BENVENUTI A MARWEN di Robert Zemeckis
Io mi salverò
di Andrea Pastor
Se mi chiedo, per motivi di carattere non sociologico, i motivi che hanno mosso il grande pubblico a pressoché disertare Welcome to Marwene a spingere la maggior parte della critica nel mondo a leggere il film in maniera così riduttiva e approssimativa non ho molte risposte se non quella, forse retorica, che quando i corpi e i fantasmi, che da sempre impregnano qualsiasi materia filmica, si moltiplicano nel delirio di un protagonista, allora l’occhio non vuole vedere, tende a difendersi, a non aprirsi, nel timore di riconoscersi. Per questo, al momento in cui scrivo, sono felice che la rivista dedichi così tanto spazio al film, che più voci si uniscano per leggere l’ultimo, grande film di Zemeckis, un autore peraltro da noi sempre seguito con passione, e attenzione. Credo che questa cecità (che ha colpito purtroppo anche i “Cahiers du cinema” che hanno offerto al film poche, miserrime righe) sia dovuta anche al fatto che il vedere sia ormai un processo, una pratica alquanto difficile da svolgersi, occorre allenamento, occorre avere la mente sgombra da pregiudizi, da facili catalogazioni, occorre ogni volta che si va al cinema mettersi in ascolto, sentire le immagini che scorrono tra le pieghe di un testo, nei suoi anfratti, occorre perdere la memoria per poi ritrovarla, facendosi guidare dal proprio vissuto di spettatore comunque sempre ‘segnato’ da un trauma, occorre spalancare gli occhi sul piccolo e sul grande, sulle plurime dimensioni del nostro immaginario infantilmente adulto, ma anche prossimo, ad ogni visione, ad una singolare verginità di sguardo. Il protagonista di Marwen è un uomo che visse, ‘morì’ e rinacque più volte, per questo quando lo vediamo inerpicarsi a precipizio sulla scala del campanile sarebbe fuorviante e inutile citare il finale di ‘Vertigo’, leggere questa sequenza come postmodernamente citazionista. Perché la vertigine spazio temporale, il Doppio, da sempre fanno parte della macchina cinema, da Edison e Lumiere ad oggi, perché il movimento che da sempre connota il cinema di Zemeckis è il movimento stesso dell’occhio sospeso tra passato e futuro, tra live action e morphing capture, e questo ben prima che la tecnologia gli permettesse di combinare, in un unico, compatto, ‘classico’ flusso, i suoi fisici e mentali e onirici universi fiabeschi, che hanno sempre al centro l’Umano vivere e il suo cercare Contatti nell’altrove. Perché le ossessioni dei personaggi di Zemeckis hanno comunque, ad ogni proiezione, una storia, e nella Storia sono radicati, anche quando il narrato, il visivo trascendono incessantemente il loro essere nel presente, e questo non solo quando ci si muove avendo a disposizione delle macchine del tempo capaci di trasportarci all’interno dei generi (che, nella loro purezza, non sono più tali, basti pensare al western della terza, luttuosa parte della sua più celeberrima trilogia); si muovono ‘a piccoli passi’ (ma anche correndo) i suoi personaggi, i suoi non eroi, dinamizzati dall’ansia di conoscenza, dal loro volersi ricreare, spinti da una magnifica ossessione che è quella di arrivare alla verità, a cambiare un po’ il mondo, a cogliere segni che gli altri, quelli che li circondano, non sanno ancora percepire. Sono le stesse ossessioni dei grandi cineasti, quelli che purtroppo vanno sempre più scomparendo, per età, per la loro scomparsa o per la difficoltà a trovare i finanziamenti per i loro ultimi film (uno per tutti, l’amico di filmcritica Paul Vecchiali, che, per inciso, ama molto Zemeckis…), sono le ossessioni legate ad una pratica di resistenza, all’etica, alla ricerca, alla sperimentazione, alla ricreazione, ad ogni visione, di un cinema libero, inclassificabile, inattuale, un cinema d’azione che sia allo stesso tempo un cinema dove lo spettatore ha l’impressione che ciò che scorre davanti a lui sia stato concepito per l’istante –presente passato futuro – in cui vede, o rivedrà, e i cui protagonisti sono immediatamente solo ciò che vedono, ciò che preavvertono. Sì, siamo benvenuti a Marwen se sappiamo abbandonarci fin dal primo istante, fin dal primo duello aereo, fin dal primo precipitare a terra del pilota, fin dal suo primo indossare delle scarpe femminili col tacco, all’imaginerie di un uomo che, veniamo lentamente a sapere, solo nel suo raddoppiarsi in un pupazzetto quasi eroico, può, nel giardino di casa e nella sua mente, ridare vita, consistenza e senso, al suo passato di illustratore di fumetti, che non ricorda il suo esserci stato, il suo aver creato. Il film è un’elegiaca, implacabile, lieve, secca e precisa, linearmente irregolare avventura nello spazio profondo della memoria perduta, alla ricerca di un altro se stesso, ancora una volta un artista ma, questa volta, un fotografo, che per guarire dal trauma subito in seguito al pestaggio all’esterno, che è anche e sempre un interno, dell’“Anal” club (o bar, non ricordo, si veda la scritta al neon ripresa dal basso al momento della violenza), deve necessariamente modellizzare, dare forma al suo tempo, un tempo di coalescenza tra il suo, anche amoroso, passato, e le pulsioni, i desideri che lo animano dal di dentro, nel suo vertiginoso spazio tempo interiore che è un tutt’uno con quello filmico: il presente, innervato dall’amore per la nuova vicina di casa, e il futuro prossimo (sempre anche anteriore), segnato dal processo imminente che verrà, al quale è ‘destinato’, quello impregnato dal senso di colpa per una Diversità mai accettata fino in fondo, quella che gli impedisce di vivere il reale nella sua contingenza. L’immaginario bellico, ma non solo, al quale assistiamo, in un montaggio classicamente mai del tutto alternato, mai pienamente parallelo, è la sostanza del suo essere, che diventa il nostro, ci addentriamo a piccoli passi e sguardi, senza mai poterci pienamente proiettare, nell’avventura di una mente, in un ritorno al passato che non conosceremo mai fino in fondo, nonostante venga lentamente sfogliato, in tempo reale, il suo album di foto, una solo delle quali riprende, come per magia, movimento. Così come non conosceremo mai fino in fondo il suo universo familiare, o il frame da cui si muove il suo, solo apparentemente delirante, di fatto logico e matematico, pur se espressionisticamente perturbante, immaginario, che termina spesso con un fermo immagine, corrispondente allo scatto della macchina fotografica che blocca, (im)pietosa, l’immagine bellica, o amorosa, l’altro reale la cui genesi resta misteriosa, così come, in “24 Frames”, non si sapeva mai quale foto potesse aver spinto Kiarostami a accendere il computer, a dispiegare e far consumare il tempo, a trasmutare il fotografico nel filmico. È nell’animazione di uno scatto ‘invisibile’, dunque, che due grandi cineasti, apparentemente lontani, si ricongiungono, oltre la vita, oltre la morte, per far sì che la vita dello spettatore continui. E non a caso è il long take del protagonista di Marwen, seduto sul divano, come impietrito dal rifiuto della sua vicina di casa ‘ritrovata’, a farci pensare, come nel frame terminale di Kiarostami, che i migliori anni della nostra vita, se si sa amare, come Zemeckis sa farlo, i propri personaggi, e tutti i propri materiali, anche quelli di cui sono composti i nostri sogni incubi cinematografici, sono quelli dedicati al vero sentire il cinema, e, come in questo caso, un film che ha un destinatario futuro, molto lontano nel tempo, probabilmente, o, nel presente, tutti quegli spettatori critici capaci di elaborare le proprie scene primarie e secondarie, i propri sensi di colpa legati al voyeurismo degli schermi che si proiettano nelle case oltre il cortile, tesi alla ricerca del vero, a reimmaginare sempre il mondo. Fino ad arrivare a non aver paura di denunciare, di testimoniare il proprio esserci stato, il proprio aver visto, il proprio aver sofferto. Steve Carell come Jodie Foster, come gli amici di Filmcritica, che scrivono in questo numero sul film, sono in grado di elaborare il dolore, il lutto, la perdita delle immagini (e delle persone) amate, del proprio, irriducibile, multiplo, disseminato Sé.