preferito – di citare un altro cineasta che abbia messo tanto di sé – e il meglio di sé- come il Renoir di La regola del gioco.
Nella sua approfondita analisi sulla complessa struttura narrativa dell’opera, André Bazin evidenzia la costruzione a due tematiche che si rispecchiano reciprocamente, la scena della caccia e quella della festa al castello.

La caccia, in realtà, diventa la prova generale, in chiave parodistica, della festa mentre quest’ultima diventa la vera caccia che termina anch’essa con una morte, proprio da parte di un guardiaccia. “Una farandole – conclude Bazin – fatta di agitazione e di macabra comicità”.
In coerenza con il tema, lo stile del film si sviluppa in un appropriato “gioco” intellettuale, fresco, compiacente e disincantato come una pagina di Marivaux o Beaumarchais, e l’implacabile requisitoria contro l’ordine borghese si stempera nel carosello dei corteggiamenti, nei girotondi degli spasimanti, in quella che vorrebbe essere un’elegante ronde d’amore che si rivela invece un sabba mortale, come la messa in scena, nel teatrino del castello, della Danza macabra di Saint-Saëns da parte di attori mascherati da spettri tra i quali lo stesso Renoir travestito da orso, nella parte di Octave.
La scelta espressiva di Renoir – fa notare Truffaut – è “di mostrare anziché di analizzare”, di “muovere anziché di commuovere” (l’osservazione è più efficace nel testo francese che parla di “mouvoir au lieu d’emouvoir”). Una dinamica coreutica che si traduce ipso facto in stile.
“Il movimento della macchina da presa – osserva Carlo Felice Venegoni – è un continuo scrutare l’ambiente e ciò che fanno i suoi occupanti, e la ripresa assolve così a una duplice funzione: narrativa per quanto in quel momento il dialogo contribuisce, con le informazioni che reca, alla storia principale; e descrittiva, non tanto dell’ambiente in sé stesso, quanto della condizione esistenziale che i protagonisti si trovano a vivere. Collegando i due fattori la notazione renoiriana costituisce un ulteriore approfondimento in senso realistico dello sfondo sul quale si articolano gli avvenimenti”.
E’ il regista medesimo a spiegarlo quando attesta: “I miei movimenti di macchina consistono nel riprendere gli attori in primo piano e poi seguirli nei loro movimenti. Ciò presuppone una grande abilità da parte dell’operatore, ma il risultato è spesso entusiasmante. Personalmente ritengo che, usando la cinepresa in questo modo, sono riuscito a darmi una delle mie più grandi emozioni.”
Questa tecnica, giocata su inquadrature larghe e panoramiche ampie a cui si alternano primi piani, è quella che dona alle opere di Renoir un senso tutto particolare, quello di un set dove la creatività autoriale e quella attoriale si fondono in una sensuale compiacenza di corpi, di sguardi, di atmosfere, unitamente a un certo gusto dell’improvvisazione, intendendo con questo termine una “estensione” del momento della ripresa.
Renoir ama dire, al proposito, che quando girava in teatro di posa lasciava sempre una porta aperta per far entrare l’imprevisto, qualcosa di inatteso che può riservare piacevoli sorprese. Ed è proprio questa tecnica a fornire al film quel “senso in più” di provocazione, di alterità, di messa in discussione dell’ordine che la sola tematica, pur in sé provocatoria, non sarebbe sufficiente a fornire.
Prodigo come sempre di considerazioni puntuali, Renoir illustra il film non solo alla luce della sua scelta classica e antiromantica ma esprimendo la propria volontà di presa di distanza dal Realismo poetico di cui pur era stato tra i più lucidi esponenti, verso una concezione più cosciente e innovativa del cinema, una evoluzione che lo porta “dallo spettacolo all’espressione” e che lo immette di diritto e con vent’anni di anticipo in quel cinema della modernità che sfocerà in Francia nel movimento della Nouvelle Vague.
“La regola del gioco – dichiara infatti con ammirevole consapevolezza teorica – è un primo tentativo verso quello che alcuni giustificati successi stanno imponendo alla produzione francese. I film pieni di malinconia e di rabbia hanno avuto la loro evidente utilità e hanno contribuito ad attirare l’attenzione del mondo sul cinema. Ma ho la sensazione che il pubblico adesso ha forse voglia di interessarsi ad eroi meno miserabili e meno tarati di quelli che ci hanno presentato i film in questione. (…) E’un tentativo di avvicinarmi al vero Classicismo francese. Non so se ci sono riuscito. L’avvenire ce lo dirà; ma in ogni caso, quell’esperienza era indispensabile ai miei studi cinematografici. Dico studi, poiché ritengo che, nel mio mestiere, non si deve mai smettere di imparare e di cercare.”

Considerato oggi uno dei capolavori della storia del cinema, fu a suo tempo molto male accolto. “L’accoglienza fu disastrosa” – racconta il regista – perché il film venne giudicato anticommerciale e demoralizzante (…). La gente lo ha accolto (a conferma di questa sua scelta tematico-formale) come se avesse ricevuto delle frustate. Se La regola del gioco fosse stato realizzato come un film romantico, se avesse mostrato personaggi che si sciolgono in lacrime e che sono sempre col cuore in mano, se avessi preso personaggi dai volti sconvolti, se avessi insomma usato tutto l’arsenale del Romanticismo, sono convinto che la stessa storia sarebbe stata apprezzata di più. Ma lo spirito classico, lo spirito, cioè, in base al quale si cerca di approfondire le cose piuttosto che mostrarle nella loro esteriorità, pare che in questi tempi venga apprezzato assai poco da un pubblico che, da almeno cento anni, è sommerso dalle lacrime del Romanticismo. (…) Provate a giocare all’innovatore e a scompigliare un po’ l’ordine stabilito – è il suo amaro commento – e sarete scartati senza pietà.”
Il regista otterrà un risarcimento morale a questa débacle, il più grande fallimento di tutta la sua carriera, con vent’anni di ritardo, al Festival di Venezia del 1958, quando il film viene proiettato in una versione semi-integrale di 112 minuti ed è accolto trionfalmente.
Quello che non fu recepito dalla critica colpì subito, invece, e con la forza di un colpo di fulmine, un futuro autore, Alain Resnais, grazie a quel misterioso fluido che unisce gli autori nello spazio e nel tempo che amo chiamare con il termine “conversazione.”
“Quando sono uscito dal cinema – confessa infatti Resnais in una sua intervista a Richard Roud – ho dovuto sedermi sul bordo di un marciapiedi. Sono rimasto almeno cinque minuti poi ho camminato per due ore nelle vie di Parigi. Per me, tutto veniva nesso sottosopra. Tutte le mie idee sul cinema venivano cambiate. Mentre guardavo il film, le mie impressioni erano così forti fisicamente che mi dicevo che se una scena o l’altra fosse durata ancora un’inquadratura di più, sarei scoppiato in singhiozzi o avrei gridato”
Le “regole della passione” contenute in un film non compreso perché troppo anticipatore hanno fortunatamente lasciato tracce indelebili entrando nel “gioco dei sentimenti” di molti cineasti e di molte opere del cinema della modernità.
Ecco perché è giusto ricordarlo sempre come testo indispensabile nella Storia del cinema d’autore e per le prospettive che esso apre al cinema del futuro.

André Bazin, Jean Renoir, Mimesis, Milano, 2012.
Jean Renoir, La mia vita. I miei film, Marsilio, Venezia, 1992.
François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia, 1992.
Carlo Felice Venegoni, Jean Renoir, La Nuova Italia, Firenze, 1975.