65° Festival dei Popoli: Tavola Rotonda con Albert Serra a proposito di Afternoon of Solitude
La condizione del puro.
Conversazione a cura di Marco Allegrezza, Edoardo Mariani e Francesco Scognamiglio (partecipano Giampiero Raganelli e Ivan Orlandi per le riviste Quinlan e Close Up).
Alla 75esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, il regista Albert Serra è stato omaggiato con la presenza di una sezione a lui dedicata e del suo ultimo film, Afternoon of Solitude, vincitore della Concha de Oro al festival di San Sebastian. Dopo un illuminante Talk Albert Serra: Contro il Reale, moderato dal direttore artistico del Festival dei Popoli, Alessandro Stellino, in cui si approfondiscono i confini tra arte e vita, documentario e finzione, emerge il chiaro interesse dell’autore catalano per il concetto di fatalità del teatro, cioè quel momento sfuggente, proprio del teatro, in cui si percepisce l’unicità di ciò a cui stiamo assistendo.
Questi argomenti si ripresentano anche durante le visioni dei film più marginali della sua filmografia programmati nella già citata sezione.
La performance dell’attore che interpreta Luigi XIV in Roi Soleil ci fa riflettere in maniera diretta sul lavoro che Serra svolge sulla grammatica dei gesti. Vediamo brutalmente il tempo mimetizzarsi in noi e attendiamo che questo corpo sofferente venga sopraffatto dalla morte, affinché muoia con lui questa falsa percezione della finzione. L’attore, generatore di gesti irripetibili e fatali è proprio l’elemento cardine di questa fede cinematografica, processo che viene elaborato personalmente da Serra in un suo articolo: “…spesso l’attore è solo un ricettacolo della parola. L’attore non è una “macchia” nell’immagine, né un’altra forma, è l’emozione che deriva da una drammaturgia: la drammaturgia della sua presenza[1]” e ancora “La scena esiste solo nel volto dell’attore e la sua reazione spontanea è il nostro sguardo di spettatori”.
Il cinema è l’altro elemento attivo dell’equazione; in ogni scena sembra essere lì, davanti ad una continua preparazione. In The Names of Christ e in The Lord Worked Wonders in Me è principale quest’esigenza di confronto isterico con l’atto di creazione. Per il regista spagnolo bisogna essere pronti a cogliere il caos della vita.
C’è qualcosa di imprevedibile in quello che succede nella purezza dell’esistenza, e Serra cerca di restituirne una presenza costruendo per lui stesso in quanto primo spettatore dei suoi film, un sistema per cui possa cogliersi l’essenza fondamentale che può solo essere vista scorrere o essere ricordata.
Per questo ha collaudato un metodo preciso che negli anni continua ad affinare per avere terreno fertile per la ricerca e la sperimentazione ai fini di ottenere un oggetto filmico ogni volta unico e prezioso. È questo fare della finzione un acquario (o una serra come suggerisce simpaticamente Marco Allegrezza), in cui poter liberamente filmare, che rende il cinema di questo autore impressionante e misterioso. E il modo in cui si tiene a distanza dalla scena, quasi come a volerla spiare, proprio come si farebbe nel documentario, rende la sua ricerca più aperta ai confini dell’imprevedibile.
Affascinato dalla rarità dell’inaccessibile che si avverte durante la visione della corrida, Albert Serra presenta quest’anno al festival proprio un documentario su quest’evento della tradizione spagnola.
Vediamo le inquadrature soffocare le silhouette dei toreri, come sanno fare solo le loro rutilanti divise. Fiero e serio il matador protagonista non mostra sentimenti, non concede spiragli nei personali affari. Lo vediamo inizialmente, forse, assumere posizioni determinanti e smorfie motrici per superare l’atto di uccidere, il momento della verità, e anche la paura di essere incornato. Per come è stato montato il film sembra all’inizio suggerire negli occhi del bel torero un certo disgusto per tanto spargimento di sangue. Lo percepiamo inghiottire pianti primordiali, ma poi le chiappe strette e la mano alzata per il plauso del pubblico ci mostrano l’uomo feroce che è. Non si sa cosa farà nella sua camera d’albergo, da solo, quando i rituali saranno conclusi. Quest’individuo è puro movimento. E così aumentano le distanze con il reale; Albert Serra si lascia affascinare dal documentare, ha sgranato gli occhi ma non sa cosa ha visto.
(F.S.)
Giampiero Raganelli: Tempo fa dicesti che il documentario è una forma di cinema per filmmaker senza immaginazione, cosa ti ha a portato alla decisione di fare un documentario?
Albert Serra: Non mi piacciono i documentari, lo dico anche se siamo in un festival di documentari. Ma questo è un mio problema personale. L’unico motivo per cui va fatto un documentario secondo me è quando non è possibile fare lo stesso film utilizzando la fiction.
Con questo soggetto che avevo tra le mani non era possibile fare della finzione per ovvi motivi.
O hai un attore o hai un torero.
La corrida è un soggetto molto forte, molto crudo. Forse uno degli ultimi rituali radicali che esistono ancora oggi nella società occidentale. È così violento che è così difficile avvicinarsi per girare delle scene.
L’approccio del documentario doveva essere molto intimistico per poter registrare i dialoghi che questi personaggi ci regalano generosamente senza alcun filtro. E si è trattato unicamente di riprendere quello che succedeva nell’arena, i momenti prima e i momenti dopo: come si vestono, come arrivano e come lasciano l’arena, dove vanno dopo.
E per avere questa vicinanza al processo hai bisogno di persone vere. Ed è molto interessante perché senti una pressione che incombe.
Ho seguito anche un altro torero ma non è stato possibile montarlo nel film; nelle sue scene, ma anche in quelle del torero protagonista del film, Andres Roca Rey, soprattutto quando si trova in arene importanti come quella di Madrid, si sente tantissimo questa pressione. Mi sono detto che non potevo fallire nel documentare certi tipi di emozioni.
Edoardo Mariani: Quando vedo i tuoi film sento sempre una sorta di epifania. Hai sempre parlato del metodo con cui ti approcci al cinema, della sfida che attui con te stesso per lasciare che il film diventi qualcosa di astratto ma allo stesso tempo dettagliato. Io amo i quadri di Salvador Dalì e lo hai citato in una scena di The Names of Christ che abbiamo visto ieri qui alla retrospettiva del festival a te dedicata.
Dunque ho pensato che il tuo metodo possa essere assimilato a quello paranoico-critico di Dalì.
A.S.: Più che paranoico sono caotico, almeno credo. Provo a creare del caos perché spero accada qualcosa per me inaspettato. Non lo so… Credo di vivere anch’io all’interno dei miei film sentendomi uno spettatore. Se siamo un’industria dobbiamo far vedere quello che il pubblico non si aspetta. Credo che si tratti di un caos buono. Unendo questo caos a un po’ di pressione e dando stress psicologico agli attori si riesce ad ottenere questo inatteso.
Durante il documentario invece è diverso. In questo caso non è stato facile comunicare con gli attori. All’inizio c’è stata una piccolissima conversazione tra me e il matador, poi quasi niente; giusto quando dovevamo applicargli il microfono, cosa che spesso lo riluttava, ma non siamo riusciti ad avere reali conversazioni anzi non c’era proprio dialogo tra noi.
Quando entravo nella stanza ed era svestito noi non parlavamo mai.
Tutti ormai vogliono fare documentari cercando di farli in maniera corretta… giusta, ma io penso che invece debba essere ingiusto. Questo è il punto principale: se è giusto, non è un giusto film.
Bisogna sempre tirare fuori il bene dalle persone cattive e il male da quelle buone. Questo per lo meno è il mio metodo. Ovviamente se una persona ha tante idee su un soggetto, che scriva un libro. Ma se si utilizza una mdp, questo strumento deve rivelare qualcosa di mai visto o di sconosciuto. La ricerca è con la mdp perché questo è un documentario e questo è il caso di Afternoon of Solitude; è impossibile vedere o sentire quello che vi sto mostrando; vi consegno una bio dell’impossibile. Queste immagini sono visibili per la prima volta nella vita ed è stato possibile secondo il mio metodo solo perché non interferivo con le cose, non mi interessava di loro. Ci sono persone contrarie al concetto di corrida a cui non è piaciuto il film, e anche le persone a cui piace non hanno gradito. È perfetto. È la cosa migliore.
Pensa a un film su Donald Tramp e pensa se ai fan non fosse piaciuto, e poi pensa se non fosse piaciuto neanche a quelli che non lo sopportano. Vuol dire che è un buon documentario perché mostra qualcosa di terribile.
È stata dura perché c’era sempre qualcosa che i toreri non volevano mostrarci, stanze caotiche, poi c’era il furgoncino del team. Dovevamo sempre seguirli mentre erano concentrati e non volevano essere distratti.
Ovviamente sono stato anche fortunato durante le riprese e loro sono stati generosi.
Il mio approccio al documentario dunque è capire come fanno queste persone a fare quello che fanno; come fanno queste persone a tollerare la questione di essere filmate in questo contesto. Introdurre queste domande all’interno del documentario è parte del lavoro di molti altri filmmaker, come Wang Bing o Ulrich Seidl. La domanda è: come sono state convinte queste persone a fare il film? A queste persone non piacciono i film che facciamo, ma ci permettono di farli. Sta tutto nella confidenza ma rimane un paradosso. All’inizio a loro interessa solo se il film è buono, se è buono per loro stessi. Se li farà apparire come vogliono vedersi.
In questo caso specifico le persone filmate erano tutte concentrate sul fatto che il film non dovesse danneggiare in alcun modo l’immagine della corrida. Ci sono chiaramente delle immagini che non vorrebbero fossero mostrate, come la morte del toro. Ma la corrida è violenta di per sé, l’ho solo registrata con la camera.
Al matador non è piaciuto, mi ha detto che secondo lui l’ho tradito. È stato un momento duro per me ma non potevo fare un film che piacesse a lui solo per ricambiare della sua generosità.
Nonostante questo io credo che il film sia positivo nei confronti della corrida. Per molti non è così e quindi in ultima analisi questo film rimane in un dubbio territorio, disequilibrato, in cui le persone non sanno esattamente cose queste immagini gli stanno comunicando. Non è solo una questione morale.
Penso comunque che questa sia soltanto una prima fase del film. Ora i toreri che ho filmato non riescono a pensare alla totalità del film o all’arte per cui è stato fatto, pensano solo a loro stessi, alla loro immagine o a cosa hanno detto. Spero che con il tempo vedranno il film diversamente.
Ivan Orlandi: Cosa puoi dirci invece dell’aspetto voyeuristico della corrida. Ti sei interessato a filmare gli spettatori sugli spalti?
A.S.: Non appare mai il pubblico. È un ritratto molto intimo del matador. La presenza di altre persone si percepisce grazie al suono e in questo modo si sente la suggestione dell’arena.
Non volevo mostrare gente noiosa perché nel mio racconto c’è un toro, animale mistico e misterioso, la violenza e l’eroe.
E i dialoghi tra i toreri erano impossibili da sentire se non con i microfoni. Così in montaggio ho scoperto i meravigliosi commenti che facevano. Hanno quest’anima poetica e popolare del sud della Spagna. Mi fa pensare allo stile di Lorca.
Marco Allegrezza: Quante mdp hai utilizzato per girare?
A.S.: Dipende, per quanto riguarda l’arena: tre o a volte quattro. Poi c’era la mdp nel furgoncino; è stato affascinante perché non sapevo mai cosa stava accadendo li dentro mentre la mdp girava. Lui (il matador) è veramente misterioso. Non so nulla di lui. L’ho visto in tante situazioni eppure non lo conosco affatto. So soltanto che questa gente viene da famiglie molto ricche. Non fanno questo lavoro per soldi. C’è qualcos’altro ed è veramente difficile da capire di cosa si tratta.
Francesco Scognamiglio: Vorrei riportare qui un concetto emerso ieri durante la conferenza stampa organizzata dal festival. Hai simpaticamente definito come nouvelle cuisine il fatto che gli elementi del tuo cinema sono mescolati insieme per creare qualcosa di diverso, un’immagine, una sensazione; una presenza molto chiara che rimane nelle nostre teste dopo le visioni dei tuoi film. Ed è proprio questo che può portare ogni opera d’arte ad essere un’esperienza unica.
Vorrei collegare questo pensiero al rapporto tra vita e morte sempre presente nei tuoi film. Ci hai detto che anche Afternoon of Solitude tratta strettamente di vita e di morte. Il mondo in cui vivono queste persone che hai ripreso è un mondo in bilico tra questi due elementi.
A.S.: Si, questo è il fulcro della corrida. La violenza è la trascendenza di questa storia. Questo non è il Cirque du Soleil, questo è un vero rituale in cui sono coinvolti vita e morte. In un momento molto duro del film c’è una bella frase che ricordo di aver citato ieri; uno dei toreri va dal matador e gli dice: “la vida no vale nada, eso es”. Vuol dire che nella vita devi rischiare e che devi smontare la vita e portartela via per farci qualcosa; utilizzare il tempo della tua vita per farci qualcosa, quando invece la semplice conservazione della vita non vale nulla dinanzi a questo.
Nella corrida questo è simbolico. Questi soggetti fanno questi movimenti strani intorno a questo animale che poi uccidono. È ridicolo.
Però per loro è molto importante, per questo rischiano la vita, e io ci credo. Tutti amano il matador perché è la persona che davvero rischia li in mezzo, perché è la più vicina al toro, ed è per questo che abbiamo deciso di avvicinarci molto a lui con la mdp.
È una metafora della vita; non si sa mai quando verrà il momento della morte (il prezzo da pagare per vivere in questo modo). È molto commovente e credo che questo film ispirerà molto le persone a fare di più. Non mi piacciono infatti le persone che vedono una critica alla corrida in questo film; quello che avviene è molto umano, trasparente. È in fondo tutta una caricatura dell’essere uomini macho; la parola che più hanno usato durante le scene è palle (cojones). La seconda parola più utilizzata da loro è invece verità: questa è la verità, questo è la verità per il torero, la verità del torero.

F.S.: Un riferimento a qualcosa di materiale, di immanente.
A.S.: È un qualcosa che poi si sente nelle immagini. Il modo in cui si vestono, il modo in cui si muovono è anche un qualcosa di molto femminile, omoerotico. Molto strana tutta quest’aura intorno a quest’evento e credo sia questo che mi ha fatto venire voglia di fare questo film.
M.A.: Nei tuoi film spesso si ha l’impressione di avventurarsi in un limbo fatto di persone, azioni e paesaggi. Il tempo e lo spazio si fermano per funzionare con nuove regole a favore di questa bolla, questa serra, in cui il tuo cinema avviene. Questa sensazione viene generata dal caos o è frutto di una tua ricerca personale?
A.S.: Quello che a me piace è la sensazione di quei momenti in cui non sai bene in quale direzione si muoveranno. Credo sia la diretta conseguenza di come giro i film quando non so cosa sta accadendo. Gli attori anche non sanno molto perché non hanno letto la sceneggiatura. Mi piace girare così perché sembra che sta succedendo qualcosa come nella vita.
Di solito le persone fanno i film con tantissime idee. Cioè cercano di costruire tanti significati da queste idee disponendole in un certo modo nel proprio film. Ma io non faccio così. Ho sempre questa idea che il film si debba muovere in tempo reale davanti ai miei occhi e il contenuto del film non essendo ancora del tutto definito si inizia a fissare nella scena mentre sta avvenendo in diretta.
M.A.: Come nel teatro…
A.S.: Si… la fatalità del teatro. Certo in montaggio posso manipolare un po’ il tutto ma il mio obiettivo è quello di lasciare spazio a questa sensazione. Nessuno deve comunicare prima. Per questo motivo giro con tre mdp che lavorano in modo autonomo. Così ogni operatore ha libertà di movimento; senza grandi istruzioni deve ottenere la giusta composizione e questo significa che ogni mdp ha la sua personalità. Ed io sono lì che coordino e mi assicuro che non facciano tutti e tre il primo piano dello stesso attore. Questo modo di lasciare libertà alle mdp di cercare di interpretare la scena restituisce questa sensazione di cui tu parlavi. C’è dunque innocenza in questo inaspettato, ed è molto prezioso perché la maggior parte dei filmmaker lavora seguendo fedelmente uno script e preparando tutto affinché la scena venga fuori per come è stata ideata. Facendo in questo modo mi chiedo perché lavorare allora con la mdp? Se si utilizza una mdp vuol dire che c’è qualcosa di più davanti a noi delle idee che un’artista ha avuto. Nonostante io odi gli attori per quanto vengono pagati devono pure fare qualcosa di più di quanto ci aspettiamo da loro.
F.S.: Anche io ho la stessa sensazione di cui parlava Marco su questo vivo ecosistema, imprevedibile, presente in ogni scena dei tuoi film. Sembra che le relazioni che si instaurano tra gli elementi del tuo cinema siano destinate in un certo senso a morire. E tu filmi queste morti.
A.S.: Forse c’è un po’ di tristezza che provo. Perché in fin dei conti questi momenti magici, che si creano, si perdono facilmente. È un qualcosa di più originale della vita stessa come lo sono i sogni che facciamo. La magia non può durare per sempre, ma credo che l’intenzione rimanga.
E questo è il ruolo del cinema: creare mondi ideali, non reali. E’ questo, ed è riflettere sul tempo. Il tempo che va via, che sparisce. Non puoi catturarlo ma qualcosa rimane. Io ci provo sempre a manipolare il film per restituire questa sensazione. C’è bisogno in un film di qualcosa che faccia sentire gli eventi narrati più duraturi nel tempo, che questa sensazione sia più longeva.
Ma questa volta c’è qualcosa di più primitivo che ho filmato.

[1] The Dramaturgy of Presence, Cinema Comparat/ive Cinema · Vol. II · No. 4, 2014