David ha scritto anche commedie visionarie
In memoria di David Lynch
di Sergio Arecco
È l’unica commedia in assoluto di David Lynch e, in quanto unicum, merita quantomeno una serie di considerazioni, anche se si tratta di un’opera su commissione. Il regista, reduce dal successo di Velluto blu (1986), accoglie, insieme a Jean-Luc Godard, Andrzej Wajda, Werner Herzog e Luigi Comencini, un cordiale “invito all’opera” di Le Figaro Magazine. Il giornale intende festeggiare il decennale della nascita dell’inserto a esso allegato. E propone, nel solco dei due storici ma esclusivamente francesi Paris vu par…, a cinque cineasti stranieri (Godard figura come svizzero), diversissimi tra loro per cultura e formazione, di realizzare altrettanti corti sul tema: come sono visti, i francesi, dagli altri?
Godard, Wajda, Herzog e Comencini, in realtà, aderiscono all’iniziativa battezzata Les Français vus par… / French as seen by… per onor di firma e nel segno del maggior disimpegno, fornendo corti non superiori ai 12’. Mentre Lynch coglie l’occasione per firmare la sua prima e unica commedia, interpretando il disimpegno di tutti come un impegno con sé stesso a filmare qualcosa di eccentrico rispetto al proprio standard, al luogo-feticcio dell’interior sinistro, in quanto cellula dell’inconscio malato o ammorbato. Dunque, sì, nello spirito un po’ semiserio dell’iniziativa (Godard, con Le dernier mot, si diverte ad abbinare le parole pronunciate in punto di morte da alcuni uomini illustri e da alcuni condannati alla pena capitale), ma anche nella convinzione di smentire allegramente in pubblico l’immagine di artista maledetto che lo connota da sempre.
Ed ecco, in The Cowboy and the Frenchman / Le Cow-boy et le Français (1988, colore, 26’), il plein air che non ti aspetti, con la puntuale parodia degli stereotipi secondo i quali i francesi vedono gli americani, parodia applicata al prodotto americano cinematograficamente più codificato: il western. Un corral. Un cowboy di nome Slim un po’ duro d’orecchi – il grande Harry Dean Stanton (1926-2017), già interprete, pochi mesi prima della morte, del mansueto personaggio di Carl Rodd in Twin Peaks. The Return, parodia del primo Twin Peaks, e dello struggente, testamentario Lucky. Uno staff di dipendenti seduti a oziare sulla staccionata. Un indiano (uno solo) nei paraggi. E il paradossale ingresso in scena dell’altro, del francese Pierre (Frédéric Golchan), che si presenta con un basco blu da aviatore in testa, una valigetta da viaggio piena di prodotti gallici (formaggi, saponette profumate, vini) e una lettera di presentazione scritta in inglese. In virtù della quale, letta con comprensibile difficoltà dai rudi mandriani, egli viene immediatamente slegato – il primo provvedimento era stato quello di ‘prenderlo al lazo’ – e ammesso a far parte dell’équipe.
Dopodiché un siparietto musical, sovrapposto idealmente all’immaginario della prateria, animato da un trio di ragazze swinging, sigilla la felice risoluzione del dramma dell’incomunicabilità tra culture aliene: all’insegna (francese) dell’embrassons nous, di una solidarietà identitaria destinata a prendere il posto della diffidenza iniziale e far posto addirittura all’identità più che aliena dell’indiano (provocatoriamente innocuo). Il divertissement per il divertissement, insomma. Al quale un Lynch per l’appunto in vena di facezie prende un tale gusto da far intervenire, al momento opportuno, ovvero dopo un ghiotto barbecue di riconciliazione, un accessorio che al western non pertinerebbe ma che nell’atmosfera ora rilassata, da idillio notturno accanto al fuoco – Slim ha appena cantato una ballata country accompagnandosi con la chitarra: Dean Stanton si dilettava di canto –, non guasta affatto.
Nel senso che una vecchia Ford gialla, con a bordo quattro-ragazze-quattro in vesti di vivandiere vintage (jeans e camicette colorate), imparruccate con acconciature biondo oro, irrompe sul set e perturba la quiete ritrovata seminando lo scompiglio. E quale scompiglio! Una distribuzione di whisky delle migliori marche, una serie di indiavolati balletti dance, una chitarra rockabilly, tanto da far perdere la testa allo stesso Lynch. Il quale non può più tenere ben ferma la propria corda surreale e introduce, sebbene incongruo con il piccolo reality in corso, il logo onirico e mitologico del cavallo rampante cavalcato dal cavaliere notturno della valle solitaria, cacciatore a colpi di lazo e di carabina. È solo un momento, per quanto magico. I sogni, infatti, muoiono all’alba, e il nuovo giorno ci fa ritrovare i nostri antieroi seduti ammosciati contro la staccionata, assonnati e ancora un po’ brilli, tutti in fila, da Slim fino all’indiano, con il più avvilito di tutti, Pierre, al centro. Quel Pierre che, all’acme del sogno, ha osato avanzare in mezzo al corral innalzando verso il cielo, su un piatto-piattaforma, come se fosse una torta da ricevimento nuziale – in fondo lo è stata – l’imago mistica, fasciata da delicate sfumature lunari, di una Statua della Libertà in miniatura, forse fatta davvero di marzapane, con La Gaieté parisienne di Offenbach quale sfondo sonoro.
Dalla gioiosa parodia di Sette spose per sette fratelli (i personaggi sono, in tutto, giusto 14) alla citazione sardonica del cliché dell’american dream come idolo infranto. Per Lynch, dopotutto, non esiste attrito tra euforia della festa e malinconia del dopofesta. Con questo intermezzo grottesco, il cineasta di The Cowboy and the Frenchman ha raggiunto il suo scopo. Nel giro di due anni, da un lato Twin Peaks con i due significativi sequel – più o meno una parodia dell’horror –, dall’altro Cuore selvaggio – più o meno una parodia western del thriller, segnato, tra l’altro, dall’ostinata magnetica presenza di Dean Stanton –, ci daranno piena conferma dell’avvenuto giro di boa di un autore sempre alla ricerca di nuove rotte, le più lontane possibili da quelle percorse dai suoi contemporanei.