Conversazione su Twin Peaks 3. Il Ritorno, di David Lynch (684-685, aprile-maggio 2018)
L’opera di David Lynch, ha impegnato a lungo la redazione di Filmcritica, con le visioni dei suoi film “estremi”, sempre segnati fin dall’inizio dalla presenza iconica anomala e talvolta allarmante dei corpi. Film, i suoi, sempre popolati da bizzarre, misteriose presenze, sia soggetti apertamente freak, sia altri, dotati di naturale bellezza, eppure, entrambi, ugualmente perturbanti, perché tutti sembravano emissari misteriosi provenienti da un medesimo, strano mondo, denso di ombre che coincide in certi momenti con il mondo primario e sotterraneo, presente e remoto, del cinema e del suo inconscio. Film come Mulholland Drive, e ancora di più, Inland Empire, “tra” le loro immagini parlano esattamente di questo, di una coincidenza rilkiana tra terrore e bellezza, mentre mandano in circolo i detriti onirici con i pezzi sparsi delle vite realmente vissute, catturati in una medesima esplosione stellare, una vasta nebulosa, che spinge le sequenze nell’intermittenza della luce che va spegnendosi,sempre di più verso l’inquietudine, dentro il buio.
Non per caso, Edoardo Bruno rispetto a Twin Peaks 3. Il ritorno (2017), e alla sua durata di 18 ore, si era richiamato a Greed (1924) di Erich Von Stroheim, e non solo per la durata di 12 ore, progettata per quel film, poi investito da una catastrofe economica che aveva costretto Stroheim suo malgrado a ridurlo, ma per la violenza di un realismo altamente poetico, che Edoardo sentiva accomunare i due film.
Per ricordare David Lynch (Missoula (Montana) 1946- Los Angeles 2025), i cui film hanno occupato per molti anni le pagine di Filmcritica, consegnando in tutte le successive visioni, in pari misura, nuove scoperte e altrettanti enigmi, riproponiamo qui di seguito una conversazione di redazione pubblicata nel numero 684-685 di Filmcritica, aprile-maggio 2018, che aveva come oggetto (e soggetto) la serie/il film Twin Peaks 3. Il ritorno.
Con Edoardo Bruno, Alessandro Cappabianca, Giulio De Martino, Daniele Dottorini, Andrea Pastor, Bruno Roberti, Daniela Turco.
E.B. : Io come sapete ho già scritto su Twin Peaks 3, ma mi fa piacere oggi sentire anche il parere degli altri, perchè per me la cosa va divisa in due momenti: il momento di Lynch, un regista che abbiamo amato, recensito, stimato e dunque non è una cosa nuova, mentre la cosa nuova è il fatto che Lynch ha realizzato con Twin Peaks 3, un film di diciotto ore, che per me non è un film a episodi, non è come le due serie precedenti, ma è un film che porta avanti un discorso con i personaggi morti, o non morti, ma che sono tutti lì, oggetto di una ricerca, che già all’inizio si pensa impossibile, con un ritorno indietro, e già questo conferisce al film una patina voluta che lo fa sembrare un film dell’altro secolo. Secondo me, questo è bello e importante perchè gli permette di realizzare qualcosa che forse nessun regista, a parte forse Stroheim, era riuscito a imporre, che aveva imposto alla sua casa di produzione con Greed, la quale casa di produzione si era poi vendicata e non l’aveva fatto uscire con la sua durata originale di circa sette ore, l’aveva mutilato. Greed finisce in un deserto bianco, molto bello, in cui affonda, poi, tutta la produzione. Da questo punto di vista, che forse non sarà quello degli altri, io vedo che questo sforzo di Lynch consiste appunto nel fatto di girare un film di diciotto ore, ed è più lungo di Soderbergh, più lungo di tante altre sperimentazioni….
B.R.: ….ma non più lungo del film di Rivette Out One, che infatti ha delle analogie con Lynch….
E.B.: Tra l’altro, costretto anche dall’appuntamento che avevamo fissato per la conversazione, ero riuscito a farmi dare una chiavetta su cui c’erano tutti e 18 gli episodi, e sono quasi riuscito a vederli tutti di seguito, come forse voleva Lynch, dico quasi perchè le diciotto ore le ho distribuite in due giorni. In quel modo entri anche nello spirito di veder muovere le stesse persone, i personaggi, lo Sceriffo, Cooper, con la parrucca e senza, Dougie Jones, e il sogno di una Laura Palmer che, dopo venticinque anni, è rimasta se stessa….C’è della nostalgia, ma è bene sentire quello che pensa ognuno di noi di quest’opera.
B.R.: Io farò degli interventi brevi e sibillini, come nello spirito di Lynch, anche per muovermi nella stessa logica a-logica di Twin Peaks, direi nella stessa logica sur-razionale, perchè secondo me nel film c’è una logica ferrea, c’è una ragione segreta, molto stringente e c’è un oltrepassamento di tutti i limiti della ragione oltrechè del pensiero, del corpo, della percezione, ecc… Una delle prime cose che mi sono venute in mente vedendo Twin Peaks 3, The Return, credo mentre guardavo la seconda puntata, è stata la questione del dispositivo. Ricorderete che ci sono due ragazzi, anzi un ragazzo che poi incontra una ragazza, al quale è stato assegnato il compito di stare seduto di fronte a una stranissima macchina, di cui non conosciamo il funzionamento, un dispositivo vero e proprio che ha al suo interno una figura che ricorrerà spessissimo nel film, e cioè un cerchio/vortice/occhio/obiettivo, qualcosa di questo tipo, e all’interno di questo dispositivo c’è un’altra ossessione che ricorrerà nel film e cioè delle amplificazioni che funzionano tramite antenne e la funzione di questo ragazzo è semplicemente quella di stare davanti a questa teca di vetro, a questo obiettivo e di guardare. Naturalmente è facile dire che è la stessa posizione dello spettatore, però è anche la stessa posizione di chi osa fissare un buco nero o un buco vuoto, quello cioè che secondo Lacan è il reale, cioè l’abisso del buco nero è il reale, che non è la realtà, ma qualcosa di molto diverso, ma non addentriamoci oltre nei temi lacaniani… Ora, l’idea di dispositivo ritorna, e non è un caso, perchè tutto il film è fatto di ritorni continui, di ossessioni, di fantasmi, di corpi, di doppi, ecc, e ritorna attraverso vari dispositivi, come il televisore che ricorre in vari ambienti, si parla attraverso strani oggetti, dei videotelefoni, dei computer, ma tutto, come sempre in Lynch ha come a che fare con un’aura di un altro secolo, o, direi, addirittura di altre ere; per esempio nel film Elephant Man, questa sua ossessione per le suppellettili industriali o post-industriali, rimanda a una sorta di strana epoca indefinibile. Vorrei leggervi un breve passo di Agamben da un suo testo che si intitola Che cos’è un dispositivo: ” Nei primi secoli della storia della Chiesa, fra il secondo e il sesto secolo, il termine greco oikonomia svolse nella teologia una funzione decisiva. Oikonomìa in greco significa l’amministrazione dell’oikos, cioè della casa. ” e poi dice: ” Come si arrivò a parlare di economia divina? “… ” Dio quanto al suo essere e alla sua sostanza è certamente uno, ma quanto alla sua oikonomia, cioè al modo con cui amministra la sua casa, la sua vita, e il mondo che ha creato, egli è invece triplice. Il termine oikonomia si andò così specializzando per significare in particolare l’incarnazione del figlio e l’economia della redenzione e della salvezza. L’oikonomia divenne così il dispositivo attraverso cui il dogma trinitario e l’idea di governo divino del mondo vennero introdotti nella fede cristiana”. Di questo passo di Agamben mi interessa intanto l’idea della terza persona, su cui Roberto Esposito ha riflettuto di recente in due libri: Terza persona e Due. E ‘ chiaro che la terza persona ha a che fare con un fondamento di teologia politica, ma nello stesso tempo ha a che fare con qualcosa che nell’immanente supera il doppio, la dicotomia duale, per addentrarsi in un campo che è il campo dell’impersonale, che è un neutro che fa l’Uno, ma non l’Uno plotiniano, divino, ma fa l’Uno come pleroma, per usare un termine gnostico. Non a caso la gnosi è il pensiero esoterico del cristianesimo più vicino all’idea di dualità: c’è un demiurgo cattivo che crea il mondo al posto di un altro e c’è un dio abissale e inconoscibile dove risiede la verità. Ebbene per me la gnosi è fondamentale non solo in Twin Peaks 3, ma anche in tutto Lynch, dove c’è sempre l’idea di una creazione doppia, perversa, di un dio demente o ingannevole, tant’è vero che la figura del doppio è fondamentale soprattutto in Twin Peaks 3, basti pensare a Cooper e alla moltiplicazione della sua identità. Ma, tornando all’oikos, su che cosa finisce il film? L’ultima immagine è la casa….
D.T.: Veramente l’ultima immagine del film è situata nella Black Lodge, con il primo piano del volto di Cooper che ci guarda mentre Laura Palmer sussurra qualcosa al suo orecchio…
B.R.: Sì, se non proprio l’ultima immagine…. Cooper e Carrie Page vanno davanti alla casa di Laura Palmer a Twin Peaks ed è lì davanti alla porta che si sospende….
E.B.: Le porte sono importanti, penso anche alla porta rossa della casa di Dougie Jones, che non sa dare il suo indirizzo, non sa il numero e viene riconosciuta per via del colore rosso…
B.R.: E qual è il colore della porta della casa di Laura Palmer?
D.T.: Bianca.
B.R.: Bianco, rosso e nero sono tre colori alchemici…
A.C.: Io sono rimasto veramente stupefatto dal diluvio di interpretazioni esoteriche che si sono abbattute su Twin Peaks, in particolare su questa terza serie, anche se forse a torto, perchè potevamo aspettarcelo, da un lato perchè mi sembra che Lynch stesso abbia avallato questa serie di interpretazioni e dall’altro, essendo questo un film che non esito a definire d’avanguardia, come tutte le opere di avanguardia tende a riconnettersi a certi miti, e quindi si presta moltissimo alle interpretazioni esoteriche. Però volevo mettere in evidenza l’esistenza di due elementi che correggono o per lo meno, dovrebbero un po’ correggere questa deriva esoterica cui Twin Peaks si presta.
Primo elemento, direi, il comico. A me sembra molto importante l’intervento continuo della comicità un po’ in tutti gli episodi, compresi quelli che sembrano più drammatici. Una comicità che mi sembra da un certo punto di vista direttamente cinematografica, oppure indirettamente, per comicità indiretta: si potrebbe fare l’esempio dei fratelli Mitchum che si fanno seguire sempre da tre ragazze svampite con i tramezzini, ma anche, addirittura, una comicità cinematografica diretta, se si pensa ad esempio, a Andy, lo sposo innamorato di Lucy, la telefonista dell’ufficio dello sceriffo di Twin Peaks, che a mio parere somiglia perfettamente a Stan Laurel, oppure penso anche a Miguel Ferrer, ovvero Albert, l’agente dell’FBI che collabora con Gordon Cole/Lynch, che a un certo punto cita la famosa battuta di Groucho Marx: ” O il mio orologio è fermo, oppure quest’uomo è morto”.
C’è insomma questo continuo contravveleno, questa continua contestazione delle interpretazioni esoteriche che pure sono possibili e plausibili, da parte della comicità, questo da un lato. Poi, mi pare che dall’altro lato, le interpretazioni esoteriche trovino un limite nel famoso ottavo episodio, in cui sappiamo che cosa succede….E’ possibile, cioè, vedendo quell’episodio che anche se non è quello finale è secondo me fondamentale, ricondurre il tutto, ovvero la messa in crisi dello spazio, la messa in crisi del tempo, dell’identità, perfino dell’abitare di cui parlava prima Bruno, ecco, questa messa in crisi è collegata quasi direttamente ad un avvenimento preciso che è avvenuto in una data precisa, che è il 1945, la data dell’esperimento atomico nel deserto di Los Alamos. Questo esperimento atomico in fondo sembra essere l’evento principe che ha messo in crisi tutto il resto e secondo me questo discorso si collega molto bene a un’altra ossessione che percorre tutta la serie, che è l’ossessione dell’elettricità, dei cavi elettrici, dei tralicci. Sappiamo tutti che i personaggi vanno incontro continuamente a scosse elettriche di vario genere che possono essere salvifiche o possono invece essere anche mortali, e questa ossessione per l’elettricità mi fa venire in mente un collegamento che esiste senz’altro tra questo elemento trattato da Lynch e il rito del serpente, esaminato da Aby Warburg. Lì veramente c’era il timore e la reverenza nei confronti dell’elettricità, timore e reverenza e il fatto che la potenza del fulmine venisse incanalata nel serpente, beh oggi questo, osservava Warburg, per l’uomo moderno non è più pensabile perché si tratta di una potenza che viene invece incanalata nei cavi, nei tralicci…
E.B.: E questo conferma ancora una volta il carattere novecentesco del film, proprio passo per passo, c’è ancora l’elettricità, siamo soltanto agli albori dell’energia atomica, siamo come agli inizi dell’altro secolo ed è anche questo in fondo il fascino di un film che vuole essere modernissimo, a parte gli aspetti esoterici che si possono sempre ritrovare in tutti i film di Lynch, uno per tutti, Strade Perdute, dove a volte la voce precedeva l’azione, dove le parole si incrociavano con i fatti avvenuti prima e questo Lynch lo proponeva come un fatto naturale, di grande avanguardia, ma ci troviamo sempre in una situazione cioè in una ricerca che io direi semiotica, di scomposizione…Io ci vedrei forse come aspetto preponderante proprio quello di una lezione continua di messa in discussione di tutta la linguistica in questo tipo di cinema…
D.T.: Tra l’altro, proprio dal punto di vista del linguaggio e dei giochi di linguaggio Twin Peaks 3 mette in circolo una densità e una ricchezza fuori dal comune… Ci troviamo davanti a un’opera, a un testo, molto stratificato e dettagliato, perfino negli aspetti più marginali e periferici…Mi è tornato in mente Soglie di G. Genette, un libro in cui venivano trattati tutti gli aspetti, per così dire, di transizione di un testo, e pensavo alla dimensione inesauribile di Twin Peaks 3 anche da questo punto di vista, con le varie dediche agli attori morti, alla fine di molti degli episodi nei titoli di coda, dove si scoprono a volte alcune variazioni minimali perfino nel logo della produzione, quindi proprio di quegli aspetti che in una serie dovrebbero essere “fissi” e inalterabili, e invece cambiano…. Mi interessava però dire, prima di tutto, che mi trovo completamente d’accordo con Alessandro quando definisce Twin Peaks 3 un’opera d’avanguardia e proprio a questo proposito, sull’ultimo numero di Filmcritica, il 681/682, anche Edoardo scriveva della serie n° 3 di Twin Peaks che : “.. è il ritorno all’avanguardia, a un cinema della marginalità dei fatti, dell’inquietante/perturbante, in quella schizofrenia del tempo che Jameson considera fondamentale nell’avanguardia”.
Volevo anche dire che mi ha molto colpito una intervista a David Linch su Twin Peaks 3, comparsa nel numero di dicembre dei Cahiers du Cinema, in cui Lynch si impegna a fondo nel cercare di non dire sostanzialmente niente, tuttavia, malgrado tutto, alla fine dice qualcosa che mi sembra importante da ricordare, quando osserva che la sua sensazione rispetto a Twin Peaks 3 è quella di trovarsi davanti alle tessere di un puzzle che era già stato assemblato in precedenza e i cui pezzi dispersi vanno ora riassemblati di nuovo. E se è assolutamente vero quello che ha scritto Alessandro quando osserva che “…prendere Twin Peaks come una palestra di enigmi da risolvere, magari tirando in ballo Jung, gli archetipi, l’ascetismo tibetano, la teoria dei quanti, la meditazione trascendentale, non significa cogliere davvero la logica visionaria, il potenziale ossessivo, l’oscuro fascino di immagini che sfuggono a ogni spiegazione.”, credo, tuttavia, nello stesso tempo, che Lynch qualche traccia tutto sommato la offra allo spettatore, chiedendogli di osservarla, di tenerne conto, e, se crede, di usarla. Una di queste tracce, nella mia esperienza di visione, è arrivata abbastanza presto, nel corso del 3° episodio, quando Gordon Cole, cioè David Lynch, viene chiamato a rispondere al telefono nel suo ufficio, che si vede lì per la prima volta. Dietro alla sua scrivania è appesa la fotografia in b/n di un fungo atomico, quello di cui parlava prima Alessandro, e quando arriva il controcampo, sul muro opposto vediamo appesa una fotografia, anch’essa in b/n di Franz Kafka. Ora, mi dispiace un po’ che a questa conversazione di oggi non abbia potuto partecipare Lorenzo Esposito, che non è a Roma, dato l’amore profondo per l’opera di Kafka che ci accomuna e di cui si trovano, secondo me, diverse tracce profonde in Twin Peaks 3. Quando ad esempio, in Twin Peaks 3 compare il Fireman, il Fuochista, oppure quando nella puntata n° 8 ci si trova all’interno di una sorta di teatro dismesso, che ha molte somiglianze con il Club Silencio, come ha scritto Daniele, io sento distintamente il riattivarsi di quello che W. Benjamin aveva definito “l’inesauribile mondo intermedio” di Franz Kafka.
Per quanto riguarda il Fuochista penso ovviamente ad America, in cui questo personaggio compare nelle prime pagine, così come il teatro dell’episodio n°8 mi fa immediatamente pensare al teatro di Oklahoma, con cui, straordinariamente, America si chiude.
Lynch ovviamente non fa qui una messa in scena letterale di America di Kafka in Twin Peaks 3, ma credo che alluda comunque al suo mondo, che del resto ha molto a che fare con le avanguardie del Novecento di cui si diceva prima. Nel mondo di Kafka vengono messe in circolo in continuazione delle allucinazioni, dei fantasmi, delle macchine infernali e fantastiche, degli incroci animali inquietanti, la comicità e la tragedia, la disperazione e la speranza, in una interpretazione radicalmente personale del realismo magico europeo, con cui l’opera di Lynch intrattiene secondo me una relazione profonda. Tra l’altro Dougie Jones, uno dei doppi dell’agente Cooper, lavora a Las Vegas in una compagnia di assicurazioni, proprio come Franz Kafka ha fatto quasi per tutta la vita…
E.B.: Ma sai, questi sono dei segni del Novecento che non si possono ignorare…Oklahoma è lì…
D.T.: Anche lo strano animale in metamorfosi, mezza rana e mezza mosca, che nell’episodio n°8, di cui si parlava, entra nella bocca della ragazza addormentata, fa pensare a Gregor Samsa, o allude comunque a certi altri animali kafkiani indimenticabili, come l’incrocio tra un capretto e un gattino…Insomma, io mi sono sentita molto commossa nel vedere il riattivarsi certi elementi del mondo di Kafka….
B.R.: Vorrei intervenire brevemente su questa cosa che mi stimola…Intanto rispetto a una lettura facile di Lynch, devoto della meditazione trascendentale, di un certo esoterismo New Age, come giustamente scriveva Alessandro, lungi da me difendere un’interpretazione del genere, perchè non c’entra nulla con la forza del film. Però, a proposito di Kafka vorrei tornare a qualcosa che insiste molto e che prima ho letto attraverso la riflessione sulla teologia politica, attraverso Agamben, attraverso Esposito, ecc, ma trovo che la presenza delle riflessioni di Deleuze nel film, anche se magari Lynch non ci ha pensato minimamente, insistono molto sull’idea di logica del senso, tra l’altro Deleuze ama e scrive un intero libro su Kafka, e in La logica del senso scrive di Lewis Carrol e Antonin Artaud e quindi riflette su un certo tipo di Novecento, di mondo e di aura, direi, benjaminianamente, di questo secolo breve la cui aura continua a insistere come aura del moderno. Non a caso nel libro di Deleuze questa idea del comico, del gioco comico, del gioco di parole o dei limericks o delle parole-baule, entra fortemente in sintonia con Lynch, che da sempre è stato un cineasta che ha solcato l’horror, il comico, anche se non parlerei di generi, perché ha solcato questa a-logica del senso che ha a che fare con l’idea di ludus, di gioco, che in tutto Twin Peaks 3 è fondamentale, non soltanto nella grande puntata delle vincite al gioco, ma anche in altri momenti, in cui l’idea del giocare, che è un’idea dell’avanguardia, è centrale. Casomai, il rapporto tra avanguardia ed esoterismo, è un rapporto continuo, e se noi leggiamo tutta l’avanguardia storica a fondo ci accorgiamo che c’è dappertutto un elemento ludico, e quindi se volete, a-logico, surreale, con la Cabala, ad esempio per quanto riguarda Kafka, con l’ermetismo per Breton, e poi Dada, che sembra la cosa più gratuita del mondo, ma ha al suo interno una logica profonda, matematica, segreta. Mi sembra molto interessante, questa linea di lettura, chiedersi ad esempio che cos’è il segreto del Novecento, dentro Twin Peaks 3.
D.D.: Devo dire che intervenire su Twin Peaks 3 non è semplice, e secondo me già questi interventi iniziali mostrano che in realtà c’è veramente un abisso di discorsi che questo film, molto particolare, questa cosa, solleva. Ora vorrei fare una breve premessa, a partire da quello che diceva Edoardo, prima, quando affermava che questo è cinema e che ci troviamo di fronte a un film di diciotto ore che non può essere identificato con le teorie e le forme della serialità contemporanea che oggi vanno così di moda. Questo è assolutamente vero e nello stesso tempo in un certo senso non lo è. Una cosa che mi ossessiona è che Lynch fa un’operazione straordinaria, di vampirizzazione anche della serialità, quindi la utilizza, e ne utilizza le forme per negarle completamente e per ristabilire invece una potenza della visione, una potenza dell’immagine, una potenza cinematografica che paradossalmente si svolge su un piccolo schermo, perché noi lo vediamo in televisione, con vari dispositivi, in streaming, ecc, anche se ci sono state delle proiezioni cinematografiche. Utilizza cioè le forme che spesso vengono esaltate della serialità, che sono le forme della scrittura, però dà alla scrittura un valore completamente diverso, o meglio recupera la forza e la potenza della scrittura come grande flusso che può rendere complesse le immagini, infatti c’è una scrittura potentissima, in Twin Peaks, anche attraverso la negazione del linguaggio, penso per esempio al personaggio di Dougie Jones che fondamentalmente parla ripetendo, e quindi, di fatto, non parlando… In fondo mette in moto un balbettamento del linguaggio che fa pensare a quello di Bartleby lo scrivano, come ricordano sia Deleuze che Agamben, che rispondendo sempre con quella frase “I would prefer not”, di fatto negava la comunicazione, eppure nello stesso tempo comunicava, e in un certo senso Lynch fa la stessa cosa, cioè nega la serialità, affermandola, o utilizzandola anche attraverso delle accentuazioni che creano delle pause, cioè ogni puntata finisce con la scena del bar di Twin Peaks, la Roadhouse, con un gruppo ogni volta diverso che si esibisce sul palco, come in una sorta di marca tipica della serie…
D.T.: Non tutte però, anche se sono molti gli episodi che terminano alla Roadhouse…Ci sono però delle variazioni significative, ricordo l’episodio n° 7 che finisce nel diner di Norma e poi l’episodio n° 13, ad esempio, in cui si vede Ed da solo, di notte, seduto nella sua stazione di servizio, mentre beve caffè e guarda semplicemente le macchine che passano lì davanti, in un silenzio pressocché totale, un finale struggente e sospeso…
D.D.: …ma anche queste variazioni fanno parte di questa rottura delle attese, in qualche modo, che magari tu puoi avere nel momento in cui sei abituato a vedere un certo tipo di blocchi che si ripetono, quindi ancora una volta viene introdotto un gioco ironico, come diceva prima Alessandro, la forma del comico in Lynch è sempre stata una forma incredibilmente attiva, pensiamo per esempio alle pause che attraversano le conversazioni tra Lynch/Gordon Cole e Miguel Ferrer/Albert che spesso sono uno di fronte all’altro, si guardano, non parlano, oppure passa un lasso di tempo abbastanza significativo tra l’affermazione di uno e la risposta dell’altro, che è un metodo comico che per esempio adoperavano i fratelli Marx, o anche altri, lo stesso Jerry Lewis, attraverso una sorta di rallentamento della risposta, si creava una specie di imbarazzo comico tale da rompere tutte le aspettative. Questo gioco ripetuto, ripensando anche a quello che Daniela ricordava prima, nell’intervista di Lynch ai Cahiers, quando parlava di un ritorno a Twin Peaks per ricomporre un puzzle disperso e riportarlo alla visibilità, è straordinario, perchè più rivedevo quel film e più ripensavo a questi giochi enigmistici che Lynch si diverte a disseminare nel corso del suo cinema, e come in questo film non film che però è potentemente cinema, Lynch riprende, tra l’altro, fornendo delle spiegazioni a cose che erano rimaste in sospeso in Fuoco cammina con me, o anche a cose rimaste senza spiegazione nella prima e nella seconda stagione, come ad esempio la rosa azzurra, che era rimasta un enigma.
B.R.: Volevo solo ricordare a proposito della rosa azzurra, che forse il primo film in assoluto che ho visto da bambino, si chiamava Il ladro di Baghdad, di Bruno Vailati, dove si va alla ricerca di un oggetto magico che è la rosa azzurra.
D.D.: Questi elementi che poi vengono in parte spiegati, in parte dimenticati, anche perchè in seguito ne vengono inseriti moltissimi altri, dunque la dimensione dell’enigma e del mistero continua per tutto il film, fino alla fine, tra l’altro adesso mi viene un dubbio rispetto all’ultima immagine di Twin Peaks, che per me è il buio. C’è un black out nella strada dove si trova e non si trova la casa di Laura Palmer, il primo piano di Laura Palmer invecchiata, il buio, improvvisamente tutte le luci si spengono e si sente l’urlo di Laura Palmer…
D.T.: …in realtà le ultime immagini sono nella Black Lodge, dove si vede Laura Palmer, venticinque anni dopo, che sussurra qualcosa all’orecchio di Dale Cooper, si vede il volto in primo piano di Cooper che ci guarda, e da un punto di vista sonoro non si avverte neppure più il crepitìo elettrico, il film termina semplicemente con il sussurro del vento…
D.D.: Bene, anche il fatto che la mia memoria giochi questi scherzi, è interessante…
E.B.: Il cinema però va visto in un altro modo, secondo me, va visto in movimento poi quando uno formalizza e ferma l’immagine per guardarla, diventa fotografia, attenzione….
D.T.: E’ verissima la tua osservazione, però in questo caso le ultime immagini del film non sono fisse, non è un fermo immagine quello di cui sto parlando, ma parlo di Laura Palmer che sussurra qualcosa all’orecchio di Cooper e noi vediamo il volto di lui in ascolto e noi non possiamo sentire quello che gli viene detto, quindi, mi sembra veramente che Lynch, con questa fine, rilanci il mistero di quest’opera, affermandola come il suo stesso centro e la sua ricchezza.
D.D.: La cosa bella è che il suo mistero passa attraverso un’immagine che si libera, in un certo senso secondo un movimento pulsante: il film lavora infatti attraverso un alternarsi di ritmi diversi, quasi secondo un movimento ondulatorio; la puntata numero otto porta al massimo grado questo movimento mediante l’esplosione in New Mexico e la lunga sequenza visionaria e acustica, ma lungo tutto TP3 ci sono pulsazioni di questo tipo, più piccole ma continue. Questo ci riporta al discorso della scrittura dell’opera, scrittura non intesa come linea narrativa, ma come composizione dell’opera, come sua strutturazione interna.
Si tratta di qualcosa di impressionante, perché questa “cosa”, che è cinema e televisione al tempo stesso (perché la vediamo sul piccolo schermo, perché è interna alla frammentazione della serialità), si rivela sempre più come la proposta di una forma nuova. In questo senso il film esplicita continuamente la necessità di un ritorno, perché continuamente apre allo spettatore una infinità di percorsi. Non solo percorsi interpretativi dei tanti “segni” disseminati lungo il suo corso – e possiamo divertirci a lungo, come abbiamo sempre fatto nel caso di Lynch, a farli – ma percorsi che ci fanno ritrovare la fascinazione dell’immagine cinematografica; mi spingo a dire la fascinazione à la Méliès dell’immagine, quella che lascia sullo sfondo la narrazione e basa il suo piacere nel lasciarsi colpire dal flusso, dal vortice. Come esperienza personale sono stato felice di provare queste sensazioni, perché ho sempre più difficoltà a ritrovare questo piacere, nel cinema contemporaneo più osannato, dove al contrario vedo spesso il controllo, la sutura, la limitazione di questo movimento che in fondo è originario al cinema stesso.
Il fatto che avvenga in un film che non esce in sala ma è destinato al circuito domestico, non mi sembra una limitazione o una perdita, ma al contrario mi sembra qualcosa di straordinario, proprio perché TP3 lancia una sfida alle divisioni codificate, alle strutturazioni dei generi e delle forme. Quando Lynch diversi anni fa invase Internet con i suoi esperimenti di animazione in Java o i suoi corti e frammenti visivi e sonori, faceva vedere in fondo che il cinema può esistere anche nella rete. Facendo TP3 dimostra che il cinema può esistere anche in uno spazio dove la serialità più commerciale sembra averlo ingabbiato in una struttura codificata, anche in quelle serie che amiamo, che abbiamo discusso o che sono entrate di diritto nella nostra memoria e nel nostro immaginario.
Dico tutto questo ammettendo anche il timore che avevo prima di vedere la terza stagione di Twin Peaks, perché il ritorno di Lynch poteva somigliare moltissimo ad una operazione puramente commerciale. In realtà è stato qualcosa di completamente diverso.
G.D.M.: Io non sono uno specialista di Lynch, però sono arrivato a Twin Peaks e l’ho trovato (tutte le stagioni) molto interessante. Parto dalle categorie che ho usato nel mio libro La mente virtuale, che ho pubblicato per Jacobelli due anni fa. In quel libro io proponevo la categoria del telecinema, che sarebbe una forma di produzione in cui diventa indistinguibile cosa si faccia con il linguaggio e la tecnologia televisiva e cosa si faccia con il linguaggio e la tecnologia cinematografica, come se televisione e cinema costituissero ormai un unico dispositivo. Lynch è uno sperimentatore di questo travaso continuo, di questo crossover di contenuti tra la televisione, il cinema e anche la letteratura. Mi è venuto in mente, osservando questo crossover, cioè la capacità di portare contenuti attraverso media diversi, il film Poltergeist di Tobe Hopper, in cui, al di là della mitografia, dell’analisi sul consumo della televisione da parte dei bambini, ciò che colpisce è il fatto che il romanzo sia stato scritto dopo il film, dopo la sceneggiatura del film mettendo in pratica una forma di crossover. Lì c’è un pubblico aggredito da questa forma di telecinema, colpito da tematiche relative all’esoterismo (la figura della veggente). Secondo me Lynch vuole fare un esperimento più complicato: vuole scoprire come è fatta la mente dello spettatore odierno. Lui si rende conto che lo spettatore contemporaneo non è più alla ricerca di realismo, non è affascinato da tematiche di tipo religioso, né tantomeno dalle forme dell’horror – che comunque si basano su forme realistiche e presuppongono che lo spettatore conservi una percezione della realtà che vuole trasgredire andando verso percezioni estreme. Con la prima serie degli anni Novanta e soprattutto con l’ultima stagione, Lynch si è reso conto che il pubblico ha fatto un passo in avanti grandioso, e che la mente dello spettatore è ormai una mente espansa e che la percezione e l’autopercezione degli spettatori sono praticamente sconfinate. Quindi lo spettatore è in grado di concepire forme di scrittura e di immagini che vanno avanti e indietro nel tempo, avanti e indietro nella mente, senza opporre alcun tipo di resistenza. Lo spettatore non chiede alla televisione senso, fondamento, non chiede alla televisione di giustificarsi rispetto ad un reale extratelevisivo o extracinematografico. C’è questa dimensione della own life in cui la mente passa dalla propria autopercezione alla visione dell’immagine con assoluta fluidità. Lo spettatore non ha più domande da porre a se stesso e quindi viaggia con lo stesso tempo della serie e del cinema.
B.R.: E’ vero quello che dice Giulio, anche se c’è una correzione che mi sento di fare al tuo discorso, che di fatto è il problema del posto dello spettatore, il problema che ponevo all’inizio. Dove è posto lo spettatore, dove è posto il guardante, quindi qual è il luogo dello sguardo, dove abita lo sguardo. Allo stesso tempo di pone l’altra domanda: qual è il luogo delle immagini? L’oikos, il luogo dove risiedono le immagini è il problema del film. Naturalmente è un problema di fronte al quale Lynch non fa che ripetere: “Silence”, silenzio. È ciò che diceva Platone quando parlava della Kora in quel dialogo straordinario che è il Timeo. Che cos’è la Kora? È questa regione che sta nella soglia tra il reale e l’irreale, tra il sogno e la realtà.
E.B.: è il film, è il cinema.
B.R.: certo, e tutto questo incide nel posto che occupa Twin Peaks 3, che naturalmente è una operazione crossmediale, perché è un posto che sta nel cinema e nella televisione, come diceva Daniele, ed è vero, come diceva Edoardo, che è ancora dentro l’aura del cinema del Novecento, però genialmente è anche al di fuori di tutto ciò, è in un luogo di fronte al quale il posto dello spettatore non è sicuro, e non è più la sala cinematografica.
G.D.M.: ma esistono luoghi al di fuori del cinema?
B.R.: appunto, parliamo di una delocazione, di una dislocazione di un luogo fisico dove recepire il cinema che è ovviamente nei fatti, però il cinema, il film sono incollocabili. Il fatto che le sale siano sempre di meno, che i film vengano fruiti in modi diversi, ha una valenza, che è quella di far venire fuori l’idea che il cinema sia incollocabile. Dai dipinti degli uomini delle caverne nella grotta di Altamira fino alla progettazione della camera oscura da parte di Ruggero Bacone, il cinema, anche tecnicamente esiste da sempre in un luogo non-luogo, in un tempo non-tempo. Noi stessi siamo cinema, i nostri occhi sono macchine da presa. E quindi sì, non esiste un fuori-cinema, nel momento in cui la questione del posto dello spettatore fagocita qualsiasi differenza tra televisione e cinema. La realtà virtuale è qualcosa che agisce ed incide nelle nostre pratiche e nel nostro pensiero oggi, ma se noi ripensiamo al fatto che il bisonte di Altamira era stato dipinto in modo tale che una protuberanza della parete della grotta coincidesse con la gobba dell’animale, dobbiamo concludere che il 3D, la realtà virtuale esistevano già allora. Dov’è che interviene Lynch in tutto questo? Sicuramente in questa sorta di indeterminabilità, di indistinzione o di crossover per usare le parole di Giulio; nello stesso tempo interviene all’interno di un vortice, per riprendere l’idea di Daniele, che è il vortice determinato da ciò che si guarda, da dove lo si guarda, fino a che punto lo si guarda e come si debba o si possa guardare in questa sorta di buco nero, di vortice. Sull’idea di vortice Agamben ha scritto delle parole bellissime.
G.D.M.: vorrei aggiungere che in tutto questo il ruolo della musica è determinante. Io sono affascinato dal lavoro di Angelo Badalamenti, che tra l’altro ha questo nome pieno di risonanze metafisico-mafiose. In uno dei documentari su Lynch, ad un certo punto compare la copertina di un disco dei This Mortal Coil. La copertina raffigura una casa nel buio. Anche attraverso la musica Lynch porta avanti una operazione di persuasione, di occultamento, di fascinazione che è altrettanto importante dell’operazione che fa attraverso le immagini.
B.R.: Lynch stesso ha composto musica e pubblicato dei dischi.
D.D.: Si, ha pubblicato diversi dischi, sia a suo nome, sia frutto di collaborazioni con diversi musicisti, da Badalamenti a John Neff. Tra l’altro lui ha spesso diretto i videoclip dei suoi brani così come quelli di altri artisti, o ha cercato giovani talenti per dirigere i video dei suoi pezzi.
A.P.: L’assistente di Lynch, Chrysta Bell è una musicista tra l’altro.
D.D.: si, i due collaborano da molto tempo e hanno pubblicato un disco insieme.
D.T.: Effettivamente la chiave che ci ha suggerito Giulio, il ruolo della musica, è fondamentale, così come aveva sottolineato Michel Chion, parlando per il cinema di Lynch di “immagini sonore”. Credo che siano lui e Godard ad aver sviluppato con più forza questo rapporto di scambio continuo son et image.
D.D.: Da tantissimi anni Lynch non firma solo la regia nei suoi film, ma anche la direzione del suono, come Sound Designer. E questo mi sembra indicativo.
A.P.: Io avrei molte cose da dire e quando parlo non mi rendo conto del tempo che passa, per cui fermatemi pure ad un certo punto. Volevo dire che l’estate scorsa, quando ho proposto a Daniela di fare questo incontro, io sentivo questo bisogno perché sin dalle prime puntate io non mi sentivo più lo stesso spettatore. Tuttora, magari esagero, dopo il ritorno a Twin Peaks le cose sono cambiate, lo spettatore stesso è cambiato.
Perché Twin Peaks è epocale? Perché dopo 25 anni un regista torna sui luoghi, sui set filmati in precedenza, con gli stessi attori che nel frattempo sono invecchiati, sono sopravvissuti, o quelli che sono morenti. In moltissime puntate, dopo i titoli di coda compaiono cartelli neri con i nomi di quelli, collaboratori o attori che sono scomparsi. Sono morti, non a caso, l’attore Frank Da Silva, che era Bob, il personaggio che incarnava il male, è morta Catherine McCoulson, la signora del ceppo, quella che fa da tramite ai vari mondi. È morto David Bowie. Sono morte delle figure fondamentali.
Sono d’accordo con Edoardo che si tratta di un film di 18 ore, ma penso anche io, come diceva Daniele, che è un film che si fruisce scandito, una volta alla settimana (come l’ho visto io), con l’andamento di una serie. Io ero, settimana dopo settimana, disorientato, smarrito, e cercavo di orientarmi, riorientarmi nella foresta di doppi che proliferavano nelle immagini, a partire dai doppi di Dale Cooper. Io pensavo che una parte degli spettatori non potesse se non ritrovarsi con Cooper che si trova in un luogo estraneo, se non ritrovarsi in uno stato quasi catatonico, senza capire bene quello che succede. Lo spettatore era costretto a vagare tra i significanti alla ricerca di un senso. Di puntata in puntata, di sottotesto in sottotesto, di sottotrama in sottotrama, i conti non tornavano mai. Perché questo? Perché è un film profondamente lavorato dal tempo e dalla morte. La sigla iniziale è importantissima: la prima inquadratura che si vede è un alone, una luce che dà fastidio. È un effetto digitale sporco che copre l’occhio di Laura Palmer che appare in sovrimpressione. Poi si rivedono la cascata, i luoghi del film, ma non c’è più la camera fissa; le immagini ci sono date attraverso altri punti di vista, alcune immagini sembrano riprese da droni. Il problema è quello del punto di vista. Secondo me lo spettatore è accecato. Quella luce sembra la luce di una torcia che acceca, e lo spettatore è veggente e allo stesso tempo accecato. Non può che essere così in una non-storia che si fa lavorare fin dall’inizio dalla morte al lavoro, che non è uno slogan, ma è assolutamente centrata. Già nelle prime due stagioni, i generi si facevano lavorare dall’inconscio. Qui ritorniamo nell’inconscio, 25 anni dopo, e tutto è cambiato. Siamo in una zona d’ombra, siamo sogni in un sogno sognato, dove siamo noi i sognatori. La scena chiave è quella con la Bellucci in bianco e nero, dove siamo i sognatori che sognano.
Anche la sequenza dell’esplosione atomica è particolare. Io vedo quella didascalia che colloca l’evento in un momento e in un luogo particolari come un depistaggio. In realtà siamo già contemporaneamente nel passato e nel futuro. In realtà è il presente: tra Trump, Israele, la Corea, le bombe atomiche sono qui, ora, non siamo nel New Mexico nel secolo scorso. Nella Loggia Rossa viene continuamente ripetuta nel film la domanda: “Ma siamo nel passato o nel futuro?”. In nessuno dei due, risponderei, siamo in una zona d’ombra da cui spiamo queste creature semi-viventi, spettrali. In quanto spettatore, dopo Twin Peaks io sono ancora prigioniero di Twin Peaks, della sua ambiguità, del cinema come esperienza. Dopo ho visto altri bei film, il film di Spielberg, il bel film di Polanski, però francamente io sono ancora lì. Perché c’è una logica che regola in 18 ore l’inconscio, l’immagine. Una logica ferrea, che non riesco a ritrovare in altri film. E mi chiedo, vi chiedo perché.
D.T.: Sono assolutamente d’accordo e mi vorrei agganciare a questo punto. Per quanto riguarda la questione del rapporto tra futuro e passato, e per quanto riguarda la sequenza dell’esplosione atomica, c’è anche un intento per così dire genealogico da parte di Lynch, di fissare dei momenti e di riscrivere, tra le pieghe di una storia straordinaria, anche una Storia dell’America. E lo fa, andando a ritroso, cercando il punto in cui è cominciato tutto. La sua Storia dell’America è anche la storia di persone che vivono nelle roulotte, ai margini; fatta di gente che per mangiare ha bisogno di vendere il proprio sangue. In questa terza serie vengono anche mostrate le armi che proliferano in America. Tutto questo, quasi in filigrana, senza nessuna retorica, e forse proprio per questo ci arriva così potentemente il ritratto di questo Paese. Quell’ America è oggi, è ora.
B.R.: vorrei ricordare una cosa che sicuramente farà piacere ad Alessandro. Sono d’accordo anche io che il New Mexico è un depistaggio, però ricorderei che è proprio in New Mexico che Aby Warburg assiste a quelle cerimonie che gli faranno scrivere Il rituale del serpente. Quegli zig zag che sono sul pavimento della loggia rossa riprendono i disegni degli indiani Hopi studiati da Warburg. Nello stesso tempo vorrei ricordare che in quegli stessi luoghi Artaud aveva fatto l’esperienza del Peyote con i Taraumara. Tutto questo orizzonte di riferimenti mostra come sicuramente, riprendendo Edoardo, il film è il Novecento, è l’aura del cinema, ma è anche quella vertigine temporale e spaziale in cui non c’è futuro, passato e luogo. Quello che resta è in qualche modo il cinema, nel modo in cui lo ricordava prima Edoardo.
D.T.: E’ vero che il film ci ha cambiato. Davanti a questa ricchezza, anche molto angosciante, perché Twin Peaks non è qualcosa che si può vedere tranquillamente, ci si rende conto di essere di fronte a una sperimentazione e a un’intensità del tutto nuova, mai vista. Diverse volte, nei vari episodi, capita che ci siano delle pagine mancanti, manca spesso qualcosa, che è importante ritrovare. Per esempio capita con alcune pagine mancanti del diario di Laura Palmer, che Hawk ritrova nell’ intercapedine, della porta del bagno, negli uffici della polizia di Twin Peaks. Oppure, altri dettagli cruciali, come quella sorta di bossolo che esce fuori dalla poltrona a casa della madre di Bobby Briggs, e che fornirà delle informazioni importanti. C’è come un tempo messo in attesa in un arco di venticinque anni, ci troviamo di fronte a una sorta di gravidanza del tempo… Davvero Lynch ha lavorato su forme invisibili, eppure presenti, su forme mutanti, anche dal punto di vista della narrazione, anche attraverso questo modo di raccontare, con questi continui slittamenti, questi spostamenti. Dal Sud Dakota a New York, da Parigi a Buenos Aires (per cui immediatamente penso a Borges).
A.P.: A proposito delle pagine mancanti, ritornando sulla questione della musica, quello che io aspettavo e che faticava ad arrivare era il tema portante di Twin Peaks, che compare solo durante la sigla iniziale. Il motivo arriva la prima volta soltanto dopo che Bobby, che nel frattempo è diventato poliziotto, vede la foto di Laura Palmer. Solo lì ritorna, la musica che ci mancava. Noi eravamo abituati per due stagioni ad essere accompagnati da quella musica, nei momenti comici come nei momenti tragici. In tutte le fasi della narrazione eravamo accompagnati da quelle musiche, ora invece dominava il silenzio. Siamo stati orfani della musica per ora, di quella musica.
D.T.: Ma quella musica è a tutti gli effetti una presenza fantasma, e questo è il motivo per cui non può tornare in continuazione. Infatti torna in momenti molto particolari, nell’episodio che ricordavi prima, con il pianto di Bobby davanti alla fotografia di Laura, e quando Dale e Diane vanno a cercare Judy. A proposito della presenza costante del cinema in Twin Peaks 3, c’è tra l’altro nella serie una potente attivazione del cinema di Hitchcock, penso alle figure del vortice e della caduta, ma anche al personaggio di nome Judy, l’entità malefica, che non a caso ha lo stesso nome del personaggio interpretato da Kim Novak in Vertigo.
B.R.: Riprendendo una cosa che ha detto prima Andrea, è vero che dopo Twin Peaks io continuo ad esserci dentro anche vedendo altri film, ma è altrettanto vero che dentro Twin Peaks io continuo a pensare a Murnau, a Stroheim o a Blake Edwards. Dentro c’è un cinema fagocitato. Credo che la questione del luogo dello spettatore che è emersa come risultato di una jam session (e confermiamo ancora una volta che Filmcritica fa Jazz), fa ritornare con sé molte cose: ritorna la questione di un secolo di cinema, ritorna la questione dell’avanguardia, ritorna l’idea della logica. Ritorna l’idea dello spettatore appunto. Tutti questi elementi ritornano secondo il movimento del falso ritorno o della ripetizione differente, riprendendo Deleuze. Ricordiamoci che Twin Peaks viene dopo INLAND EMPIRE che altro non è se non il dispiegarsi di un movimento continuo di entrata ed uscita dal cinema, senza mai sapere dove è il set, dove è il cinema e dove siamo noi.
A.P.: la pulsione scopica dello spettatore viene spazzata via sin dall’inizio, quando i due ragazzi che devono osservare quel parallelepipedo trasparente vengono fatti fuori da una creatura misteriosa. Lì fa i conti con Kubrick…Tanti altri elementi portano all’idea della cancellazione del punto di vista: ci sono le donne senza occhi, pugnalate agli occhi.
D.T.: Lì, vedo una colpa legata allo sguardo, legata al vedere…
A.P.: non è una cosa da nulla, e come dicevo prima, c’è sin dalla sigla iniziale, con quella luce che acceca l’occhio di Laura Palmer.
G.D.M.: Laura Palmer è come lo spettatore.
B.R.: Laura Palmer è come la luce. La questione della luce è lo strato più profondo del film.
A.C.: Abbiamo insistito molto sullo spazio dello spettatore, ma pensiamo anche al tempo dello spettatore. Mi riferisco a ciò che diceva Andrea. È un film che dura 18 ore, è vero, ma il tempo di fruizione di Twin Peaks è in realtà di 18 settimane, più di quattro mesi. In questi quattro mesi dove è il posto dello spettatore? Quante modifiche e cambiamenti attraverserà? A parte il fatto che viene 25 anni dopo le prime, la terza stagione non si cura affatto di avere uno spettatore nella sua continuità, ne fa a meno, in fondo cambia continuamente spettatore.
E.B.: E’ sin troppo vero che il film è anche un film scandito in episodi, ma finisce per togliergli fascino l’insistere sul suo legame con la serialità. Si tratta di un’opera unica, al di là del fatto che per motivi produttivi sia stata divisa in 18 episodi. Ma si tratta di un’opera unica, in cui lo spettatore deve trovare un posto, anche se lo vede a casa sua. Il film infrange gli schemi del cinema-cinema, e proprio perché è un’opera unica lo spettatore deve incontrare la sua zona. Ci dà la possibilità di superare la forma del serial, che in America e in tutto il mondo ha una importanza enorme.
A.C.: in questo senso Twin Peaks implica anche la possibilità della morte dello spettatore.
D.T.: siamo di fronte ad una forma completamente esplosa, altro che il tempo fuori dai cardini dell’Amleto… Una forma che riesce a liberare delle forze oscure; noi abbiamo il buio e la luce (quindi il cinema), e ci muoviamo all’interno di queste due polarità opposte. La grandezza di Twin Peaks sta anche nel fatto che riesce ad attingere continuamente all’interno dell’inconscio, del sogno, del tempo. È il tempo stesso che ad un certo punto inizia a sognare, come dice a un certo punto la signora del ceppo. E la cosa bella è che tutto questo fa nascere in noi qualcosa, produce moltissima scrittura. Mi è capitato di leggere non solo numeri speciali di riviste, come ad esempio i Cahiers, ma una quantità enorme di articoli dedicati al film, sia in Italia, che in Francia e negli Stati Uniti. E’ come se Twin Peaks 3 avesse trasmesso la necessità, l’urgenza di mettere nero su bianco qualcosa che rischia continuamente di svanire.
E.B.: non è un caso che i quattro critici di “Le Monde”, nella rubrica dedicata ai migliori film dell’anno hanno tutti indicato il film di Lynch come uno dei film dell’anno, dicendo proprio che Twin Peaks è cinema.
B.R.: Prima abbiamo accennato a Borges. Questa “cosa” come l’ha chiamata Daniele – e mi piace che Daniele usi questa espressione perché è una espressione lacaniana, la cosa che si vede solo dall’abisso, dal buco nero del reale – ci si può entrare da qualsiasi parte. Io non l’ho visto in ordine sequenziale la prima volta. La puntata numero otto è una cosa particolare, una sorta di punto cardine, che mostra come in ogni puntata è potenzialmente contenuto tutto il film e in un frammento infinitesimale si dispiegano tutte le 18 ore del film. Quando Borges parla dell’aleph dice esattamente questo: che un frammento infinitesimale contiene e al tempo stesso dispiega il tutto.
E.B.: E’ il frammento che raccoglie il tutto, ma non il contrario. Il critico di cinema deve essere abituato a cogliere proprio il frammento. Ed è per questo che la critica cinematografica è importantissima, per l’attenzione che dà al frammento. Cogliere che quella caduta di Charlot è il frutto di mille tentativi fatti dall’attore per rendere “la” caduta. È quello che sottolineava anche Kant, quando diceva che l’arte è bella anche per l’evidenziazione della prova, dello studio che c’è dietro.
B.R.: E’ quello che dice Benjamin, quando afferma che l’arte della critica è come se fosse l’alchimia. Nel suo saggio sulle “Affinità elettive”, Benjamin descrive il critico come colui che ha a che fare con il legno che brucia, e il materiale su cui lavora è la cenere, quello che resta dall’impatto tra il legno e il fuoco.
E.B.: Questo dimostra che il cinema non ha ancora finito di svilupparsi. Noi siamo ancora i pionieri, non ne dimentichiamo l’importanza.
B.R.: Vorrei leggere un passo di Giorgio Agamben, un filosofo con cui io avevo aperto questa conversazione. Questo scritto si chiama “Vortici” e si trova all’interno del libro Il fuoco e il racconto, lui scrive: ” Il vortice ha la sua propria ritmica che è stata paragonata al movimento dei pianeti intorno al sole, il suo interno si muove ad una velocità più grande del suo margine esterno, così come i pianeti ruotano più o meno veloci a seconda dalla loro distanza dal sole. Nel suo avvolgersi a spirale esso si allunga verso il basso per poi risalire verso l’alto in una sorta di intima pulsazione. Il centro intorno a cui e verso cui il vortice non cessa di turbinare è però un sole nero in cui agisce una forza di risucchio e di suzione infinita. Secondo gli scienziati ciò si esprime dicendo che nel punto del vortice in cui il raggio è uguale a zero la pressione è uguale a meno infinito.”
Non posso fare a meno, dopo aver letto queste parole di pensare a Twin Peaks 3.
D.D.: Mi sembra che sia venuto fuori un po’ da tutti, al di là delle argomentazioni adoperate da ognuno, che di fronte a Twin Peaks 3 siamo tutti d’accordo nel pensare che ci si trova davanti a qualcosa di epocale. Personalmente mi accade di pensare spesso a un’opera gemella, non tanto perchè sia la stessa cosa, quanto nel senso che provoca un sommovimento molto simile, che è Histoire(s) du Cinema di Jean-Luc Godard, che dal mio punto di vista ha molti punti di contatto con Twin Peaks 3, se non altro per il fatto che tiene insieme delle cose che apparentemente non possono stare insieme, cose apparentemente lontane che poi diventano qualcosa di completamente diverso, in una sorta di dialettica folle che mettendole insieme costruisce una nuova opera. Nel caso di Twin Peaks, tutto quello che abbiamo detto nel corso di questa conversazione, in fondo verteva su questo aspetto; il fatto stupefacente è proprio quel sentirsi in difficoltà nel parlare di Twin Peaks 3, con categorie che normalmente si applicano ad altre forme, e la stessa cosa avviene con Histoire(s) du cinema, che ti costringe ad una nuova discorsività, a partire dalla tua esperienza, che è sconvolgente, come prima diceva Andrea, non ne esci più, ma meno male…!
D.T.: Credo che Twin Peaks 3 funzioni anche una sorta di azzeramento dell’esperienza della visione, e che la difficoltà consista effettivamente anche nel trovare delle parole nuove, un nuovo vocabolario, per nominare questa nuova esperienza. Volevo anche dire che mi trovo completamente d’accordo sul riferimento alle Histoire(s) du cinema di Godard, tra l’altro, a questo proposito, penso che ognuno di noi avrà notato in Twin Peaks 3 un lavoro straordinario e molto angosciante in alcuni punti sulla sovrimpressione…
B.R.: ….e sugli inserti di cinema, se si pensa come entra Norma Desmond, in Viale el tramonto….
D.T.: Il momento di Viale del tramonto, è fondamentale perchè, quando Dougie, cambiando i canali con il telecomando e soffermandosi davanti al film di Wilder nel momento in cui De Mille pronuncia il nome “Gordon Cole”, è lì che inizia a risvegliarsi da quella sua condizione molto particolare, diciamo, tra smemoratezza e handicap. Quindi è attraverso il cinema che si può riguadagnare la memoria, è attraverso il cinema che si diventa, o ridiventa, umani, c’è insomma un’idea di cinema come mezzo profondo per raggiungere se stessi.
A.P.: Riprendendo il discorso che facevo prima a proposito della morte, guarda caso, il film è Viale del tramonto, che è il racconto di un morto. E’ la morte che ridà vita a Dougie….
D.T.: …da questo punto di vista, va presa in considerazione la stessa straordinaria ambiguità di Laura Palmer, che nella Loggia Nera, dialogando con l’agente Cooper dice di essere morta….ma…
C’è al lavoro un’ambiguità assoluta che si tende tra la vita e la morte, e su questo Alessandro Cappabianca ha scritto cose di grande significato, sulla spettralità del cinema…
E.B. : Per confermare questo aspetto basterebbe il tuitolo: Twin Peaks 3. Il ritorno. Il ritorno è il ritorno da là, dagli inferi, dal regno delle ombre, pensiamo alle pagine meravigliose di Pavese su Orfeo, nei Dialoghi con Leucò….
B.R.: Ma che cosa significa Twin Peaks? Picchi gemelli. Allora l’idea dei picchi gemelli, naturalmente è un luogo, ma è anche uno stato dell’essere. C’è questa idea di gemellarità e di doppio, di alto e di basso, di salita e di discesa, che ritorna, non è un caso che noi vediamo dall’alto le valli, e dunque questa geografia espansa da un lato, e dall’altro lato questa binarietà a sua volta sdoppiata e giocata per oltrepassare la binarietà stessa, perché che cosa succede ai vari personaggi se non il fatto di raddoppiarsi, di moltiplicarsi, ma anche poi di ritornare al di là di questa scissione che avviene superando la soglia, ma che è una scissione inscritta dentro lo stesso atto del guardare, il nostro stesso occhio, e nello stesso tempo lì è iscritta, come dicevo all’inizio, un’idea di terza persona. Qualcosa cioè che viene sempre scartata, e Laura Palmer in qualche modo è questo, permette continuamente questo scarto, permette un resto… Per me il senso politico del film è proprio questo, c’è sempre qualcosa che resta, non è possibile una sterminazione del senso, c’è sempre qualcosa che resiste e resta. Tant’è vero che anche nel finale, chi resiste e resta è Laura. Ricordiamoci anche che Laura contiene in sè “l’aura”.
A.C.: Il personaggio di Laura può anche essere interpretato a mio parere come il personaggio di una persona morta che ancora non si è resa conto di essere morta. Alla fine, o verso la fine, Laura prorompe in un grido, che io interpreto come il grido di qualcuno che all’improvviso si è reso conto di essere morto, Laura si è resa conto di essere stata assassinata. La genialità di questa cosa di Lynch sta proprio in questo, nel capire che un personaggio può essere morto e può non essersene reso conto….e questo secondo me è straordinario.
B.R.: Certo, ma quando parlavo prima di Laura, sottolineando l’aura, penso anche al fatto che in Benjamin si dice sempre che la procedura delle immagini produce la perdita dell’aura, ma in realtà se lo si legge attentamente, l’aura non cessa di depositarsi. La perdita dell’aura è qualcosa che avviene continuamente, cioè continuamente le immagini perdono aura, e questo avviene secondo Benjamin nel momento in cui le immagini possono essere riprodotte. O prodotte. E qui entra in gioco l’ambiguità e la spettralità del cinema, in quanto il cinema non fa che produrre e riprodurre dei fantasmi… E questo ha anche molto a che fare con l’idea del Novecento che non è un secolo chiuso, è un secolo aperto, che continua a insistere. Quando all’inizio Edoardo, parlando del Novecento, lo ha chiamato l’altro secolo, io sono rimasto lì per lì stupito, ma poi, ripensandoci, l’espressione può anche essere rovesciata e il Novecento diventa così non solo l’altro secolo, ma il secolo altro. Il secolo che occupa un’alterità, che continua ad alterare il nostro modo di guardare, di pensare…
G.D.M.: Io ho un dubbio: ma voi lo rivedreste Twin Peaks 3?
E.B.: Io in realtà, avendo tutti gli episodi dentro una chiavetta, avrei proprio voluto organizzare una visione di Twin Peaks 3 nella redazione di Filmcritica in piazza del Grillo, dove c’è un grande schermo, e mi sarebbe piaciuto che durante la conversazione potessero scorrere le immagini, non dico tutte le diciotto ore, ma che almeno per due ore potessero accompagnare la nostra conversazione…
B.R.: Edoardo dice qualcosa di interessante, perché in questa scena c’è qualcosa dell’installazione, anche in questo Lynch è geniale, senza bisogno di essere dentro uno spazio, d’arte, come un museo e senza necessariamente il bisogno di essere dentro uno schermo televisivo, Twin Peaks 3 è anche una strana installazione filmica…
A.C.: Installazione, ma senza una pluralità di schermi….
E.B.: Siccome siamo ancora al di qua e non al di là dello schermo, probabilmente lo schermo è lo specchio riflettente, se non c’è lo specchio che riflette non c’è l’immagine…
B.R.: A proposito di dispositivo, lo schermo ha bisogno dello specchio. La camera degli specchi di Leonardo che era una sorta di prima sala di proiezione, era fatta di specchi. E questo sarebbe interessante da capire, ma l’abbiamo forse detto altre volte, se tutto questo insiste anche nel digitale, anche se tutto questo sistema di specchi, di ottiche, ecc, in queste immagini che non hanno luogo che sono il digitale, continua ad esserci una pulsazione luce-buio, luce-buio, e secondo me è così, per questo forse la luce è la chiave più profonda di questo film.
A.P.: A proposito di specchi, se non sbaglio la seconda stagione terminava con Cooper che si guardava allo specchio e vedeva Bob, qui alla fine del ritorno invece noi vediamo di nuovo Joan Chen davanti allo specchio, come nella prima serie…
D.T.: Anche Audry alla fine si guarda allo specchio e completamente sconvolta, urla: “Cosa…?”, mi sembra che il tema dell’invecchiamento, della difficoltà a riconoscersi, sia uno degli elementi più centrali e dolorosi di questa terza stagione…
A.P.: Di puntata in puntata noi scoprivamo e cercavamo di ritrovare degli attori, che magari avevamo visto venticinque anni prima e che trovavamo invecchiati, lo smarrimento era quello, non c’è niente da fare… A un certo punto ritroviamo la signora col ceppo….
B.R.: Sì sono invecchiati tutti, ma è invecchiata soprattutto Laura Palmer perché è lei che ritorna invecchiata nella Loggia, però nel finale no, se ci pensate, nella sovrimpressione del volto di Laura Palmer, è la Laura Palmer di sempre…
A.P.: E anche nella sigla….
B.R.: Ma a parte la sigla, il ritorno del fantasma di Laura Palmer o del corpo di Laura Palmer, vivente o non vivente è un’immagine che non si deteriora, che trattiene un’aura persistente…
A.P.: Cooper ad esempio si raddoppia perché non può più specchiarsi in Bob, non può più vedere Bob nello specchio, perché l’attore che interpretava Bob è morto…E quindi lui si raddoppia, nel finale della seconda stagione Cooper guardandosi allo specchio vedeva Bob, ora l’attore che fa Bob è morto, quindi non può più guardarsi allo specchio…
D.T.: Però qui, in Twin Peaks 3, a un certo punto Bad Cooper guardandosi allo specchio e vedendo Bob accanto al suo volto riflesso dice: ” Vedo che ci sei ancora, siamo ancora insieme e questo è un bene” . Comunque l’elemento dello specchio secondo me è importante, perché in Twin Peaks c’è nel rispecchiamento quasi sempre un elemento legato al nero, al male…
B.R.: Questo che dici ha a che fare con la gnosi e un aspetto gnostico è assolutamente presente nel film cioè quest’idea di una doppia creazione, di una creazione demiurgica, di una creazione specchio di una scissione tra male e bene, però non si esaurisce là, non solo non si esaurisce come diceva Alessandro all’inizio nelle misteriosofie New Age, checché ne pensi lo stesso Lynch, ma non si esaurisce probabilmente nemmeno nelle filosofie misteriosofiche che pure sono estremamente presenti come la gnosi, e probabilmente non si esaurisce proprio, nel senso che quest’idea di spostamento continuo dell’immagine continua a depositarsi, non può esaurirsi nè in una lotta eterna tra bene e male o in una dicotomia gnostica…
D.T.: Ma è questa in fondo la forza e la bellezza di Twin Peaks 3, che sfonda continuamente in un oltre…
B.R.: In questo è come Inland Empire…
E.B.: Mi sembra che questa conversazione molto ricca parta comunque da un punto fermo che è anche un punto fermo storico, cioè l’esperimento atomico nel deserto del New Mexico. E’ un film ancorato al tempo….
D.T.: Nell’episodio n° 14 c’è il sogno di Gordon Cole con Monica Bellucci che dice “Siamo come il sognatore che sogna e poi vive dentro il sogno. Ma chi è il sognatore?”. In ogni caso “Chi è il sognatore” mi sembra la vera domanda del film. A me ha fatto pensare al racconto di Borges Le rovine circolari, quando alla fine il protagonista del racconto scopre di non avere un’esistenza reale, ma di essere sognato da un altro. In questo periodo in cui sto lavorando sui film di Minnelli, soprattutto attraverso la linea guida offerta da Deleuze, che legge tutta l’opera di Minnelli come attraversata dalla tematica lancinante di personaggi letteralmente assorbiti dal proprio sogno, e soprattutto dal sogno di un altro, portando la funzione del sogno fino al limite del divoramento, dell’annientamento, dell’ossessione, ecco, mi sembra che forse Lynch, con Twin Peaks 3, non si trovi molto lontano da lì…
B.R.: Tra l’altro questo elemento avvicina molto il cinema di Lynch a quello di Raoul Ruiz. Il cinema di Ruiz anche attraverso l’ironia, il comico, e questa idea di gioco che ritorna spesso in Lynch, è qualcosa che in Ruiz è sempre stata presente. Ma, come diceva anche Andrea, dietro tutto questo c’è comunque una logica ferrea, forte, anche se nascosta, sigillata.