Eyes Wide Shut. Cerrar los ojos di Victor Erice.
di daniela turco
Nell’ultimo film di Victor Erice, Cerrar los ojos, splendido labirinto di biforcazioni e di rispecchiamenti dove il cinema si avvita alla ricerca teorica, all’interno della circolazione dei segni compare una serie di oggetti comuni: vecchie scatole di latta, libri, singoli pezzi di scacchi, e, soprattutto delle fotografie, che con la loro presenza – nel registro dell’apparizione – interrompono e cambiano il ritmo del film.
Cerrar los ojos, su cui è già intervenuto tempo fa con l’abituale nitidezza Alessandro Cappabianca, è un film infinitamente doppio, nel segno della statua bifronte nel giardino all’inizio, dove i film, e i testi, continuamente richiamati al suo interno in sottotraccia, sono molti di più, ci sono altre immagini che vibrano tra le immagini depistando, ricomponendo e disperdendo una linea narrativa fondata sull’attesa e sull’incertezza. Cerrar los ojos si apre con una lunga sequenza nelle stanze di una villa nel bosco che a un certo punto, però, si interrompe rivelando di non essere altro che la sequenza di un film mai portato a termine, Lo sguardo dell’addio, il cui attore principale, Julio Arenas (Josè Coronado) era misteriosamente scomparso proprio durante le riprese. Prima vertigine: il film, che avevamo iniziato a vedere si ribalta di colpo dentro un altro film: Cerrar los ojos, appunto, dove Miguel Garay (Manolo Solo), il regista del film non finito a distanza di vent’anni si ritrova con qualche esitazione a riprenderne i fili interrotti, sollecitato dall’occasione di un programma televisivo sui casi irrisolti. Seconda vertigine: non solo lo spettatore si trova di fronte a due film di “ricerca”, dove il primo cerca di “finire” nell’altro, ma inizia a sperimentare un disorientamento più strutturale e profondo, determinato dai rispecchiamenti e dalle coincidenze che non solo collegano i due film tra loro ma coinvolgono anche altri film della filmografia di Erice, nella forma di uno strano labirinto che sembra uscito dalle pagine di J.L. Borges, il cui racconto La morte e la bussola, di fatto, fornisce una prima evidente cornice. Chi segue da tempo il lavoro di Victor Erice è abituato a questi scarti improvvisi spazio-temporali che si spalancano dentro i suoi film, spesso collegati alla presenza dell’immagine fotografica, che funziona all’interno del film sia in senso metaforico, per il suo rapporto fondativo con il cinema, sia in senso proprio, di oggetto a sé stante, di preciso frammento – nella definizione di Proust – di un “tempo incorporato”, un tempo che è stato e che non è più. In una pagina di La camera chiara, Roland Barthes, seguendo Bazin, scriveva di amare “…la Foto in opposizione al cinema, da cui tuttavia non riuscivo a separarla”1, qualcosa che in fondo si potrebbe dire anche del cinema di Erice, che mantiene nel suo nucleo più profondo una tensione irrisolta e conflittuale tra fotografia e cinema, legati nel pensiero del regista da un rapporto confidenziale.

Questa ambivalenza legata alla fotografia dominava ad esempio una magnifica sequenza senza dialogo di un film precedente di Erice, El Sur (1983), in cui davanti alla vetrina di un fotografo si fermano a osservare una fotografia esposta che ritrae Estrella – la protagonista (Sonsoles Aranguren) -, prima, Estrella stessa, e poco dopo, suo padre Agustin (Omero Antonutti), che rimane a sua volta a guardare da solo in silenzio la foto della figlia, mentre lei, qualche passo dietro di lui, lo osserva di nascosto. Veniva così filmato un movimento profondo e raro da vedere, che scavalcava la diegesi del film e la psicologìa dei personaggi, per situare le traiettorie costitutive dello sguardo direttamente sotto la lente della psicoanalisi. Attraverso la fotografia dietro la vetrina, prendeva forma una rete invisibile di sguardi che nel loro insieme compongono virtualmente un cerchio – il padre che guarda la foto di Estrella nella vetrina, ed è a sua volta osservato da lei in carne e ossa, qualche passo dietro di lui -, mentre nello stesso tempo aprono una sorta di disvelamento della radicale assenza di reciprocità dello sguardo di fronte a un film o (come qui ) a una foto, mostrando invece un processo perturbante per quello che è e facendo emergere da quel vortice la difficoltà di comunicazione dei sentimenti, la fuga inarrestabile del tempo e la radicale condizione di solitudine dello spettatore. Anche in En sol del membrillo (1992) – insieme a Cerrar los ojos il film in assoluto più teorico di Victor Erice -, ritorna l’immagine fotografica, verso la fine di un film dove la riflessione sul tempo e sul cinema visto contemporaneamente come morte al lavoro e come infanzia dell’arte, si sovrappone e si condensa nel lavoro del pittore Antonio Lopez, documentato da settembre a dicembre 1990 dalla mdp di Erice, nel suo tentativo di dipingere sulla tela la luce dei frutti sull’albero di mele cotogne nel suo giardino. Anche in questo film compare una fotografia, tenuta in mano, verso la fine, da Antonio Lopez, mentre lui stesso, disteso su un letto, è a sua volta il soggetto di un ritratto, ad opera di sua moglie. La fotografia, scattata molti anni prima in Grecia, è un’istantanea di Antonio insieme ad Enrique, un suo amico, come lui pittore, e già incontrato in un momento precedente del film, entrambi giovani e sorridenti davanti alle colonne di un tempio greco: un’immagine plastica dell’amicizia, tra i temi più ricorrenti, cari a Erice.
Erice ha sempre portato delle foto nei suoi film, facendole apparire come dei fantasmi o come accessi segreti verso un altro mondo, altrimenti invisibile, che funzionano, si crede, per comprendere meglio il proprio, come avviene alla piccola Ana in El spiritu de la colmena (1973), il primo film di Erice, quando sfogliando l’album di famiglia, osserva come i suoi genitori, in fondo, fossero sempre stati soli, mai fotografati insieme; le fotografie dell’album mostravano una lontananza tra loro che di fatto esisteva anche nella loro vita quotidiana…
Oppure, nel segmento da lui diretto di Centro Historico2 (2012) Victor Erice ha filmato all’interno della sala-mensa di una fabbrica tessile in Portogallo gli operai che vi avevano lavorato in seguito alla sua chiusura definitiva nel 2002, dopo 150 anni di attività. Ognuno di loro, uomini e donne, seduto davanti alla mdp, parlava della propria esperienza in quella fabbrica, mentre dietro alle loro spalle si vedeva appesa al muro una fotografia ingrandita in b/n di altri operai e operaie seduti alle tavole della mensa, in uno scatto, che sembra risalire agli inizi del ‘900. Si tratta del segmento “Vetri rotti” il film più politico di Erice, non solo perché mette al centro una fabbrica ora dismessa e alcune delle persone, uomini e donne, che vi hanno lavorato, ma ancora una volta per quel “tempo incorporato”, fissato nella fotografia sul muro con gli operai e le operaie di ieri, che entra in dialogo con gli operai e le operaie di oggi, che, a loro volta, in un vortice vertiginoso, parlano di un tempo passato che non è più. Che cosa resta di quell’esperienza dura fatta di lavoro, di giovinezza e di speranze? E che cosa chiedono quegli occhi che dalla foto in b/n interrogano silenziosamente non solo gli altri operai filmati “al presente”, ma anche lo spettatore di oggi e di domani del segmento di Erice? In questa documentazione su piani sfalsati del lavoro in fabbrica, che incorpora memorie personali e quindi già immediatamente politiche (quelle delle donne, soprattutto), si ritrova la freschezza e la potenza originaria di un gesto lumière, ostinatamente alla ricerca dell’umano, soprattutto nella sequenza finale, quando la mdp scivola sulla fotografia appesa nella mensa, isolando questo e quel volto, forzando il cinema dentro (contro?) la fotografia, attraverso i tagli operati dal montaggio, accarezzando lentamente nei travelling quel gruppo di persone, ora tutti fantasmi – certo – di un tempo finito, che dà tuttavia l’illusione di far rivivere nell’istante impermanente della visione la realtà di un’immagine vivente.
In Cerrar los ojos, si trova invece il movimento contrario rispetto a quello appena osservato in “Vetri rotti”: qui non è il cinema a portare il movimento, a far entrare la vita, dentro la fotografia, ma sono piuttosto le diverse fotografie, disseminate nel film, a muoversi come pure schegge di un altro tempo e a interrompere il fluire del film facendo emergere le falde di passato, i frammenti di vita vissuta, i momenti di dolore neppure articolati in parole, ma semplicemente evocati dalla presenza di certe immagini.
E’ il caso della cassapanca, dentro un magazzino dove Miguel tiene le sue cose di una vita precedente, e dove ammassati insieme agli appunti e alla sceneggiatura del film interrotto, ci sono anche i giochi del figlio – morto in un incidente, verrà poi detto, incidentalmente -, una mazza da baseball, un pupazzo, delle cartoline, e una serie di istantanee di Miguel con il figlio piccolo, fatte in una cabina per le fototessera. E’ la totale mancanza di retorica, di puro inventario bric-à-brac come nelle opere di Joseph Cornell, con cui Erice filma questi reperti dimenticati a essere straziante, da un lato, mentre dall’altro produce senso, mentre tocca qualcosa di interno e sfuggente di solito al cinema, che in un celebre testo Benjamin aveva indicato come inconscio ottico, del quale si sa qualcosa grazie al cinema, “come dell’inconscio istintivo grazie alla psicoanalisi”3. Tutto Cerrar los ojos si lascia attraversare da questi circuiti visibili e invisibili, consci e inconsci che legano oggetti, sentimenti, persone a un tempo perduto: le fotografie, i nodi di corda da marinaio, le canzoni, perfino un proprio libro con una dedica a Lola, la donna un tempo amata, da lui e da Julio, che a un certo punto Miguel ritrova per caso su una bancarella di libri usati. Come è noto, secondo Jorge L. Borges, il caso non esiste, perché “ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza della complessa meccanica della causalità”, e anche in Cerrar los ojos si può registrare questo movimento inspiegabile, questo gioco del caso quando la fotografia della ragazzina cinese che nel film interrotto Lo sguardo dell’addio il personaggio interpretato da Julio doveva ritrovare, scivola dentro l’altro film, o come l’epifania di una canzone presa da Un dollaro d’onore – un film che ruota sul nodo dell’amicizia – che viene suonata da Miguel, anticipando il ritrovamento di Julio in una residenza per anziani, straniero a se stesso e senza più memoria del proprio passato.
Nel cinema di Erice, però, e anche questo ultimo film non fa eccezione, i molteplici fili che lo attraversano e lo sostengono non vengono quasi mai annodati – è questa la sua grandezza -, ma piuttosto lasciati aperti, abbandonati a un movimento dolce, che segue un andamento circolare, già usato da Ophüls in una chiave fatalmente pessimista, dove in realtà niente – e nessuno – può fare mai veramente ritorno. Eppure, per Erice, malgrado tutto, qualcosa riesce a ritornare, come ad esempio lo spazio scalcinato di un povero cinema di paese, dove viene organizzata da Miguel insieme ad altri la proiezione dell’ultima sequenza del film mai finito, in cui Julio riconsegnava la ragazzina cinese al padre, nella speranza che l’uomo rivedendosi sullo schermo possa ritrovare la memoria. La sala cinematografica in abbandono è sorprendentemente simile a quella di El espiritu de la colmena, il folgorante film d’esordio di Victor Erice in cui, dietro le vicende della piccola Ana (Ana Torrent) e della sua famiglia nell’imminenza della seconda guerra mondiale, a essere messo in scena veramente dal film era il fascino terribile della visione. Credo che esistano pochi registi ad aver provato a riflettere sulla potenza del cinema, con l’intensità che Victor Erice fin dall’inizio ha usato per soffermarsi sugli effetti del cinema sugli spettatori e sull’impressione che esercita sui soggetti più sensibili, lasciando in loro un segno indelebile. El espìritu de la colmena (1973) parlava esattamente di questo, attraverso l’esperienza che fa del cinema la piccola Ana, che, dopo aver visto Frankestein di James Whale, presa in una spirale di fascinazione e di terrore, era arrivata al punto di allucinare il mostro, materializzandone fisicamente il volto, riflesso in un ruscello, in una malinconica sequenza notturna all’interno di un bosco.
Non è per caso, allora, che a distanza di cinquant’anni da quel film, la stessa attrice Ana Torrent faccia ritorno in Cerrar los ojos, a interpretare la figlia di Julio, e che sia soprattutto la sua presenza a riattivare quel passaggio segreto che permette che qualcosa di essenziale si trasmetta da un film ad un altro, qualcosa che ha a che fare con la memoria, con gli oggetti perduti – o ritrovati – e con le tracce che il tempo lascia sui corpi e sulle cose.
Sembra quasi che Victor Erice, regista solitario e appartato, che ha sempre lasciato passare molto tempo tra un film e l’altro, con Cerrar los ojos abbia voluto chiudere un percorso circolare iniziato cinquant’anni prima, dove la fine prevede l’inizio. E’ in questa chiave enigmatica di eterno ritorno del cinema, che si ascoltano di nuovo, con commozione rinnovata, le stesse parole: “Soy Ana” che Ana Torrent aveva già pronunciato da bambina, in El espiritu de la colmena, là con il desiderio (e la paura) che servissero a farle incontrare ancora, con il cinema, Frankestein, e qui con la stessa paura (e il desiderio) di far tornare, con il cinema, la memoria a suo padre… Questo ultimo film di Erice non può quindi che finire in un cinema, il luogo deputato a far danzare gli spiriti e a farli tornare, davanti a uno schermo, lasciando ogni risoluzione in sospeso, nelle mani e nel pensiero dello spettatore, ad occhi aperti e poi chiusi, eyes wide shut, soggetto ed enigma della visione.

- R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 5 ↩︎
- Gli altri segmenti del film collettivo sono di Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Manoel de Oliveira ↩︎
- Cfr W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, einaudi, torino 1979, p. 42 ↩︎