Exit di Pino Quartullo e Stefano Reali
di Vittorio Giacci
Quasi quarant’anni fa un piccolo cortometraggio italiano di fantascienza girato nel 1985 da due giovani esordienti, all’epoca poco meno che trentenni, otteneva il riconoscimento più prestigioso, la nomination all’Oscar nella categoria “Best Live Short Film”.
Il film si intitolava Exit, e i registi si chiamavano Pino Quartullo (che ne era anche l’interprete insieme alla compagnia teatrale “La Festa Mobile”) e Stefano Reali.
Il primo, laureato in architettura e diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, sarebbe diventato un bravo e conosciuto attore di cinema per Monicelli, Magni, Oury, Veronesi, Campiotti, Moccia, Avati, Calopresti, oltre che di televisione e di teatro; direttore artistico e regista egli stesso. Il secondo, un interessante cineasta, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia e in musica jazz al Conservatorio Licinio Refice, assistente alla regia in C’era una volta in America di Sergio Leone e autore del lungometraggioLaggiù nella Giungla, riconosciuto con il David di Donatello come miglior regista esordiente, e diventato in seguito un affermato regista di fiction televisive.
Già dal titolo, un termine secco che ne anticipava uno altrettanto efficace, Brexit, coniato per indicare l’uscita dell’Inghilterra dalla Comunità Europea, il film di Reali e Quartullo (visibile su Youtube) sottolineava efficacemente con la sua forza anticipatrice il pericolo della fine del cinema, così come è stato conosciuto ed amato dalle platee di tutto il mondo per oltre un secolo.
Ambientato in un luogo di fantasia (l’altopiano del Quarehd Orientale), in realtà girato a Roma nelle cave della Magliana, e in un giorno preciso (il 12 luglio) di un anno lontanissimo nel futuro (il 3503), Exit descrive la scoperta, da parte di una squadra di archeologi, di un luogo misterioso il cui significato e la cui funzione sono sconosciuti agli occasionali scopritori, come potrebbe esserlo ai nostri giorni il ritrovamento di una tomba megalitica o di una necropoli etrusca, oppure ancora la scoperta di qualche affresco d’epoca romana durante gli scavi della metropolitana, come viene magistralmente descritta in Roma (1972) di Federico Fellini dove, dopo pochi momenti di incantata ammirazione in cui tutti, in silenzio, entrano in contatto, con un’altra dimensione storica e culturale miracolosamente tornata alla luce della contemporaneità, i dipinti svaniscono e si dissolvono per sempre, ricordo insostenibile di un’epoca troppo lontana perché la loro lancinante bellezza possa essere goduta per più di un attimo, intenso e doloroso.
Man mano che si procede nella ricerca, attraverso analisi chimiche formulate in gergo aridamente scientifico da un membro del gruppo il quale, come un laboratorio vivente, ne ingoia i materiali, si scoprono un vasto ambiente arredato con diverse file di sedie; due piccole targhe riproducenti due silhouettes umane stilizzate, una maschile e l’altra femminile, decodificate come effigi funebri; una materia organica sconosciuta definita come “sostanza biancastra in parte brunita, consistenza gommosa, inodore”; un apparecchio che viene catalogato come “rudimentale accumulatore di energia”; una stanza dove è installato un curioso e complicato macchinario; una striscia trasparente (“emulsione di alogenuri d’argento su supporto di triacetato di cellulosa con doppia perforazione”) che si mette improvvisamente a rotolare, come animato da una forza vitale dopo un lungo sonno.
Quello strano ambiente, agli occhi di un ricercatore del Quarto Millennio, è di ardua decodificazione e si procede per tentativi e approssimazioni successive. “Deve essere un luogo dove si riunivano in molti, più di dieci, molte persone tutte insieme, probabilmente per godere di qualcosa”, dice uno dei componenti della squadra mentre un altro afferma che deve trattarsi di un ritrovo di piacere e un altro ancora di un luogo di culto. Un cartello su cui è impressa una mano e un dito che indica una direzione con la scritta “Exit” viene letto invece come un “Ex Voto” per i fedeli di una funzione religiosa.
Ai nostri occhi di spettatori del XXI secolo tutto ciò appare invece molto chiaro: quell’insegna altro non è se non l’indicazione di una toilette e quella materia una confezione di pop-corn; quella sala non è altro che una platea cinematografica (in realtà una sala parrocchiale in via Gallia, significativamente sottostante alla “Chiesa della Natività”); la macchina è un proiettore e la striscia di cellulosa una pellicola.
La mossa incauta di uno di loro fa mettere in moto involontariamente quello strano congegno di cui si è persa la memoria che inizia a compiere ciò per cui, milleseicento anni prima, era stato costruito: far scorrere una pellicola davanti a un obiettivo e proiettare su un telo bianco delle immagini in movimento.
Sono le “care ombre” di cui parlava René Clair per definire la Settima Arte ad animarsi, a ri-prodursi, a muoversi, a tornare magicamente in vita nell’illusoria impressione di realtà che ne costituisce la sua più connaturata essenza. E non sono immagini neutre ma “contagiose” perché ingenerano in chi non le aveva mai viste prima emozioni sconosciute che fanno “uscire dai livelli emozionali consentiti” e li rendono preda di misteriose “convulsioni” come il riso o il pianto, sentimenti ri-scoperti e ri-scaturiti grazie alla maestria eterna, indimenticabile e immortale, di un genio puro e libero, Chaplin/Charlot, alla sua arte degli inizi come a quella della maturità, dalla comicità irresistibile di Charlot boxeur (The Champion, 1915) alla commozione irrefrenabile di Luci della città (City Lights, 1931). Una scelta quanto mai appropriata verso chi, come Charlie Chaplin, aveva detto di credere “nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore”.
Quell’insolito avvenimento prima incuriosisce e poi attrae sempre di più, con la forza di una calamita, anche quegli uomini e quelle donne abituati a chissà quali altri passatempi.
Si siedono l’uno accanto all’altro, guardano lo schermo abbagliati da tanta meraviglia, sono avvinti dall’azione, sgranocchiano i pop-corn, si fanno prendere dall’emozione. Tornano a piangere e a ridere.
Nell’incanto della Visione, Si è ri-accesa la “straziante, meravigliosa bellezza” della Creazione. E’ una rivelazione, una rinascita, una resurrezione. Come una stella morta che continua a effondere la propria luce benché non esista più da milioni di anni. Lo spettacolo ha il sopravvento. Il cinema regna.
Il cortometraggio fu reso possibile grazie a un programma televisivo di Monica Vitti per la regia di Roberto Russo. “Quando penso al mio corto Exit – ricorda Pino Quartullo – immediatamente riaffiora il ricordo di Monica, mia insegnante all’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica, che poi mi volle come coordinatore di un gruppo di altri allievi dell’Accademia per una sua trasmissione televisiva per RaiUno Passione mia; fu un bellissimo lavoro di squadra, io cantai la sigla della trasmissione con lei, in ogni puntata io partecipai a una piccola Sit-Com con lei e Nanni Loy, e lei (con Roberto Russo, suo compagno e regista del programma) diede l’opportunità a un gruppo di giovani registi di realizzare questo cortometraggio. Quell’esperienza ha cambiato la mia vita e non finirò mai di ringraziarla”.
Exit, che il critico Beniamino Placido nella sua recensione su “Repubblica” ha paragonato alle Lettere persiane di Montesquieu,ci appare oggi come una intensa, lirica e appassionata testimonianza d’amore sull’arte più duratura ma anche più fragile e impermanente e sulla sua trasformazione, avvenuta con la rivoluzione digitale nei suoi riti e nelle sue cerimonie, da luogo di piacere e di culto insieme (“il piacere degli occhi” e “la religione del cinema” di cui parla Truffaut), in una fruizione certamente più facile ma anche meno magica, immaginifica, semi-onirica, togliendola dalla percezione collettiva in ampi spazi e su grande schermo per orientarla verso il consumo domestico, irrituale, solitario, dell’Home Theatre o della micro-visione su uno Smartphone.
All’epoca della sua realizzazione, la tesi del film poteva apparire catastrofista ma si è rivelata tendenzialmente esatta già negli Anni Duemila, senza attendere il 3503: nell’era di Internet, dei Video-games e delle Play-station e delle piattaforme digitali molti giovani confessano di non essere mai entrati in una sala cinematografica e i film li guadano a casa propria scaricandoli sul monitor di un computer o sul proprio cellulare, annullando così la bellezza e la profondità dell’immagine proiettata su un grande lenzuolo nel buio accogliente di una sala dove una comunità consapevole e attiva celebra, come nel mito della caverna di Platone, un rito antico e condiviso.
Gli autori svolgono questa parabola, suggestiva e malinconica ma anche colma di cinefila speranza, nello stile più semplice, quasi da inchiesta documentaristica di un telegiornale del futuro impreziosendola però, da cinefili quali sono, di referenze sottese e citazioni sottintese, dal giorno in cui si svolge l’azione che non è riconducibile soltanto al compleanno di uno dei registi, Pino Quartullo, ma è anche, e più significativamente, la data di commemorazione liturgica di S. Veronica, la pia donna che, secondo la tradizione, asciuga con un panno il volto di Gesù durante la Via Crucis, il cui etimo, secondo alcuni, deriva da “vera” “ikon”, cioè “vera immagine”, e che per questo motivo è venerata, in Francia, come patrona dei fotografi e, per estensione, dei cineasti e di tutti coloro che si occupano di immagine, alla bottiglia che cade come in Notorious, l’amante perduta (Notorious, 1946) di Alfred Hitchcock. Dalle atmosfere brulle e desertiche di L’uomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth, 1976) di Nicholas Roeg al ricorso alle musiche di uno dei più importanti compositori di musica da film, l’ungherese Miklos Rozsa. Da Lo strano amore di Marta Ivers (The Strange Love of Martha Ivers, 1946) di Lewis Milestone a La casa rossa (The Red House, 1947) di Delmer Daves, da Ben Hur (id., 1959) di William Wyler (il cui brano “The Miracle and Finale” rende egregiamente la situazione della sequenza, quando il cinema, come per miracolo, torna alla vita), alla colonna musicale scritta da Joseph Gershenson per un film cult come Il mostro della laguna nera (Creature from the Black Lagoon, 1954) di Jack Arnold, quasi che quelle melodie fossero indelebilmente impresse nei luoghi, tracce di un’archeologia del set tutta ancora da scoprire.
Va osservato che, all’epoca della sua ideazione e realizzazione, le sale cinematografiche erano ancora in piena attività e costituivano, nonostante l’incipiente concorrenza televisiva, la forma di intrattenimento più popolare e più amata dal pubblico in ogni parte del mondo.
La forza anticipatrice del poetico cortometraggio di Quartullo e Reali consiste proprio nell’avere previsto gli sviluppi dell’immagine (nel loro cortometraggio una ragazza si isola dal gruppo e indossa un visore integrale per avere “stimoli video” esattamente come sarebbe avvenuto in seguito nella simulazione della realtà virtuale, termine coniato per la prima volta nel 1989), nell’avere intuito i rischi della scomparsa di questo mezzo di comunicazione e nell’averci trasmesso la preoccupazione umanistica di un futuro angoscioso dove le emozioni sono tenute “sotto controllo”, la dimensione scientifica ha il sopravvento sulla natura umana, e le potenzialità dell’innovazione tecnologica corrono il rischio di trasformarsi in una nuova forma di alienazione.
L’idea era di “recuperare – come afferma Stefano Reali – l’importanza di alcune cose determinanti per l’uomo come le proprie emozioni. Un patrimonio che viene spesso considerato “sacrificabile”, ma che è indispensabile come l’ossigeno”.
Per salvare questo “patrimonio non sacrificabile” fortunatamente ci sono – e ci saranno sempre se sapremo conservare e tramandare le loro opere e il loro pensiero visivo – Chaplin e Keaton, Fellini e Antonioni, Ford e Spielberg, Welles e Renoir, Lubitsch e Capra, Hitchcock e Rossellini, Truffaut e Godard, Bunuel e Hawks, padri e maestri, per colmare d’amore e di innocenza, di grazia e saggezza, il cinema di domani e continuare così a rendere la nostra vita più armoniosa e più sincera.
Giustamente, la parola “fine” non appartiene a Exit ma a Luci della città.
Nella speranza di tutti coloro che non vogliono che il cinema scompaia, è allora soltanto il Film a terminare, non il Cinema.
E così sarà per sempre (Always, come ci ricorda Steven Spielberg nel suo film del 1989 che fonde splendidamente il cinema del passato con il cinema del futuro), ogni qualvolta uno scalcinato proiettore d’altri tempi o un modernissimo lettore di dvd o di qualche nuovo supporto ancora da inventare, tornerà ad accendersi per far ri-vivere quella fantastica, incommensurabile, fantasmagorica pantomima di luci e di ombre in movimento che per convenzione abbiamo chiamato Cinema.
FILMOGRAFIA
PINO QUARTULLO
Exit (cortometraggio), 1985; Laggiù nella giungla, 1986; Una storia italiana 1992; Il prezzo della vita, 1995; In barca a vela contromano, 1997; Il quarto re, 1997; Cuori in campo, 1998; Ultimo, 1998; Le ali della vita, 2000–2001; Verso nord, 2004; L’uomo sbagliato, 2005; I colori della vita, 2005; Eravamo solo mille, 2007; La terza verità, 2007; Al di là del lago, 2009; Lo scandalo della Banca Romana, 2009; Come un delfino, 2011; Caruso, la voce dell’amore, 2012; Angeli – Una storia d’amore, 2014; Rimbocchiamoci le maniche, 2016.