Memorie dalla casa dei morti: Chateaubriand, Machado de Assis, Julio Bressane
di Giovanni Festa
La vita è un montaggio o un piano sequenza? Pasolini, nelle pagine famose di Empirismo eretico dedicate al tema, pensa che la risposta sia la seconda: il piano sequenza è la vita mentre la stiamo vivendo, mentre il montaggio funziona come la morte, che permette una fulminea ricomposizione degli elementi salienti della vita in una storia de narrare. Dal filmino in Super8 di Zapruder (che mostra in diretta la morte del presidente Kennedy) a Orson Welles (che comincia Citizen Kane con un corpo che agonizza e muore, al quale segue il montaggio dei momenti principali dell’esistenza del magnate attraverso le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto), dalla vue Lumière (tranche de vie colta apparentemente sul fatto) ai montaggi del cine-ensayo di Di Tella (che ricostruisce una biografia singolare a partire da materiali plurimi) sembra ci sia questa dicotomia: il montaggio si realizza a posteriori, come la biografia, la vita scritta; il piano sequenza si realizza in sincrono con l’esistenza, la vita vissuta. Montaggio come scrittura, Piano sequenza come azione. Vivere e descrivere non sono proprio la stessa cosa: ma è possibile vivere senza il processo, simultaneo, di dirlo con parole? E il piano sequenza non è, comunque, come dice Julio Bressane, un ideogramma? Ed è quindi, di nuovo, apparentato con un atto di scrittura?
Bras Cubas di Machado de Assis, dal quale Bressane ha tratto un film, inizia, non a caso con un epitaffio e una morte: il montaggio sarebbe allora quella forza di contagio che permette alle parti irrelate, individuate a posteriori come blocchi rilevanti di una vita che non può più essere, solamente, la nostra (perché c’è qualcuno che la scrive al posto nostro) di saldarsi e incontrare un senso che non aveva quando si stava svolgendo.
Che cosa sono questi blocchi rilevanti di vita – i “momenti fondamentali” secondo Pasolini – attraverso cui la vita può essere declinata e compresa? Sono quelle porzioni di vissuto dove è accaduto qualcosa di rilevante: che ne sarà allora, nella scrittura biografica, di tutte quelle situazioni in cui non accade nulla? Di quelle scene miste, che secondo Raul Ruiz era compito di un altro cinema, parallelo e opposto a quello industriale, decifrare e riprodurre?
Mi vengono alla mente due autori agli antipodi legati però da una affinità di famiglia (Warburg avrebbe messo i due tomi uno di fianco all’altro nella sua biblioteca di Amburgo) che è quella delle “memorie dalla casa dei morti”. Il visconte di Chateaubriand, autore di una sterminata autobiografia, Memorie d’oltretomba, sembra negare l’ipotesi pasoliniana: è possibile scrivere una biografia, ossia fare un montaggio della propria vita, da vivo (ma questo è – banalmente – chiaro: sennò le autobiografie non esisterebbero) mentre la morte, lungi di avere questa potenza di ricapitolazione fulminante del vissuto, secondo lui, non chiarisce nulla. Machado de Assis, in Memorie postume di Bras Cubas sembra invece affermarla: il personaggio scrive la propria autobiografia una volta morto (non so perché, ma mi viene in mente il cadavere di Joe Gillis che galleggia nella piscina hollywoodiana di Gloria Swanson in Sunset Boulevard di Billy Wilder). Entrambi, il francese e il brasiliano, intenderanno la biografia come un atto di montaggio.
Chateaubriand però, quando iniziò a scrivere le sue memorie, non era del tutto vivo. Lo dice egli stesso: sta abbandonando il mondo, e ammette di trovarsi in uno stato di eccezione che potremmo chiamare di sopravvivenza e che definisce essere uno stato misto di “rigore” e “grazia”. La sopravvivenza, la misteriosa parola nachleben di Warburg, ammetterebbe questi due aggettivi?
Se ci pensiamo bene, si: il “rigore” è, per così dire, ciò che patisce l’essere umano imprigionato: rigore dei gesti, costretti a economizzarsi; rigore degli spazi, sempre vigilati; rigore dei tempi, scanditi da un ordine senza pause. E imprigionate non erano anche le grisaglie, fossili pagani rilucenti nell’ambra del passato ritornante, misteriose piccole immagini in chiaroscuro che fermentavano rinchiuse anch’esse in spazi angusti ai margini del technicolor della scena centrale (una Natività, un Martirio, la scena della vita del santo eponimo), anime pagane che premevano per guadagnare il centro, paraergon in b/n, ombre silenziose che già chiedevano che ad accogliere la loro migrazione silenziosa ci fosse il formato panoramico e il colore che proiettavano la loro legge festiva nel “piano superiore”? Spettri prigionieri, che attendono con pazienza mista ad aspettazione, quella chance che li rivoluzioni, ossia la loro liberazione. Si, perché erano state imprigionate: il medioevo cristiano guardava con sospetto queste pericolosi frame dell’anima commossa, residui fossili di arcaici rituali: il cristianesimo, religione del super-io e della colpa, non ha mai “messo a morte” le immagini, pagane, non le ha “fatte fuori”, ossia non le ha condannate a nessun fuori campo assoluto (come, per esempio, i talebani con le statue panneggiate alla greca del Buddha di Bamyian) -anche se questo non significa che non le abbia abbattute), ma le ha, semplicemente, rimosse. Ma rimuovere, come spiega Freud, non significa distruggere, ma solo spostare, in un altro luogo, che non è più quello della “coscienza chiara”. Ed è in questo stato-di-poi che si muovono queste ombre, aspettando di rinascere. Si muovono come immagini in un kinetoscopio: aspettando, muovendosi, di essere liberate o di fuggire.
Da qui, il secondo termine adoperato da Chateaubriand, la “grazia”, che del rigore è la continuazione e l’esito felice, ed è da intendersi, allora, innanzitutto dal punto di vista, per così dire, “giuridico”, dato che può alludere al provvedimento di estinzione della pena a favore di un determinato soggetto. O, forse, la grazia non è da ricercare nel soggetto, ma altrove. Grazia non è, infatti, anche quel vento (quella “brezza immaginaria”, direbbe Warburg) che souffle où il veut e che permette a un altro condannato a morte, il Fontaine di Robert Bresson in Un condamné à mort s’est échappé, di fuggire? In quel film rigore e grazia si mescolavano in un equilibrio perfetto e non a caso il film, secondo la lettura di Susan Sontag, è strutturato secondo la dicotomia quasi identica di Simone Weil, gravità e grazia: la grazia, che è l’unico movimento generale dell’anima che sfugge alle leggi della gravità, che crea spazi vuoti nei quali si può entrare solo quando c’è un vuoto per riceverla, e questo vuoto è creato per la stessa grazia. Il movimento opposto, secondo la filosofa, sarebbe l’immaginazione, che riempie queste aperture attraverso le quali la grazia potrebbe passare.
Le animule pagane sono quindi state liberate (o sono fuggite) dal loro stato di ibernazione, e adesso queste forme aliene sono pronte a entrare in un corpo vivo, e possederlo. Dopo il rigore e la grazia, interviene quindi una terza forza, il pathos? Dopo la liberazione dal vincolo, segue l’effervescenza della forma emancipata? (pathos ed estasi, e questo ce lo dice Eisenstein, sono stati strettamente connessi). Apparentemente, sì (pensiamo a quelle immagini dei film di Eisenstein dove al popolo prostrato seguiva il popolo sollevato). Eppure, la grazia, anche nella sollevazione, non scompare del tutto, perché è consustanziale all’immagine che la porta, come un tatuaggio o la parola metis sulla fronte del golem: se è grazia il sentimento che muove il passo della ragazza canefora portainfretta al margine del fresco del Ghirlandaio, con quel movimento sinuoso che (como direbbe T.S Eliot) fanno i piedi quando sfiorano la terra senza calcarla, vi è grazia anche nel movimento di N’Toni che, nel film di Visconti tratto da I Malavoglia di Verga, lancia nel mare la bilancia, simbolo non più della giustizia ma degli iniqui calcoli del potere; come vi è grazia nel movimento di morte di Billy Budd, il marinaio di Melville. (la domanda è se può esistere grazia anche nel movimento di sollevazione più brutale o se, come sarebbe più logico, la grazia, quando si supera una certa frontiera, dilegua e si estingue. Ma non è questo l’argomento di queste righe).
Ritorniamo ai nostri due autori. È in uno stato sopravvivenza che Chateaubriand decide quindi (o è costretto: la motivazione è la necessità economica) di scrivere le sue Memorie, che “continuavano nelle loro divisioni”, le “divisioni naturali della mia carriera”. Aveva ragione, allora, Pasolini: da un lato la biografia è un montaggio a posteriori (che si svolge, se vogliamo, come il montaggio supposto invisibile hollywoodiano, che postula una continuità, appunto, nella divisione); dall’altro, ogni capitolo è un momento saliente della vita (ognuno corrisponde a una frazione di carriera: sarà Rohmer a usare la parola “carriera” prima di quella di “collezionista”). Chateaubriand dice poi che ognuna di queste sequenze verrà preceduta da un prologo. Il prologo assume quindi il valore dell’inquadratura d’ambiente, dell’establishing shot, che a cinema fornisce alla sequenza una indicazione di spazio e il tono del tempo: i prologhi del libro dipingono i luoghi che l’autore aveva “davanti agli occhi” e i sentimenti che lo dominavano nel momento in cui riannoda il flusso della memoria (la scrittura della memoria implica un taglio nel flusso). Curioso: Bressane diceva che i titoli dei capitoli di Bras Cubas di Machado – che, all’opposto dello smisurato Chateubriand, coltiva l’ “obsequio à brevidade”- sono simili a fotogrammi: il titolo del brasiliano è una forma concentrata del prologo del francese?
Anche Bras Cubas inizia con una mescolanza: non più l’opera del sopravvivente tesa tra rigore e grazia, ma “l’opera di un defunto” scritta con la penna dell’umorismo e l’inchiostro della melanconia (che è il titolo di un libro di Starobinski che mi fa venire in mente il finale di Madame Bovary di Flaubert); umorismo e malinconia, morte e battuta di spirito, sono i due sentimenti che accompagnano la morte in quelle civiltà che hanno sostituto il dolore dell’irreparabile con il motto di spirito davanti all’attimo di pericolo definitivo. Il prologo di Machado però è assai breve (a proposito della sua peculiare forma di scrivere, Bressane parlerà di capitoli brevi frutto di una scrittura epilettica -come quella di Proust era asmatica). È, però, seguito da un “óbito del autor” (secondo un inizio di follia prefatoria che sarebbe piaciuta a Macedonio Fernandez), dove tutto inizia, esattamente come aveva detto Pasolini, dalla fine, e questo solo dopo una lunga riflessione che Machado compie per decidersi se iniziare “dalla nascita o dalla morte” (Vita e opinioni di Tristram Shandy di Sterne iniziava con la nascita).
Bras-Machado decide alla fine di iniziare con la morte, annota la data di decesso, il luogo (casa sua), il suo stato d’animo (riposato e annoiato) e descrive come vita e morte, durante l’agonia, lottano fra loro. In un certo senso, quello a cui si riferisce l’autore, è proprio il passaggio dalla sopravvivenza alla morte: invece di grazia e rigore, e dopo umorismo e malinconia, impeto e immobilità: “La vita si dibatteva dentro il mio petto, con gli impeti dell’onda marina, svanendomi la coscienza, oppure discendeva fino all’immobilità fisica e morale, e il corpo mi si faceva pianta e pietra, tutto e nulla”: si tratta di quelli che Aby Warburg avrebbe chiamato i “due poli opposti dell’orgiasmo” e che aveva incarnato nelle due opposte figure della ninfa estatico-maniacale e nel dio fluviale malinconico-depressivo.
“What we call the beginning is often the end. And to make an end is to make a beginning. The end is where we start from” dice T.S Eliot, ma potrebbe essere Machado: dopo, è possibile l’inizio della narrazione e dei suoi capitoli. Bressane, in un saggio, li enumera associandoli alla pittura (l’epitaffio del capitolo CXXV), alla musica (il capitolo LV, con il dialogo fatto di punti sospensivi che terminano con un punto esclamativo), alla manoscrittura (la firma della V di Virginia, che sembra il profilo di una rondine e che in Bressane diventa il visore per osservare antichi pittogrammi -è una camera ottico-magica che adesso si trova nel suo salotto-), alla charada buddhista (la serie di punti sospensivi che seguono alla frase “di come non fui ministro di stato”; al cinema (le note del capitolo XLV).
In Chateaubriand il risultato di questo processo di taglio (presente) nel flusso (del passato), fa sì che le forme mutevoli (mutevoli perché migrano: da un posto all’altro, da uno stato all’altro: la forma sopravvivente è sempre, anche, migrante, perché per sopravvivere è necessario mutare di spazio), si sono introdotte l’una nell’altra: non parlavamo, a proposito delle forme sopravviventi, di una invasione? Il passato rinato invade il presente e lo contamina. Però questo ha un prezzo. All’incrociarsi e al confondersi, queste forme, come ammette lo stesso Chateaubriand, provocano confusione (ossia il pathos), e una specie di unità indefinibile. L’autore sta qui toccando il nucleo della sopravvivenza: stato misto di vita-morte, dove “la culla possiede qualcosa della tomba”, la gioventù si mescola con la vecchiezza, quello che si conosce con quello che già non si ricorda, “gli anni del godimento” con quelli “della pena” perché a scrivere è qualcuno che lo fa dal fondo della propria tomba. Ma non è la medesima posizione di Bras Cubas? E ad accompagnare entrambi, non saranno quelle “voci che possiedono qualcosa di sacro, perché sorgono dal sepolcro”? Ossia, la voce dei trapassati (e il montaggio non induce, sempre secondo Pasolini, questo passaggio dal presente del piano sequenza irrelato, al “passato o al presente storico”?).
Chateaubriand sembra contraddire apparentemente Pasolini quando dice, come avevamo accennato all’inizio, che la morte non rivela i segreti della vita: “non c’è nulla che mi causi più orrore di un cadavere correndo”, dice. Il visconte immagina quindi, dopo che il terrore del cadavere si è dissipato, “delle ossa biancastre, che sono più facili da trasportate e si affaticheranno meno”. I due autori, nella loro apparente lontananza, dicono chissà la stessa cosa: ogni operazione biografica è possibile solo passando dal cadavere alle ossa, dallo scandalo della morte, al lavoro della rammemorazione: è un po’ il passaggio evidenziato da De Martino dal “cadavere contagioso” del lutto alla memoria del “caro estinto”. Invece del cadavere che corre, lo scheletro che danza: e siamo di nuovo a Eisenstein, e al Dia de Muertos in Messico. Oppure, con uno stesso risonante calpestio, la visione di uno scheletro disteso, sul quale viene posto un microfono di tecnico del suono. Ed è l’inizio di Bras Cubas di Bressane: come se avesse voluto seguire il consiglio di Chateaubriand, il cineasta suggerisce che una biografia può iniziare solo dalle ossa. E se non è la vita a sorgere dalla morte (la morte non spiega la vita), la sua scrittura, sì.
C’è un montaggio interessante, che non può sfuggirci, associando Memorie d’oltretomba al Bras Cubas di Bressane. La “sequenza delle ossa”, nel libro, è preceduta da quella della “risacca”: il desiderio del visconte era infatti quello di riposare accanto al mare, dove l’acqua lambisce ritmicamente la riva. E non era la risacca la regione anfibia che Bressane associava al primo piano degli occhi di Capitu in Capitu e o capitulo? Occhi di Capitu che erano, come dice Machado, occhi di risacca.
Risacca e ossa: tra i due opposti (liquido/duro, movimento/stasi), Levi-Strauss suggerisce di incontrare un “termine medio”. E questo termine medio sono, appunto, gli occhi che (ci) guardano, lo sguardo dell’altra o dell’altro: è a partire da questo riconoscimento che è possibile dire “io”. In Bressane e Machado non si tratta di occhi qualsiasi: sono gli occhi di Capitu, gli occhi dell’amata. Perché, come scrive Simone Weil, solo riconosciamo l’esistenza di coloro che amiamo: “la credenza nella esistenza di altri esseri umani come tali è amore”.
L’autobiografia sorge con la morte ma l’inizio della vita di cui si alimenta è possibile solo dopo che siamo diventati persona, attraverso l’incontro con l’altro. Siamo l’altra che vediamo vederci. Campo e controcampo: movimento che, quando raggiunge quello stato di fragilità imperfetta che è la reciprocità, lega come fa la corda con gli Amanti crocifissi di Mizouguchi. “Però la corda sempre si può tagliare”…