La cicatrice interiore: in memoria di Ari Delon e Alain Delon
di Sergio Arecco
Come parlare della morte di Alain Delon? Non penso sia possibile farlo, nei limiti di un microsaggio come questo o di una memoria personale. Penso sia possibile farlo solo ricordandone il figlio Ari, morto l’anno scorso nell’indifferenza generale, in primis quella del padre, ormai prigioniero della sua malattia. Quel padre che non ha mai voluto riconoscerlo e ha preferito affidarlo alle cure costanti della ‘nonna’ Édith Arnold (1911-1995), in ragione della precoce tossicomania del ragazzo, iniziato al consumo di eroina dalla stessa madre, Christa Päffgen: un Ari sempre in transito da una droga all’altra, da una clinica all’altra, da una depressione all’altra, in una tragica altalena autolesionistica da cui è riuscito a emergere solo una volta: la volta che ha concepito la figlia Blanche.
Christian Aaron Boulogne (1962-2023), detto Ari, AriBoulogne (all’anagrafe Ari Päffgen, trasformato in Ari Boulogne in ossequio al cognome del secondo marito di Édith), talmente somigliante al padre da smentire ogni illazione contraria, ogni presunzione d’innocenza da parte sua. Alain Delon, dopo averlo avuto da Christa Päffgen (1938-1988) – la madre tossica, in arte Nico, musa dell’underground americano: in origine l’esperienza cinematografica con la Factory di Warhol per The Chelsea Girl, 1962, e l’esperienza discografica con i Velvet Underground di Lou Reed, 1967; qualche anno dopo, la summa musicale Desertshore prodotta da John Cale, 1970 –, si è sbarazzato di lei considerandola, oltre che una madre inaffidabile, un personaggio più alla moda di se stesso (La dolce vita, l’ascesa da star). Una Nico a sua volta iniziata alla dipendenza da stupefacenti, tra gli anni sessanta e settanta, da Philippe Garrel, il compagno del momento – padrone, vent’anni dopo, di una tale struggente disinvoltura e di un tale coraggio estetico da dedicarle, a tre anni dalla morte, lo straziante, immenso, J’entends plus la guitare (1991, girato tra Positano e Parigi).
Vorrei fare un passo indietro, scusandomi magari di tanta cronaca. All’inizio degli anni settanta, Nico e Philippe stanno insieme, condividono le avventure dell’anarchia artistica e dell’avanguardia intellettuale. Si tratta di un periodo storico straordinario: per loro e, oso dirlo, per tanti di noi. Un passaggio decisivo. Voglio ricordarlo con le parole di Pierre Clémenti (1942-1999), che allora girava film incommensurabili per Pasolini e Bertolucci. “Abbiamo voluto mostrare come la solitudine, tramite l’ascetismo e il misticismo, tenda versa la morte concepita come liberazione, e possa aprire varchi alla salvezza: la fratellanza delle menti creative, l’unità nell’agire, il procedere in avanti. Solo così l’iniziato, che è riuscito a liberarsi da solo tramite la solitudine e i riti, potrà ritrovare il senso della vita”.
Pierre le ha pronunciate ispirandosi al set di La cicatrice intérieure (1971, 16 mm, colore, 58’), con Nico e Philippe al fianco. La cicatrice intérieure è il mediometraggio di Garrel in cui egli incarna la figura dell’arciere, il giovane che compare nudo, a cavallo, in soccorso di colei che non ha nome – chiamiamola l’Abbandonata, ovvero Nico, compagna dal 1969 di un Philippe filmmaker emergente, enfant prodige per via dinastica (il padre Maurice), con già quattro corti all’attivo. Sì, perché nel registro autobiografico – l’unico concepibile per Garrel – Nico deve sposare con lui non solo la vita ma lo stesso film in lavorazione, da sommarsi ai film anteriori e ai film futuri: alla fine, sette in tutto. E La cicatrice intérieure è il mediometraggio di Garrel in cui, nell’astrazione di immagini telluriche e primordiali, Nico riveste da capo a piedi una tunica bianca che la confonde con il biancore accecante del deserto (un po’ africano, egiziano; un po’ americano, New Mexico, prefigurato in Greed di Stroheim); in cui, percorrendo il set, Nico lamenta sconsolata la scomparsa di lui, così da identificare per l’appunto il cuore ferito, la cicatrice interna, la haute solitude (parafraso un titolo chiave di Garrel, 1973) di cui narra Clémenti.
Nella finzione dell’erranza ascetica e mistica allestita dal filmmaker ventitreenne, con lunghi piani-sequenza e carrelli a seguire, ora da sinistra a destra, ora da destra a sinistra, in un eterno ritorno dell’uguale e dell’irrevocabile – il distacco mitico-rituale tra lei e lui, secondo quell’idea di separazione o frattura intrinseca che connota ossessivamente tutto il cinema di lui –, Garrel stesso, rivestito da capo a piedi di un completo marrone che lo apparenta a un dandy da pittura ottocentesca, rappresenta infatti il Demone. Il quale si distacca ripetutamente dalla sua vittima-complice, ne scavalca tre volte, liturgicamente, il corpo giacente raggomitolato sulla sabbia, poi si allontana, per accovacciarsi a sua volta poco lontano da lei: due “feti adulti” (Pasolini) immersi nella luce incorporea delle montagne blu che offuscano il deserto.
Un deserto abitato, però. E abitato dalla presenza a lei più cara, quella del figlioletto Ari (ecco come si può coniugare a mio avviso la suddetta cronaca e la presente filmologia): un’altra istanza mitologica che conferma quella saldatura tra arte e vita, cinema e biografia, che La cicatrice intérieure celebra come se si trattasse di una cerimonia iniziatica tra intimi. Perché, se l’arciere Clémenti armato di arco e faretra – il Prometeo portatore del fuoco che ha strappato agli dei per darlo agli uomini – sarà il soccorritore ufficiale, autorizzato dal mito collettivo, il primo soccorritore ufficioso, autorizzato dal mito individuale, non bisognoso dei nominalismi del mito essendo già il suo nome mitologia, non potrà che essere Ari, il primo a condurre fuori dal deserto la madre, adagiata su un cavallo bianco che il fanciullo provvede a tenere per la briglia. Grazie a un piano-sequenza che, in tale circostanza, scavalca i piccoli fuochi elementari che costellano il cammino, disposti in fila come tanti segnavia rivolti verso la luce – dopo il buio ancestrale che ha investito la scena dell’Abbandonata.
La prima parte, scandita in non più di cinque strutture ricorsive a base di carrelli laterali o circolari, finisce a questo punto. Dopodiché la seconda, più mossa, articolata in almeno una decina di strutture, si rifà sì alla medesima idea di erranza primigenia, ma ne colloca l’epicentro tra i ghiacciai, i geyser, le cascate e i dirupi dell’Islanda. È qui che l’arciere sveste i panni di Prometeo (se si può dire così, dal momento che la sua nudità da semidio persiste) e veste quelli di Tristano: un Tristano ben più remoto di quanto ne dica la leggenda, il quale arriva dal mare a bordo di un’imbarcazione su cui ha issato la fatidica vela nera e, da quell’istante, prende definitivamente in consegna l’Abbandonata. Mentre Ariè tornato in qualche modo infante, si crogiola nudo nella neve come un neonato irresponsabile, le s’inginocchia ritualmente davanti, copia in miniatura di Alain Delon giovanissimo; e lei lo accoglie ritualmente, prima accarezzandolo, poi seguendolo attraverso l’oscurità boreale, verso una grotta misterica di cui l’arciere è il custode e il sacerdote.
A seguire, in rapida successione: buio magico; scongiuri sciamanici; canto sacro; rito tribale; consegna da parte dell’arciere di una spada salvifica; senso di una lievitazione dello sguardo che si allarga dal cerchio ristretto delle tenebre a un campo lunghissimo che comprende entrambi gli attori, fino al loro sconfinare fuori dall’inquadratura. Dando per scontato che la spada è salvifica nel duplice senso della cacciata del Demone e della morte inevitabile di Isotta (Nico morirà nel 1988, a quarantanove anni, cadendo ‘accidentalmente’ dalla bicicletta su una strada di Ibiza), resta, alla fine di La cicatrice intérieure, la sensazione di aver assistito non tanto a una rarefatta esercitazione sperimentale (la quinta di Garrel, legata in particolare a Le révélateur, un muto realizzato nel 1968, a vent’anni, con l’ausilio di un set anch’esso estremo come quello offerto da una Foresta Nera più nera che mai), quanto a un happening di natura privata, condotto sul filo teso del segreto di famiglia – Ari – e di un altrove che, malgrado l’esotismo, è sempre qui e ora, inciso nel punto di rottura di un rapporto di coppia minacciato a priori, venato di provvisorietà e stordimento.