BENVENUTI A MARWEN/THE MULE-IL CORRIERE
La freccia e il giglio
di Michele Moccia
In Robert Zemeckis, il tempo, ancora una volta, nella sua esistenza filosofica, scocca come una freccia che si conficca negli occhi, del resto senza il tempo il movimento stesso sarebbe impossibile. Così, Zemeckis anche in Benvenuti a Marwen rende esplicita la metafora: nello scontro finale, giocato sul campanile della chiesa diroccata della cittadina immaginaria, è un’altra freccia (il chiodo conficcato nelle assi) che impedisce all’eroe di cadere nel vuoto, di precipitare nell’abisso del nulla. Mi ritorna alla mente Michael Kubovy, La freccia nell’occhio, e, attraverso di lui, Leon Battista Alberti e il suo De pictura: “Imperocché in vano si tira l’arco, se prima non hai designato il luogo dove tu vuoi indirizzare la freccia”. Zemeckis sa che per il cinema esistere è una questione di percezione, di vedere e di guardare, di amare e di rianimare il proprio mondo. E, ancora una volta, si riappropria del corpo, della materialità dell’anima, di tutta la sua elementarità, dopo averlo processato come immagine in computer grafica. Il cinema è già da sempre, e sempre sarà, creazione di infiniti mondi possibili e insieme il luogo metafisico dell’impossibile-possibile. L’unico possibile ritorno al futuro.
Anche il volto ruvido, come scolpito nella pietra, di Clint Eastwood è un ritorno al futuro. Ne Il corriere – The Mule, l’eroe eastwoodiano è lo straniero senza nome di un western contemporaneo e crepuscolare. Earl Stone è un cavaliere pallido che esiste e resiste in un mondo al tramonto, e il cui simbolo araldico è il giglio. Tutto il film di Clint Eastwood sembra potersi leggere come metafora di un conte de geste cortese, con l’eroe che accetta, pur patendo, il suo destino di solitudine, un destino che lo tiene lontano dalle donne che ama e lo costringe a un continuo peregrinare. Il cavaliere di Clint Eastwood non può tornare indietro, e nel suo fermarsi non può trattenersi più di quanto gli sia permesso. Tuttavia anch’egli è preso nell’esistente tanto quanto gli altri, così ogni sua sosta lungo il cammino non fa altro che accentuare l’inesplicabilità e l’ineluttabilità di ciò che non può non essere. Basterebbe ritornare a quanto scrive Jaspers per cogliere il senso del film di Eastwood: “Una realtà mondana completamente disorganizzata, in cui solo un eroe potrebbe creare da sé, per sé e per i suoi, un ordine autonomo, è una rappresentazione-limite. Nella sua singolarità l’uomo non possiede una grandezza sovrumana, rivolto a sé solo potrebbe vivere nel mondo solo a livello germinale”. Di qui la metafora del giglio, che attraversa il film, il suo essere coltivato e il suo germinare, anche se in ritardo.