Venezia 81: Why War, Incontro con Amos Gitai
A cura di daniela turco[1]
Why War? l’ultimo lavoro di Amos Gitai, mette al centro il carteggio tra Sigmund Freud e Albert Einstein, datato 1932 e poi raccolto in un testo, che si fonda sullo scambio di idee tra due protagonisti eccezionali del Novecento sul tema della guerra e delle motivazioni profonde che spingono gli uomini a uccidersi. Nel film insieme alle loro voci, interpretate da Mathieu Almaric/Freud e da Micha Lescot/ Einstein, si trovano anche le tracce di altri testi, soprattutto i fondamentali Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, che riflette sulle immagini delle guerre e sul rischio attuale di spettacolarizzazione e di banalizzazione della sofferenza, e Le tre ghinee di Virginia Woolf, ripreso tra l’altro da Sontag, dove la guerra è osservata da un punto di vista radicalmente femminista e pacifista e definita come essere un affare soprattutto di uomini, non certo delle donne, mettendo in evidenza il nesso sostanziale tra guerra e patriarcato.
Nei frammenti e nella stratificazione dei testi, così come nell’intensità dolorosa delle tracce musicali: Ernst Bloch, Benjamin Britten, Maurice Ravel, Alexey Kochetkov, ecc, che nel loro intrecciarsi formano il tessuto irregolare e inquieto del film, la struttura di Why War? più ancora che a quella di un film-saggio fa pensare a un tormentato diario di campo – per usare uno dei titoli più politici della filmografia di Gitai – pensato/scritto/filmato di getto nei mesi tremendi successivi all’attacco di Hamas del 7 ottobre nel Neghev cui ha fatto seguito una sistematica riduzione in macerie di Gaza con un numero sempre crescente di morti, in gran parte civili, donne e bambini, cancellati dalla furia dell’esercito israeliano.
Why War? inizia nella notte di Tel Aviv, con uno di quei lunghi piani sequenza così frequenti nel cinema di Gitai per evidenziare nel segno della durata contraddizioni e fratture geografiche, temporali, sociali, e che, qui, muovendosi dolcemente, come un volo leggero, nella piazza di fronte al Museo d’Arte occupata da una lunga tavola apparecchiata ancora in attesa degli ostaggi rapiti da Hamas, con uno scarto, sprofonda poi nell’oscurità reale e simbolica di un tunnel dal quale ancora non si riesce a vedere la luce….
Why War? si mantiene per tutta la sua durata nella dura tensione di questa domanda – perché la guerra? – che resta inevasa, prelevando le immagini dal cinema di Gitai che più hanno incontrato la guerra dentro la Storia: The War of the Sons of Light against the Sons of Darkness, Lullaby To My father, Kippur, per intrecciarle nel montaggio con le argomentazioni di Einstein e di Freud, dove è soprattutto la presenza di Mathieu Almaric/Freud a colpire, mentre sviluppa il suo discorso sempre più carico di ombre e di premonizioni per un disagio della civiltà irrimediabile. In Why War?, come appunto in un diario di campo, entrano anche le tappe dell’itinerario teatrale di House (presentato anche al Teatro Argentina di Roma all’inizio dello scorso ottobre) proposto da Gitai in diverse capitali europee, ed ecco, allora, Irène Jacob aggirarsi tra le pietre disseminate sul palco di House e, poi, silenziosa e chiusa nei suoi pensieri, all’esterno del museo ebraico di Berlino, e ancora, a Tel Aviv, filmata nella sua stanza d’albergo, presa nel flusso di un monologo interiore sulle immagini di guerra in televisione o dopo, mentre si tinge i capelli, e si ritrova incredula, inorridita, con le mani imbrattate di un colore simile a quello del sangue.
Più avanti nel film Irène Jacob, insieme a Jèrõme Kircher, suo compagno nella vita oltre che nel lavoro, metterà in scena, nel camerino del teatro, davanti a uno specchio, che li raddoppia, una lite di coppia, vertiginosa e disorientante per la violenta pulsione distruttiva che trasmette e che ci riguarda profondamente tutti.
Ci sono alcuni film di Amos Gitai, come per esempio lo splendido Milim, filmato a ridosso dell’assassinio di Yitzhak Rabin, e investito di tutta la rabbia e dello sconforto di quel momento che avrebbe cambiato per sempre il destino di Israele, o Letter to a Friend in Gaza, dove la lingua araba risuonava attraverso le parole in poesia di Mahamoud Darwish, insieme a quelle di Albert Camus, di Amira Hass, Emile Habibi, ecc, e soprattutto West of the Jordan River, una ricognizione politica e umana, fatta di incontri, attraverso la West Bank, sulla vita nei villaggi sotto occupazione israeliana, che hanno preparato il terreno per Why War?.
Che è il terreno difficile di un film che mette tutta la sua forza nel formulare una domanda che, oltre Einstein, Freud, Sontag, Woolf, deve continuare a restare aperta e a interrogare, un film radicalmente contro la violenza della guerra che rifiuta di mostrare anche solo un’immagine delle guerre contemporanee, ma che entrando nel buio di un tunnel dove fa sprofondare il piano sequenza dell’inizio a Tel Aviv, parla di una notte di cui non si vede la fine che acceca Israele mentre nel fuoricampo preme ed è in gioco la vita e la morte di Gaza. (d.t.)
Why War? Perché la guerra, il tuo film riprende il titolo del carteggio del 1932 tra Einstein e Freud. La guerra storicamente è portata avanti con convinzione più dagli uomini che dalle donne, ma forse le donne, le madri, non hanno insegnato la pace abbastanza….
Amos Gitai: Sì, forse è così…Per quanto mi riguarda ho sempre pensato che le madri abbiano molto più a che fare con la fiction dei filmmakers…Alcune madri possono anche arrivare a intossicare i loro bambini da piccoli con tutta una serie di ordini, tu devi dire così, devi fare cosà, insomma, dico questo per dire che le madri sono veramente potenti, mentre i padri lo sono di meno, sono le madri che si prendono maggiormente carico delle cose, gli uomini sono meno portati per questo, sono più costruiti…
E’ una questione di cultura, quindi, e forse attraverso la cultura si potrebbe fare diversamente….
Amos Gitai: Trovo che sia molto interessante quello che Freud pensava e scriveva della cultura, all’inizio il suo approccio era piuttosto ottimista, ma poi…Personalmente, in linea di principio, credo nella cultura ma in quella reale, autentica, non in un tipo di cultura demagogica, indottrinata, o che tende a semplificare troppo. La cultura è sempre qualcosa di molto complesso e controverso, è fatta di contraddizioni, che non possono essere semplificate. Ho sempre pensato che gli artisti di maggiore rilievo sono quelli capaci di guardare alla loro stessa società con uno sguardo estremamente critico, perché questo significa che sono rimasti onesti e nello stesso tempo profondi. Tutti i più grandi artisti parlano anche alla loro società, non semplicemente di arte, sarebbe molto semplice essere critici soltanto nei confronti degli altri, restando sempre nei confronti del proprio paese molto patriottici, ma quello non è per me un buon modo di essere critici, per me la scelta di rimanere liberi di criticare onora sempre la buona cultura.
Quando hai iniziato a lavorare sulla corrispondenza tra Albert Einstein e Sigmund Freud…
Amos Gitai: Ho cominciato a lavorare a Why War in gennaio, ma abbiamo girato a Tel Aviv nel mese di maggio…Prima avevo anche girato qualcosa a Vienna, tra aprile e maggio, poi abbiamo messo in scena House a teatro a Berlino e in seguito siamo tornati a Tel Aviv, dove abbiamo filmato altre sequenze….e poi di nuovo a Berlino, mentre le ultime sequenze le abbiamo girate a Parigi.
Vedendo il tuo film ci si domanda come mai questo carteggio tra Freud e Einstein non sia stato portato al cinema prima di ora…Proprio per il grande rilievo che viene dato al tema della guerra….
Amos Gitai: Mah, credo che la ragione sta nel fatto che i filmmakers sono troppo orientati verso un cinema narrativo, questo invece è un film-saggio…Ci sono due grandi menti che scrivono delle lettere l’uno all’altro, non è come aver a che fare con un romanzo, che devi portare avanti…Tra l’altro, molto spesso si ha a che fare con dei romanzi che vengono adattati per lo schermo, e a volte si avverte un qualcosa di meccanico in questo… Ora, se si tratta di Dostoevskij è un piacere, ma non è sempre così…
Le lettere hanno sempre un certo valore nel tuo lavoro, sono importanti, vedo per esempio una certa connessione tra questo film e Letter to a friend in Gaza, e anche con le bellissime lettere che scriveva tua madre Efratia, poi raccolte e pubblicate in volume.
Ma c’è qualcosa di più, nel film Irène Jacob, ti interpella direttamente attraverso una lettera, che appunto inizia con “Dear Amos…”, facendo pensare che tu abbia chiesto a ognuno degli attori che partecipano al film di portare qualcosa anche di molto personale, di proprio…
Amos Gitai: Sì è vero che ho chiesto a ognuno di loro di mettere un’impronta personale in quello che dicevano, anche perché gli attori sanno che lavorare con me significa anche portare una propria interpretazione, e in questo caso qualcosa viene da Irène ma ci sono anche parti del testo di Susan Sontag Davanti al dolore degli altri, e nel film c’è anche il testo femminista di Virginia Woolf, Le tre ghinee. Tra l’altro, introdurre il testo di Virginia Woolf è stata un’idea di Rivka[2], e all’inizio non ero sicuro di volerlo usare perché gran parte del libro concerne l’economia, ci sono considerazioni su come le donne vengono discriminate e non sono rispettate da un punto di vista economico, ma ovviamente c’è anche una parte del libro che riguarda la guerra, e Rivka ha suggerito di usarla, ne abbiamo trovato un’edizione nella libreria di mia madre, pieno di note a margine, ma poi ci sono stati anche altri contributi, tra cui quello di Micha Lescot, di Mathieu Almaric, di Jèrõme Kircher insomma c’è stato un andirivieni da parte di tutti gli interpreti sui testi, e anche Marie Josè Sanselme ha contribuito, insomma, c’era un gruppo al lavoro e… mi piace il mio kibbutz personale… siamo tutti amici…
Irène Jacob. : A questo punto vorrei intervenire dicendo che mi sembra che il film sia stato anche una sorta di avventura, dove si discuteva qualcosa insieme e la cosa che mi ha sorpreso è il fatto che anche per i dialoghi Amos richiedesse partecipazione, per poi scegliere il modo di procedere, infatti per le scene davanti alla televisione e poi quelle con Yael Abecassis e Keren Mor devo dire che all’inizio non avevamo idea di che cosa dovevamo fare … Poi invece, comprendevamo che cosa fare mentre la sequenza era in corso, e di fatto in quella scena con Yael Abecassis è passata molta emozione….La cosa che mi è piaciuta particolarmente in questo lavoro portato avanti insieme è che non pianificavamo prima quello che avremmo fatto, ma trovavamo le cose man mano, con il procedere del film, hic et nunc, tanto che alla fine della giornata noi stessi eravamo sorpresi di quello che avevamo fatto durante le riprese. Non è vero Micha?
Micha Lescot : Sì certo, per quanto riguarda il personaggio che ho interpretato, Albert Einstein, quando ne abbiamo parlato insieme, sembrava ed era certamente difficile, ma poi ho messo un paio di baffi, ho sistemato i capelli in un certo modo, ho indossato un abito, e in qualche modo funzionava…mi sono detto, ok, puoi farlo…ho imparato le sue lettere a memoria…
Per focalizzarti sul perché della guerra la tua scelta è andata proprio al carteggio tra Freud e Einstein…Qual è il motivo?
Amos Gitai: E’ qualcosa di contraddittorio, in un certo senso, perché la psicoanalisi come è noto ha a che fare con l’individuo, non è come la psicologia sociale che ha a che fare con la società, nella psicoanalisi si tratta di un rapporto uno a uno, l’analista e il paziente, anche se nello stesso tempo si avverte che l’umanità potrebbe aver bisogno di una certa struttura, altrimenti gli impulsi negativi prenderebbero il sopravvento. Quindi ci sono questi due aspetti che delimitano questa pratica, che è personale ma riguarda anche la collettività…Mi fa venire in mente mia madre, che quando aveva diciannove anni se ne andò a Vienna per incontrare Freud e lei credeva nella psicoanalisi come mezzo per aiutare la gente a stare meglio, rimpiazzando tutta una strumentazione medica come l’elettroshock, agendo come un riparo, una pratica che conferisce al dialogo tra medico e paziente la capacità di portare alla guarigione…
Anche fare un film collettivamente con un gruppo di persone ha a sua volta a che fare con un processo di guarigione. Irène è venuta in Israele in questo periodo di guerra e abbiamo parlato molto e questo ci ha permesso di ritornare sull’idea più profonda della psicoanalisi che è proprio la parola, il discorso, che rimpiazza azioni più aggressive e violente. Noi parliamo, e anche senza l’esercizio della psicoanalisi, comunque usiamo la parola…
E questo è il motivo per cui non mostri neppure un’immagine di guerra nel tuo film….
No, infatti, assolutamente, perché le cose stanno in questo modo: se tu sei in Israele e guardi la televisione israeliana tu vedi solo le sofferenze degli israeliani, così si vedono le donne che sono state rapite e portate via con la violenza, i kibbutz che bruciano, si vede un’esplosione di violenza contro i civili…Se tu vedi solo questo e non vedi e non sai che cosa sta succedendo a Gaza, tu pensi: ma questa gente è pazza, sono dei selvaggi….Per contro, se tu sei in Palestina, vedi solo la distruzione di Gaza, condotta metodologicamente quartiere per quartiere, e le sofferenze, e i bambini, e l’insorgenza delle malattie, e non vedi mai l’altra parte, così che chiaramente ti dici: ok basta, liberiamoci per sempre degli Israeliani…
Così credo di aver compreso che oggi attraverso le televisioni, soprattutto con questa modalità delle diverse televisioni, in qualche modo non si fa altro che prolungare la guerra. E’ così che ho deciso di fare un film-saggio contro la guerra senza le immagini della guerra. In realtà le immagini più brutali del film sono quelle dei quadri realizzati da Francisco Goya sul tema della guerra.
Ritornando per un momento a Freud che aveva messo in chiaro come un certo grado di distruttività facesse profondamente parte dell’essere umano, qual è oggi la lezione di questo lavoro affrontato dalla psicoanalisi?
Nella mia famiglia mia madre ha sempre parlato molto di Freud, ora, a sua volta, mia figlia Keren parla di Freud, ha studiato psicologia con Julia Kristeva e quindi ho avuto a che fare con due donne di generazioni differenti che mi hanno spiegato alcune cose visto che io francamente non sono un esperto in quel campo, per non dire poi di Mathieu, che ora non è qui….Quando l’ho visto interpretare Freud, ho sentito finalmente di comprendere a fondo i testi di Freud che fin lì avevo letto, proprio perché la sua interpretazione era così intensa, come del resto anche quella di Micha con Einstein, da riuscire ad andare a grande profondità sul testo…Quando si lavora su un testo con grande rispetto…i buoni interpreti fanno proprio questo, si va in profondità…. Mia figlia Keren per esempio mi ha molto parlato di contesto, di testo principale, di testo secondario, di sottotesto, ecc., dato che ha lavorato molto sui libri di Freud, li ha studiati a lungo.
Lei attualmente lavora in un ospedale, il suo campo concerne le persone che fanno la dialisi, e lei affianca i medici fornendo ai pazienti un supporto psicologico, perché spesso l’intervento dei medici è troppo meccanico, e lei invece cerca di spiegare le cose, intervenendo non solo sulle condizioni fisiche, perché siamo esseri umani, non siamo macchine… E invece spesso i medici si occupano solo degli aspetti più meccanici della cura…Keren invece usa, appunto, la parola, perché sa che c’è molta paura della morte e che non basta intervenire sul corpo, perché le cure mediche spesso non bastano, ci vuole la parola…Ecco qui…mi sono messo a parlare di mia madre, di mia figlia…
Cinema come missione sociale…perché degli attori partecipano a questa avventura?
Micha Lescot: Quando Amos mi ha chiesto di partecipare al film, che si sarebbe intitolato Why War, e di venire a Tel Aviv dopo l’attacco, dopo l’inizio della guerra, ho pensato a che cosa avrei potuto fare, e anche che era una sorta di sfida per me, come attore…
Irène Jacob: Per me è stato lo stesso, inoltre sia io che Micha partecipavamo contemporaneamente alla pièce di Amos House, presentata a teatro, e quando ci ha chiesto di girare in Israele perché dovevamo fare quell’esperienza, ho sentito che doveva essere così, e sicuramente è stato determinante girare lì, ha cambiato tutto…
Amos Gitai: Credo che in una situazione come quella attuale, tu devi cercare di dare una mano a quelli che in Israele o anche in altri paesi…ecco, la situazione non è mai o bianco o nero, in Israele abbiamo un governo israeliano razzista, troppo religioso, voglio dire Netanyahu e la sua cricca, e in tutte le società c’è sempre della gente che è contro, ma se i gruppi che possono creare problemi vengono isolati, tutto inevitabilmente assume un aspetto claustrofobico, le posizioni si estremizzano, si diventa razzisti… Per fare un esempio, in Francia ci sono state parecchie estremizzazioni, ma non si può certo smettere di parlare con gli Arabi perché è capitato che un arabo ha stuprato una ragazza…Ebbene no! Bisogna lottare contro questo atteggiamento, non si può generalizzare, bisogna cercare di essere invece molto precisi, vanno sempre fatte delle distinzioni, e soprattutto bisogna parlare alla gente perché è quella è la sola strada per cercare di andare avanti, continuando a dialogare…
Nel film è molto interessante il modo con cui usi il teatro, e lo fai entrare nel tessuto di Why War; c’è una sequenza molto intensa in cui Irène Jacob e Jèrõme Kircher Kircher litigano davanti allo specchio nel camerino, e ci si sente messi di fronte contemporaneamente a qualcosa di molto personale ma anche di estremamente politico…
Amos Gitai: Sì, esattamemte: è la guerra all’interno di una coppia.
Sì, infatti, mi ha molto colpito perché è una scena che assume molti livelli…Tu mi hai ripetuto molte volte che il teatro gioca sempre un ruolo importante nella guerra, e in questa scena, ho ritrovato un po’ questo….
Irène Jacob: …Sì è una sequenza che abbiamo girato in in teatro, sulla scena, a Berlino, e Amos ha voluto filmare quella cornice, il teatro, ma non sul palcoscenico, c’era sicuramente in atto una certa realtà, e nello stesso tempo c’era anche in gioco una specie di presentazione, come presentare la guerra, come si presenta un personaggio, c’è anche una certa distanza…
Amos Gitai: In questo momento, oltre a Why War, che viene proposto qui a Venezia, siamo anche impegnati con la pièce di House, che è già stato presentato a Berlino e che debutterà a breve a Londra al teatro Barbican, e successivamente anche a Roma, al teatro Argentina, in ottobre.
[1] Intervista di gruppo. Inoltre alla conversazione, oltre ad Amos Gitai hanno partecipato anche gli interpreti Micha Lescot e Irène Jacob.
[2] Rivka Markovitzky, moglie di Amos Gitai.