65°Festival dei Popoli: Conversazione con Enrico Masi
Può un film o un documentario cambiare il mondo?
A cura di Edoardo Mariani, Sabrina Scansani e Marco Allegrezza
Come un fulmine folgorante, durante le giornate del 65° Festival dei Popoli abbiamo avuto la fortuna di vedere Terra Incognita, un film-trattato che affronta la questione ancestrale dell’elettricità come vita e della vita senza elettricità. Seguendo per anni il passaggio del tempo all’interno di una famiglia che vive isolata sulle Alpi, Enrico Masi pone una grande questione in un film antroposofico, mettendo a confronto la durezza di questa vita lontana dalla società e il lavoro sull’atomo.
(E.M.)
Edoardo Mariani: Si potrebbero fare infiniti discorsi su questo film, e per iniziare si possono dividere in due aree: una più pratica, quasi scientifica, della dimensione della telemacchina da presa, delle inquadrature, della dinamica filmica ed estetica… e un’altra sul Logos, aderente alla zona del parlare, dello scavare dentro alle cose. Le citazioni sono intrecciate insieme al suono del tedesco, del francese, addirittura del greco antico, siamo quindi in un contesto di estetica della parola, che si accosta a un’estetica dell’immagine. Il film racconta questi due spazi, due ricerche e poi all’interno di queste ricerche si ridivide ancora in altre questioni. Parlando di estetica dell’immagine, colpiscono sicuramente i panorami. Spesso non sembra la Terra. Ci sono tante inquadrature su cave di carbone, pianeti…
Enrico Masi: Diciamo che Terra Incognita è un Dune realista. La grandezza di Dune, secondo me, sono le location vere.
E.Mariani: E sappiamo che Dune non è un film girato su un altro pianeta, anche se lo sembra… almeno fino ad oggi i film sono tutti girati qui, da qualche parte. Parlando di location, con Terra Incognita ho avuto una sensazione extraplanetaria, di qualcosa di sconosciuto.
E.Masi: Le abbiamo cercate. L’altipiano di Tenerife che si vede in più punti è un altipiano di duemilacinquecento metri. L’isola si trova geograficamente in Africa, ma è in Spagna a livello amministrativo. Stiamo parlando di un vulcano di tremilasettecento metri che è il Teide, il più alto d’Europa, che rappresenta il simbolo del triangolo drammaturgico, formato dalle due grandi esperienze ossimoriche di cui parli, e da Solange (l’attrice che ha prestato la sua voce per il Voice over nel film, ndr.) come voce narrante cosmica, nel tentativo universale di unire il triangolo in una forma a piramide unica, come se il triangolo fosse un uno e non un tre. Bisogna sempre ricordare quella intervista di Pasolini che prima di morire diceva “io dopo la Trilogia della vita abbandono il tre e passo al due con Salò”. I film di Pasolini contemporanei sono pochi rispetto a quelli in costume. Dopo il Decameron, Canterbury e Mille e una notte, passa alle quattro megere. Noi abbiamo risolto con la voce narrante di Solange. Il tre è il Teide. Il Teide è la boa del viaggio dei viaggi, è il magma, il simbolo della comprensione della Terra. Franco Farinelli ne parla nell’introduzione ad Alexander Von Humboldt, saggio edito da Humboldt books, l’hanno chiamata Humboldt books, e non è massoneria o coincidenza. Lui lo chiama il viaggio dei viaggi: se tu parti nel 1799 da Marsiglia, durante la rivoluzione francese, hai trent’anni, sei prussiano, però di madre francese, tra l’altro tua madre di cognome fa Colòmb come Cristoforo Colombo… E Cristoforo Colombo chi è? Il Colombo che porta il Cristo, nome nomen, è la persona che è andata nell’America, poi misticamente finito in carcere e morto… tutto questo è Franco Farinelli: Guida al viaggio dei viaggi, che è un’introduzione alla vita di Humboldt. Il Teide, dicevo, è uno dei simboli di questi geografi, dell’esplorazione, esplorare come “exploitation”, “sfruttare”. Humboldt è partito e si è pagato il viaggio da solo, era un indipendente, non era al servizio di qualcuno. Non ha atteso il patentino di uno stato, lo fece per sete di conoscenza. Ci sono degli studi e delle ricerche accademiche che provano che Humboldt è Faust. Il Teide è la forma della drammaturgia, ma è anche una forma geografica. Nella nostra ricerca, soprattutto in quella di Tomas, c’è stata una tecnica di appostamento lunghissimo, quasi come un appostamento nei confronti di belve selvatiche. C’è chi lo fa per ucciderli e c’è chi lo fa per vederli e studiarli. Noi con le centrali abbiamo fatto questi lunghissimi appostamenti di studio delle luci. Siamo tornati tre volte in alcuni siti, e sono quaranta. Io ho vissuto in viaggio per quattro anni, e lì c’è anche il costo del film. Il costo di un viaggio in due, massimo tre persone. La forma triangolare del film è molto proporzionata. Lo sento quasi come un limite, perché è stata una decisione fatta insieme a Benni (Benni Atria, montatore del film, ndr.), che dopo aver visto la versione tre disse: “Io ci metterei le mani”. E Benni Atria è il co-creatore di Le quattro volte e di Il buco. Come Jacopo Quadri è il co-creatore di Sacro GRA. Come Kim Arcalli è il co-creatore del Bertolucci centrale (talvolta anche soggettista). Benni ha spostato la mia estetica. Con lui, siciliano, dell’età di mio padre, ci siamo legati tantissimo, abbiamo passato giorni di sola discussione, di discussioni godardiane. E ad un certo punto vai in sede di montaggio, che è una sede ateniese per noi di Caucaso, e monti con le mani. Quindi c’è l’intervento di Benni tra la terza e la quarta versione, e poi un intervento soltanto mio e di Carlotta della quinta. E la quinta cambia ancora, perché nella fisarmonica del montaggio anche tra la quarta e la quinta c’è una bella differenza, e anche tra la tre e la quattro è tutto stravolto. Non c’era Solange, per esempio. Nel nostro cinema la voce narrante è fondamentale.
Marco Allegrezza: Il film avanzava per ricerche, vuole cercare è un’antitesi, ma trova una sintesi forse al vertice della piramide, in quel vulcano. Ero curioso di sapere di più sul rapporto che hai avuto con questi personaggi, filmati in contesti molto diversi fra loro. Se è stato complicato, se è stato silenzioso…

E.Masi: Io sto scrivendo un manuale di cinema documentario per la UTET, e sono contento di questo perché mi permette di mettere in fila dei ragionamenti su quello che facciamo da molti anni, e il rapporto con i personaggi è proprio un capitolo. In questo caso c’è stato un avvicinamento metodologicamente abbastanza classico. Questo è il mio quinto lungometraggio, ma ho fatto anche altri mediometraggi e ho partecipato a film di altri come supervisore. Un conto è trovare i personaggi, ma prima del trovarli c’è la necessità del cercarli. E prima della necessità del cercarli, c’è probabilmente proprio l’idea, quella kantiana.
E.Mariani: Quando ancora non sai chi sono, come vivono…
E.Masi: Parlando concretamente: tu domani fai un film sull’Argentina. Perché? Perché mia nonna è Argentina. Va bene. Però perché vuoi fare un film? Posso scrivere un romanzo, che non interesserà a nessuno. Ma per fare un film devo aspettare dieci anni. Questo è l’inizio. Tralasciamo tutto questo enorme magma precedente e arriviamo al fatto che i personaggi li abbiamo trovati. Sembravano perfetti per quello che volevamo raccontare. Una famiglia che vive separata, lontana dalla strada. Ce ne sono diverse di famiglie così, ma non ce ne sono tantissime che non hanno un furgoncino che arriva davanti casa, ma devono camminare quaranta minuti nel bosco per arrivarci.
E.Mariani: Qui non c’è il furgoncino, c’è il cavallo.
M.A.: E l’abbiamo pure visto cadere.
E.Masi: Il mio relatore di tesi di dottorato, Luigi Guerra, diceva sempre: “il cavallo è tecnologia”. Alcuni si perdono nel parlare di internet e del problema della tecnologia per i giovani. Ma il cavallo è la tecnologia! E questi personaggi sembrano veramente delle stelle. È fortuna, è coincidenza, è un errore… è un film! È un film su di loro? Bene, andiamo avanti. La famiglia è una famiglia di tedeschi. Gerd portava Rudolf Steiner, Joseph Beuys, Goethe. Humboldt lo portavo io. Lui è Mefisto, non Faust. Faust è il giovane assetato di conoscenza che incontra Mefisto.
Siamo saliti in cinque sulla montagna, con le cineprese, con le ottiche, per fare quello che potrebbe essere un cinema d’antropologia. Alla Jean Rouch, alla Marker… più di poesia Marker, più di antropologia Jean Rouch. Un cinema d’antropologia ma nel pieno rispetto democratico dell’accesso in casa loro, con gli orari e tutto contrattualizzato. Il cinema è violentissimo a volte in questo senso. I tedeschi sono attentissimi: i minori, le bestie, c’era un’attenzione incredibile a tutto, che però si sublima nel concerto e in questi momenti che sembrano bucolici, che sono però cupi, perché siamo in una valle alpina. Non è la Sicilia. Qui parliamo di un posto dove in luglio fa freddo.

M.A.: Sono persone di natura, sembrano essere nati da quelle rocce, da quei boschi. Il calore lo tiri fuori davvero in quelle scene lì.
E.Masi: Sono tedeschi! Vengono da una popolazione dei boschi dove i romani non sono passati…Quella è stata la cosa più difficile: unire le culture. Noi italiani che andiamo dai tedeschi… c’era anche una complessità nel capirsi. Non capivano cosa interessava a noi. A me cosa interessava? Tu sei autore, Gerd (Padre della famiglia raccontata in Terra Incognita, ndr.) sei autore dei dialoghi, è co-sceneggiatore fino al Ministero. Ci sono state contrattualizzazioni, avvocati, studi… Io spero che non sia una delusione per voi, ma che al contrario sia utile per farvi capire che cosa c’è dietro. È stata praticamente un’operazione da major.
E.Mariani: Sono lontani dalla strada, dal mondo… e insieme c’è anche un discorso di accordi e contratti.
E.Masi: Sì, discorsi di carte, di firme, di dignità! È un processo lungo, durato un paio d’anni. Mentre facevi una scena o una cantata, loro ci chiedevano delle scene con i bambini. Per alcune hanno detto no, ed è stato molto difficile sostituirle dopo. C’è una parte più artistica, ovviamente, più estetica e filosofica, ma c’è anche una parte di fisicità corporea propria del documentario di antropologia.
Sabrina Scansani: Il primo incontro con loro come è andato? Hanno capito il senso del film? C’è stata una spiegazione, è stato un lavoro d’insieme fin dall’inizio?
E.Masi: Io avevo una cartina con una X segnata in rosso. Salgo un sentiero di quaranta minuti, arrivo su, e il più piccolo, con il cappello da elfo, mi scappa in mezzo ai rami. Li mi sono detto: “Questo è Captain Fantastic”. C’era di fianco a me Davide. Mi avvicino, veramente molto cautamente, in mezzo a questo bosco… ad un certo punto c’era una casa, con il fumo che usciva dal comignolo, alla Hänsel e Gretel. Ci avviciniamo, toc toc, esce l’orco? No, esce Anne, e le ho detto: “Scusi signora, parla italiano? Noi siamo artisti. Vorremmo fare un film sulla vostra vita.” Non ho tergiversato. Secondo me lei ha capito immediatamente, perché non mi sono posto come uno che andava funghi. Lei mi ha risposto: “Adesso Gerd tornerà.” Aspettiamo due ore, poi arriva Gerd e ci dice “tornate tra un mese.” Il mese dopo torniamo e camminiamo non quaranta minuti, come la prima volta, ma tre ore, per andare nella loro seconda casa, quella estiva, a millecinquecento metri, perché quella di sotto è a ottocento e quella sopra è a millecinquecento. Loro stavano facendo una transumanza di qualche animale. A novembre del 2020, in questo alpeggio estivo, ci siamo accordati. Tre ore, su e giù. Con tutte le emozioni di aver conosciuto chi hai conosciuto, e capire chi sono loro e chi sei tu, come parli, in che lingua. Ci abbiamo messo tre anni. Per un totale di diciotto salite, quarantacinque giorni. E nel mentre i ragazzi sono cresciuti. Da ottobre 2020 ad aprile 2023. Ogni salita è diventata uno spostamento di due-tre notti, perché ogni volta andavamo in cinque. Siamo arrivati ad andare su anche in nove…
E.Mariani: Il traliccio dell’inizio del film dove si trova?
E.Masi: Estremamente simbolico. L’unica scena in cui li abbiamo spostati. È la centrale di Caorso, una delle quattro italiane. Lì è la prima scena, da lì inizia l’ouverture. Si sente molto che c’è una messa in scena, tutto si gioca con la luce.
E.Mariani: Immagino che non l’avete girata come prima scena, forse è una delle ultime. Come se a un certo punto del film vi foste capiti, come se gli aveste detto: “voi siete la squadra senza elettricità e vi dobbiamo mettere vicini all’altra squadra.”
S.S.: Questa cosa è fondamentale, altrimenti forse si sarebbe perso qualcosa, sarebbe stato soltanto un fotografare la loro vita senza che entrassero davvero nel film. Gerd sembra aver capito perfettamente tutto, e conosce evidentemente anche a livello filosofico tutto il pensiero.
E.Masi: Gerd da un lato è molto più colto di me. Ha seguito Hegel come scelta di vita dopo aver studiato filosofia a Monaco, andando a vivere nella natura. È una di quelle persone, e ce ne sono poche, che ha preso una decisione radicale. E noi non siamo d’accordo su tutto. Probabilmente su niente. Però quando io dicevo Humboldt e lui mi diceva Goethe, finivamo a parlare di musica, di filosofia.

S.S.: Però lo scopo in un film è un altro. A un certo punto si deve girare.
E.Masi: Sai, quando fai un discorso sulla rivoluzione francese e Humboldt e una persona riesce a seguirlo, dopo un po’ arrivi a dire: “Facciamo una scena. Tu e Anne vi svegliate in un paesaggio post atomico con il giallo di Tarkovskij, e tu superi l’argine – che è un topos Bertolucciano e da emiliano, l’argine è l’antropocene ante litteram, è l’uomo che vuole mettere una barriera ai fiumi – e al di là dell’argine c’è il traliccio. Ma in realtà cosa c’è? C’è la realizzazione tecnologica o tecnocratica. L’uomo contro se stesso.
E.Mariani: Vedendoli, vestiti di pelli animali, con gli spaghi e le corde, sembrano che provengano dall’Ottocento, e quando vedi questa salita, l’argine… lo capisci subito che non esiste, che è uno spazio artificiale costruito lì per stare sotto a quei tralicci. E da un prato qualsiasi si arriva a questa immagine con cui inizia il film, e non è neanche prima del titolo, il titolo arriva dopo…
E.Masi: Il film è diviso in 7. Il titolo è tra l’ouverture e il 2, poi 1, 3, 5 e 7 sono il dato tecnologico, mentre 2, 4 e 6 sono la famiglia. Questo non è dichiarato nel film, tante volte abbiamo pensato godardianamente di mettere un titolo, ma Benni ha voluto dare questa sensazione di fisarmonica.
E.Mariani: Come a un concerto, quando si ascoltano tutti i movimenti, e c’è un momento di silenzio e poi si ricomincia.
E.Masi: Sì. La nostra è stata una scelta di fruibilità, perché siamo consci che si tratta di un film che richiede molto, ed è anche oscuro. È una concessione, quella della fluidità.
E.Mariani: Può farlo perché il film non è un libro e il fatto che non ci siano degli atti e dei capitoli non dichiarati fa sì che nei punti in mezzo ti ci perdi, si inizia e si finisce di nuovo. C’è giusto il titolo a interrompere un attimo, ma non c’è mai un’interruzione, come una panoramica continua. Iniziare da quel traliccio, poi non vederlo più, sentire la presenza dell’elettricità vicino a loro, come se quella rimanesse un po’ una visione, un’immagine-quadro con cui tu cominci tutto. Vedi la tecnologia del cavallo, la tecnologia degli strumenti musicali, tecnologia proprio nel senso dell’arte analogica, parliamo di corde, di vibrazione… è tutto un principio lontanissimo da quella visione della vita, e nello stesso tempo, avevi cominciato da questo scontro con l’elettricità.
E.Masi: Arriva Mefisto ambientato tra i tralicci. La gru torna su Mefisto. È salita nel primo piano sequenza, poi scende al tramonto su Mefisto-Gerd, che all’inizio non è truccato, poi lo si rivede truccato e diventa Mefisto. E sono contento anche che non si veda troppo che lui è un Mefisto. E lì lui fa la cosa del tag und nacht, come se dicesse: “voi umani potete solo avere questa semplice binarietà”. In questo momento si sente il nostro potere di autori, il nostro metterci, non dico sopra Mefisto, ma con Mefisto, nel dichiarare che noi abbiamo costruito un triangolo. Gerd ha funzionato come una trasposizione incredibile, perché dal documentario non passa soltanto alla finzione, che sarebbe semplicistico, ma passa al teatro classico, all’uso della maschera. Ci passiamo la maschera attraverso la cinepresa, poi con il testo, con Goethe, poi Gerd… Quando abbiamo cominciato Benni ha detto: “questo è un trattato, rendiamolo film”.
M.A.: Ci si potrebbe domandare se sia un po’ inaccessibile questa scelta dell’arte, della maschera, che irrompe. Secondo me funzionava molto. È una frattura, e non è completamente consegnata, ma era veramente una frattura, è durata pochissimo. Come un qualcosa che sembra un’allucinazione. Arriva questa cosa qui, shock e aura, poi torniamo all’elettricità.
E.Mariani: Come nella prima immagine con il traliccio, lì è lui che diventa l’elettricità vivente. È un film documentario sicuramente, ma è anche un saggio, e smontandolo e rimontandolo, probabilmente manterrebbe questa sua forma, perché anche solo mettere vicino questi due mondi è già una tesi. Se montassi un episodio integrale di tutta la famiglia dopo un episodio di tutte le centrali nucleari, invece di farli sparsi nella fisarmonica dei pari e dispari, resterebbe comunque quella cosa lì.
E.Masi: Però a me interessa qualcosa veramente di più sulfureo, di più sibillino, che in quel momento, come tu dicevi, non torna. E lì torna! Questo è trasmutato in Mefisto. È fondamentale, anche se di certo non è così esplicito. Però io faccio anche una critica, perché se tu vuoi colpire per cambiare il mondo partendo da noi, ci vuole l’accessibilità dell’agente inglese di Marlon Brando di Queimada, che è sempre un Mefisto. Il mio film preferito, e il mio prossimo obiettivo. È una trasposizione incredibile, un personaggio che si presta a un discorso metà storico, marxista, d’avanguardia, di attacco attraverso la narrativa.Nel nostro caso è un timidissimo approccio a questo tentativo, forse troppo sofisticato per fare la rivoluzione. Mentre l’agente inglese di Pontecorvo la fa. Noi puntiamo alla rivoluzione. Quindi se puntiamo alla rivoluzione, ti devi anche fare capire, perché un conto è parlare in un’aula universitaria, un conto è andare in un cinema, dove non sai chi ci sarà. Viva il popolo! Rispetta il popolo!, dice mio nonno.
M.A.: Su questo ho un appunto: nel film c’è un rigore massimo sia formale che contenutistico. Sembra che ogni inquadratura sia quella finale, perché ogni inquadratura ha una forma quasi perfetta. Formalmente il film è proprio della solennità, ribadita inquadratura per inquadratura. Mi fa pensare spesso, soprattutto nel cinema documentario, a questo binomio tra estetica ed etica. Ho visto poche volte raccontare un rapporto così intenso con i personaggi, anche i problemi, arrivare a quel punto significa rubare, inquadrare dentro un frame la vita di alcune persone che hanno un fare esotico, ma poi anche andare in sala, dimenticarsi del popolo e dire: “guarda che oggetto alieno che ho trovato in questa storia!” Rischiava di essere una crociera, passi e poi te ne dimentichi e vai al prossimo film. Qui invece ci sei stato dentro. E Gerd è anche autore, quindi è un confronto lunghissimo. Volevo chiederti di questo rapporto tra l’estetica e l’etica, nel filmare con le macchine da presa in questi posti con questi personaggi.

E.Masi: Io e Tomas (Tomas Rigoni, operatore, ndr.) siamo prima di tutto fotografi in medio formato, soltanto analogico all’inizio. Io da venti anni, Tomas da dieci. Siamo persone che per fare una fotografia ci mettiamo quaranta minuti. Etica ed estetica sono estremamente insieme, non c’è proprio nemmeno il dubbio nella nostra idea. Nel quotidiano è il frutto di un pochino di esperienza. Al quinto lungometraggio ti parlo dei limiti del fare l’inquadratura di un bambino a millequattrocento metri, davanti a una valle che non è della Provenza, quindi non ha quella lucentezza di calcare, di luce del Sud, che ti garantisce che tre foto su quattro verranno profonde. In quella zona una su quattro mi viene profonda, e quindi mi devo muovere diversamente. E questo lo so il giorno prima, il mese prima, la settimana prima. E poi quel giorno può piovere. E dopo la pioggia può venire la bruma più bella del mondo. Diventa una questione di pazienza, di attesa. Questa è esperienza. Noi abbiamo buttato intere sessioni. Ed è durissimo, non soltanto economicamente, ma anche personalmente. Perché tu in quelle sessioni hai dato te stesso. Quindi è molto doloroso. E qualcuno anche a livello produttivo può dire: quante volte esci? Eh, una in più. Rosi diceva che era stato nove mesi per capire dove si doveva muovere per girare Notturno, e poi è andato a girare in quattro settimane. Però gli ci sono voluti nove mesi per muoversi, per capire la differenza tra l’Iraq di una regione e l’Iraq di un’altra. Non si può andare solo in un pomeriggio. Il rigore della composizione sta nella ricerca fotografica che noi facciamo sempre durante i nostri viaggi, che questa volta abbiamo voluto riversare in una particolare tecnica e con delle particolari ottiche, arrivando fino al 35mm. Il trentacinque è talmente sacro che quando gira entriamo in un discorso analogico-digitale che secondo me è un po’ come l’atomico, è talmente grande… Però abbiamo anche tanto 16mm, che è un po’ come una matita, e poi 35mm che è un po’ più come una stilografica. E quindi lì c’è un rispetto anche ecologico. Il punto non sono i soldi da spendere sul 35mm, ma è cosa giri. Io giro poco in digitale, e in macchina ci sono sempre io insieme a due persone: Tomas Rigoni e Stefano Croci. Sono molto legato alla , ho lasciato il credito di montaggio a Benni e a Carlotta (Carlotta Guaraldo, montatrice, ndr.) pur avendo seguito anche il montaggio, stessa cosa anche per le musiche. La macchina da presa invece la rivendico, perché io sento a volte, guardando nella loupe, raramente, quando è cinema. Intendo proprio durante la scena, sento: “questa la monto”. È una sensazione, andrebbe studiata a livello psichiatrico. È un insieme di cose coreografiche, di respiro, di movimento.
E.Mariani: Un po’ come potrebbe accadere nel teatro, quando si provano delle cose costruendo una pièce, si trova quel gesto lì, che compriamo, mentre tutto il resto non lo teniamo. Ma serviva improvvisare, serviva stare lì per tenere quell’unico gesto e, piano piano, accumulare un po’ di gesti. Lo spettacolo intero non è che un’accumulazione di momenti, di cose sentite.
E.Masi: Di queste sensazioni purtroppo se ne parla pochissimo, e proprio della cinematografia se ne parla pochissimo. Com’è che Minervini e Rosi sono superiori? Ma proprio così tanto! Non so sia è evidente, per me è evidente. Perché? Ci sono dei motivi spiegabili, ma non volgarizzabili, spiegabili a livello di appostamento, anche di uso delle ottiche, perché comunque è un’arte posizionarsi con un’ottica, oltre che un tempo. Un cambio ottica è una performance, come accade in teatro, è un rischio da performer! Tu te lo prendi il rischio, sei un performer in quel momento lì. La cambio o non la cambio? Se non la cambio sarò limitato, però non interrompo. Se la cambio riesco magari ad avere un punto macchina che mi dà spazio, mi restituirà quella forma, ma sto interrompendo comunque una performance che incide. Quella scelta lì è completamente agonistica, come un pallavolista che si chiede: faccio il bagher o no? Identica. In questo senso sono molto morettiano, per quanto Moretti non abbia fatto tantissima cinematografia. In alcuni film sì, come Caro diario o Palombella Rossa, dopo praticamente più niente di cinematografico. E io in quello sono fanatico, sono fanatico di Angelopulos. Però etica-estetica, non un’estetica “art for art’s sake”, no un’estetica legata al tema, necessaria, come in una compresenza organica. Obbligatoria, derivata, una compresenza dipendente. Ma non al cento per cento! A prescindere! Dovrei decidere di slegarle. L’ho fatto raramente, mi state dando uno spunto di sperimentazione. Slegare etica ed estetica. Nel mio caso è così, anche per i maestri che ho avuto. In Eco non c’è questa domanda. È una bella domanda. Io ho altre domande. Chi sono i Rosacroce? Io vi ringrazio perché questo è il tempo dell’avventura del pensiero, quando tu riesci col pensiero a sentirti in pericolo e io cerco di vivere così. Non ci riesco sempre perché molte persone lo rifiutano per paura. Fa paura il pensiero. Fa paura pensare “ma io non so più dove sono nel film”. Quindi uno dice: “no va beh, dai, mi fermo, è un film sull’atomico, con una famiglia in un bosco. Ma stiamo parlando di altro, no? Questo è un film per chi ha voglia di spingersi in quel sentiero e di non dire “oddio, sono troppo lontano da casa”. A me piace molto spingermi.
S.S.: Vorrei chiederti una cosa riguardo al discorso del rigore. Quando ho saputo che c’erano cinque versioni mi sono chiesta quale fosse la necessità di farle. Adesso, parlando anche di rivoluzione, di popolo, mi sono chiesta se fossero effettivamente versioni. Forse sono cinque film? Tutto questo è parte di una ricerca filosofica, e non è qualcosa che si è fermato, perché non può fermarsi.
Magari si è fermata soltanto per una necessità di un agente esterno, come può essere un festival o una produzione, una scadenza.
E.Masi: Non so se hai fatto l’esame di filologia romanza italiana applicata. Io vengo dalla linguistica, vengo da Lettere. La filologia, ad esempio, l’editio princeps, Questa è l’edizio princeps? Non lo so. Oggi sì. Mi prendo io la responsabilità di dire che non sono film, perché il titolo è lo stesso, gli autori sono gli stessi e la volontà è la stessa, mi prendo la responsabilità di dire che sono versioni di uno stesso film. E c’è stata necessità sicuramente di qualcuno che lo voleva programmare. Però sì: uno, due, tre, quattro, cinque sono un movimento artistico, sinergico. Probabilmente la terza versione è molto oltre questa, ma siamo tornati indietro per andare in America e da Solange.
S.S.: Sono più direzioni dello stesso film.
E.Masi: E non è l’unica volta che questo succede. C’è anche un problema economico nel rimontare un film. Molto grave. Ma meglio non riaprire ora la questione del montaggio come riscrittura. Già la questione di etica ed estetica l’avevamo quasi risolta. È anche letteratura, sono versioni. Non ti dico che doveva andare così. Terra Incognita fa parte di un progetto per un trattato, è un film manifesto. Da un lato ci siamo presi anche il lusso di rimontarlo più di una volta fino ad arrivare alla selezione. Questo è importantissimo perché a volte si compie l’ultima versione sulla selezione, invece questa quinta versione è libera da selezione. Noi eravamo a Lione, si è fatta una proiezione decisiva nella città dei Lumière. L’abbiamo visto ed era finito, era chiuso. Però credo che sia responsabilità dell’artista, come un ingegnere che firma un ponte. Se l’artista mette quella firma è quasi tautologico parlare di quando finisce un’opera… perché non finirebbe mai. È tautologico dire che il ruolo dell’artista è quello di chiudere la versione finale, anche di iniziarla, certo, però di chiuderla. Tautologico nel senso di ovvio. In francese suona bene, infatti Maria Borsanti ieri ha detto così: “Hai trovato il film. Est-ce que tu as trouvé le film?” E quindi hai trovato il film? Io oggi dico sì, però ora penso ad altro. Ci interessa forse di più aprire la questione: “può un film o un documentario cambiare il mondo?” È un problema che ci sono quattordicimila iscrizioni al Sundance. È un problema. Ma fa parte della democratizzazione del mezzo. Quindi tu non puoi negarlo, non puoi dire i festival devono alzare l’iscrizione o accettare meno film. Non è questa la soluzione, siamo felici che ci siano quattordicimila film. Mentre Antonioni montava, Glauber Rocha nasceva, le generazioni esistono… Anche io con Benni, che ha vent’anni più di me, ha quella esperienza in più per dirmi “taglia questo, taglia quello”. Ma la domanda rimane: “il bracciante lucano, il pastore abbruzzese e la casalinga di Voghera capiranno questo film?”. È una domanda geniale che si pone Nanni Moretti in Sogni d’oro. E questa domanda dobbiamo porcela anche su Terra.
