FMK2024: Documentari e documenti
di Andrea Pastor
Lo scorso novembre è stato possibile, grazie a Filmmaker Festival – che si svolge da decenni a Milano, diretto da Luca Mosso – saggiare lo stato delle cose di un cinema irriducibile, indipendente, che solo superficialmente si potrebbe definire documentaristico. Certo, il cosiddetto (più di) reale è stato al centro di tutte le opere presentate nelle numerose sezioni, ma ad accomunare tutti gli autori presenti con i loro lavori, lunghi, corti, cortissimi metraggi (fra questi ultimi mi limito, per problemi anche di spazio, a citare solo Amerika, di Saverio Corti, tre minuti di allucinato paesaggio urbano newyorchese visto dalla metropolitana, un montaggio sinfonico, un b/n aurorale tagliato dall’occhio vorace di Trump), sono state, al di là dei singoli risultati, la ricerca e la sperimentazione di una nuova lingua.
“Dove sei?” aveva chiesto le Centre Pompidou a Carax commissionandogli una mostra – forse una Stanza in più stanze, come quella, indimenticabile, fatta abitare a Godard nel 2006? – all’interno della quale proiettare un suo mediometraggio col quale rispondere a questa, apparentemente anomala, domanda, motivata, probabilmente, dal constatare l’essere sempre altrove di Carax, il suo spiazzante indagare, in ogni film, le fonti, le origini del (proprio) gesto creativo, degli aritmici movimenti dei suoi attori, Lavant per primo, ondeggianti tra la statica e un’estrema, vitalistica cinetica. Carax ha risposto, nonostante il successivo ritiro del committente, il mediometraggio è stato realizzato e, dopo Cannes, è stato presentato a Milano, nella serata d’inaugurazione. Una doppia partecipazione al festival, la sua, però, un doppio guidarci al vedere, liberi da costrizioni. A precederlo, infatti, il corto Allégorie citadine, forse il lavoro più compiuto, fino ad oggi, di Alice Rohrwacher, firmato insieme all’artista JR, dove Carax interpreta quasi sé stesso, un regista di uno spettacolo di cui si stanno svolgendo le prove. Il film è una danse magique sulle illusioni legate alla caverna platonica, alle primarie ombre che hanno, forse, dato vita al cinema, alle sue illusioni mai perdute. È Carax, dietro le quinte, a parlare all’orecchio del piccolo protagonista febbricitante, che sta accompagnando la madre a un provino, a rivelargli, forse, il segreto, il modo di dare vita all’invisibile, di come liberarsi dalle catene e dalla schiavitù di una visione parziale. Il bambino, dopo essersi addormentato, svegliatosi (ma forse il sogno continua) esce dal teatro, e da solo, comincia, come non era mai riuscito a fare nessun altro bimbo nouvelle vague, a camminare per Parigi, a sfogliare, letteralmente, i muri, a strapparli come si strappano dei manifesti, anche là dov’è presente il divieto di affissione, a farsi lui stesso, animazione, a riconfigurarsi, rivelando ai passanti estasiati un’altra dimensione, altre visioni che si rifanno al cinema delle origini, un primigenio di là da venire, e da vedere…
In C’est pas moi, uno dei migliori film della rassegna, e dell’anno (e sul quale, peraltro, si è già soffermato su queste pagine Edoardo Mariani, in un denso e articolato scritto pubblicato a giugno), Carax si ricerca, come uomo di pensiero, come regista, come padre e come figlio. Pudeur et impudeur. Apparentemente sembra mutuare, introiettare, quasi far suoi, il pensiero e la scrittura che informano le godardiane Histoires du cinema, e persino la grafica inscritta nel nero, quella che scandisce il tempo della riflessione, quella che lega e separa i numerosi materiali che si affollano a intermittenza sullo schermo, sembra una mimesi… È sempre e solo apparenza, di fatto, quelle forme sono interiorizzate, è con quelle che dialoga con Godard, di cui fa ascoltare persino la voce in segreteria telefonica, e forse è proprio lui, tra i tanti padri che affollano il film, quello prediletto. È anche con lui che parla in off, è anche a lui, non solo allo spettatore, che si rivolge quando, sfogliando alcune foto alla ricerca del vero padre, fino a ritrovarlo, in un toccante “c’est lui”, riflette sulle immagini dei film più amati, su quelle dei grandi dittatori di oggi e del passato, o, quando ancora, dopo averci mostrato una ripresa fatta alla figlia, quand’era bambina e sognatrice, la ritroviamo, quasi a fine film, adulta, suonare il pianoforte, avvolta dalla morbida caméra de son père. Carax si cerca, anche attraverso di lei, tra un’immagine e un suono, negli interstizi tra passato e presente, tra estratti dei film più amati, frammenti YouTube, e sequenze inedite, cercando un’identità che nell’apocalisse del presente sembra essere svanita. Cosa significa essere oggi un padre e un figlio, un regista che non cessa di credere in un cinema capace di dare forma, magari anche disorganica, ad un reale che non sembra più potersi leggere, apocalittico, un “già visto” che sembra dettare le sue regole? È ancora possibile, magari con un cellulare, girare una soggettiva d’amore che possa restituire “l’occhio di Dio, o degli uomini”, quello che l’Aurora di Murnau permetteva, ad esempio, con le sue carrellate a seguire che sembravano umanamente impossibili? Molte le domande che ci vengono poste, le risposte stanno forse solo nel nostro sguardo, magari non interpretante, ma libero di fluttuare tra i significanti del film, in perenne ricerca del senso…
L’urgenza, parola spesso abusata, connota No Other Land, uno dei migliori film visti nella rassegna, proiettato fuori concorso, arrivato da Berlino – dove ha ottenuto due importanti premi, e dove i quattro registi, Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor, sono stati scandalosamente accusati di antisemitismo -, e da Lucerna, dove ha ottenuto un altro prezioso riconoscimento, film che da alcuni mesi è uscito, fortunatamente, anche nelle nostre sale, infine candidato all’Oscar. Una lezione di vero e di cinema inteso come gesto di ribellione, e riflessione insieme, non solo di militanza, dove le immagini, girate nel corso di più anni, in Cisgiordania, nel villaggio palestinese di Masafer Yatta – continuamente violato dagli espropri, dalla violenza della distruzione, dai bulldozer dell’esercito occupante israeliano, da una colonizzazione feroce e violenta – si coagulano, stratificandosi, grazie a un montaggio serrato e calibratissimo. La soggettiva, figura discussa, indagata da Carax, è qui predominante, fin dall’inizio, quando il palestinese Basel Adra, uno dei due giovani “protagonisti” del film, ci mostra, commentandoli in off, alcuni video girati nella sua infanzia, che già testimoniavano la violenza esercitata sugli abitanti del paese, e in particolare sul padre, da sempre un resistente irriducibile, riconosciuto come tale, dal piccolo, futuro cineasta, proprio grazie a quelle lontane immagini. Passato e presente, ancora, come in Carax, sguardi incrociati tra padri e figli, in antichi filmini commentati, ma con sguardi come “rovesciati”…Su Masafer Yatta, “set” natale, terra desolata in pieno sole, si concentrano, si focalizzano, per non (far) dimenticare, perché la memoria resti sempre fertile, i plurimi sguardi dei giovani cineasti, le loro telecamer(in)e, perennemente e rischiosamente in funzione, e questo quanto più la ferocia dei soldati israeliani si fa esplosiva e sistematica; ad essere rischiosamente filmati sono l’abbattimento continuo di case – prima distrutte, in pieno giorno, poi ricostruite, la notte, e poi di nuovo distrutte -, di scuole, i furti, gli espropri, e poi il taglio della rete idrica, i pianti e la rabbia degli abitanti, delle anziane donne, la repressione violenta degli improvvisati cortei di chi resiste, l’uccisione di chi si ribella. Materiale più che incandescente e drammaticamente attuale, un documentario che sembra totalmente privo di sceneggiatura, che sembra farsi sotto i nostri occhi, anche quando, ad emergere, è il sorgere, e l’intensificarsi, di una intensa amicizia tra i due “protagonisti”, due attivisti, Basal, il palestinese, e Yuval, un giornalista israeliano che, “imparando l’arabo”, ha “preso coscienza”, decidendo di solidarizzare attivamente con il popolo oppresso. E col suo amico. E sono proprio le sequenze che li vedono insieme, nel loro filmarsi e farsi filmare al momento di riprendere la violenza dei coloni e dei colonizzatori – per poi magari scambiarsi il reciproco girato, da condividere e da diffondere nei social o in televisione -, sono i loro scambi di sguardi, il loro dialogare, il loro confrontarsi notturno sulle reciproche differenze, sulle loro diversità – uno, l’israeliano, naturalmente, è libero di attraversare la frontiera, di tornare a casa la sera, l’altro è condannato a restare nella sua terra martoriata – a dilatare il senso del film, a dargli una ritmica toccante, là dove la parola, l’ascolto, il rispetto dell’altro e della sua diversità, le dolenti veglie notturne, “infrangono”, morbidamente, il tessuto connettivo dell’opera, intrisa, quasi nella sua interezza, di cieca violenza, e di disperazione.
Sull’ascolto, sulla visione dell’ascolto, è fondata una delle opere più radicali viste al Festival, già trasmessa, recentemente, in una delle notti di Fuori orario, Un documento, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, reduci dal loro film forse più bello, il lunghissimo Bestiari, Erbari, Lapidari (peraltro, quest’ultimo, analizzato e discusso nella conversazione con i due registi, pubblicata su filmcriticarivista l’ottobre scorso). Tre sedute di psicoterapia, a distanza di una settimana l’una dall’altra, condotte all’ospedale Niguarda di Milano, nel centro di Etnopsichiatria, da uno psichiatra e da una psicoterapeuta. La telecamera è fissa, nella stessa posizione, per tutta la durata del film, ci sarà solo, e non a caso, un cambio di asse nella seconda (di fatto, nel reale, la terza) seduta, per marcare probabilmente il venir meno della distanza tra il paziente e i terapeuti. La luce è piatta, naturale, non ci sono preziosismi e il benché minimo intervento sul cosiddetto profilmico, ad essere inquadrato è un ufficio, pressoché spoglio. Solo due medici, un uomo e una donna, che interloquiscono con un paziente che non viene mai mostrato. È il fuori campo il protagonista assoluto del film, abitato da un ragazzo africano immigrato, che ha subito molti traumi, al limite dell’inenarrabile, prima e dopo la traversata che gli ha permesso di arrivare in Italia, è la sua voce a dargli un corpo, un’immagine. Accanto a lui, “complice”, dall’altra parte dello schermo, nell’invisibile che, man mano che le sedute si intensificano, riesce a diventare dicibile, e a dare consistenza e spessore a chi non viene filmato, una mediatrice culturale, che traduce dal francese. Sono solo i due medici a guardarlo, ad ascoltarlo con la massima attenzione, riuscendo, ogni volta, a trovare la parola giusta, precisa, a sorridere, o a fare un cenno del capo, per far capire che sono con lui, che lo stanno accogliendo, che lo vogliono aiutare a sbloccarsi, a rievocare un passato fino ad ora trattenuto, quello che incide sui suoi sogni incubi, che mina il suo quotidiano. Stanno lavorando per fargli vedere un altrove, un futuro possibile, un lavoro, fino a suggerirgli, nel finale del film, ma non della terapia, di entrare a far parte di una squadra sportiva, affinché possa ritrovare un suo tempo, un suo spazio relazionale, che lo aiuti a rientrare “in campo”. Un materiale conservato per alcuni anni e che solo oggi vede la luce, una telecamera che solo superficialmente potrebbe essere percepita come “di sorveglianza”, di fatto uno sguardo che, forse, come un terzo occhio, contribuisce alla cura, pur se apparentemente “neutrale”, asettica, glaciale. Un altro cinema è possibile. Lo spettatore, mentalmente, è nella zona che separa i corpi, ai bordi dello schermo, nell’ascoltare ci si sente testimoni, inevitabilmente anche empatici, di una frattura, di uno scarto che si cerca di colmare, perché pur essendo “obbligati” ad osservare solo i due medici volontari, che devono sanare le ferite probabilmente mai insanabili, allo stesso tempo non possiamo non immaginare, e immediatamente identificare e “riconoscere”, l’ancora “invisibile”, che però c’è, che esiste, in un fuori campo che si fa lentamente, ma con precisione quasi chirurgica, oltre che “affettiva”, un territorio e un umano da esplorare, da rivitalizzare, da curare e “salvare”, da far riemergere da una zona morta che sembra averlo definitivamente sommerso…
E a proposito di visione, e di sguardo, solo apparentemente neutro, non posso non ricordare Tardes de soledad, il primo, e forse destinato a restare l’unico, documentario di Albert Serra, da sempre singolare e quasi misterico cantore di un tempo e di uno spazio sospesi, tra vita e morte, e eros. Ho poco da aggiungere a quello che in queste pagine è già stato scritto, molto recentemente (non posso che rimandare alla lunga e densa conversazione con Serra, fatta da alcuni redattori della rivista, al Festival dei popoli di Firenze, in occasione della prima italiana del film). A essere stavolta quasi totalmente fuori campo, in questo “documento”, è il pubblico della corrida che assiste fisicamente, dalle tribune, a un rituale di carne ed sangue, a una danza cruenta tra il matador e il toro. Vediamo, grazie a Serra e alle sue quattro telecamere, quello che nessun spettatore, della corrida, e della corrida al cinema, ha mai potuto minimamente osservare. Non c’è giudizio, solo l’uomo e la bestia, già ferita in partenza, che gronda sangue e che mira al rosso. Non c’è virtù, forse “valore”, nei due corpi filmati, spesso in campo controcampo, che sembrano incrociare i propri sguardi, prima di “aggredirsi”. L’attesa della morte sembra dettare il montaggio. L’estremo, più che materico, realismo di questa lotta, un crudele pas à deux, si stempera, a volte, nella stilizzazione e nella più totale “libertè” di sguardo; entrambi i contendenti sembrano non solo volersi sopraffare l’un l’altro, ma lottare per essere ripresi, per riempire, con la loro feroce presenza, col loro agire ossessivo, l’inquadratura. Serra non ci permette, giustamente, di giudicare, ma “solo” di vedere in eccesso: con un limpido, sempre mobile e catturante, e rapito, uso dello zoom, ci fa essere lì, in queste arene, tutte uguali, senza nome, set di duelli all’ombra che paiono frutto di un’allucinazione. Il torero, Andreas Roca Rey, protagonista pressoché assoluto, più che essere un corpo, o una figura, soprattutto quando è catturato dai primi o primissimi piani, si mostra come una macchina (umana?) dominata, quasi invasata, dall’ossessione; l’espressione bruciante dei suoi occhi, spesso dilatati ma anche “ottusi”, non sembra tradire emozioni, sembra muoversi esclusivamente in funzione del suo essere lì per (darsi a vedere nel) dare, e nel rischiare, a sua volta, la morte… Ed è proprio il rischio la matrice del film, sia dell’azione, sanguinosamente “inebriante”, di Roca Rey, che del gesto, spiazzante, disorientante, di Serra, capace di rendere quasi trascendente, nella sua matericità comunque estrema, lo spettacolo dell’agonia, e dell’uccidere. A contrappuntarli mirabilmente, senza che il senso, apparentemente, si arricchisca, un inquadratura, ancora una volta documentale, sempre la stessa, il matador e i suoi assistenti sul bus in trasferta, ripresi frontalmente da una macchina fissa, che registra le loro parole, il loro commentare le varie fasi del “gioco”, volte a rinforzare una identità, quella del protagonista, che sembra dispersa, sempre mancante, sempre, più che innaturalmente, votata al sacrificio…
Ripenso, infine, alla proiezione più dolce, più commovente e commossa, e più limpida, del festival, a Filmstunde_23. Ripenso a Edgar Reitz, che dopo 55 anni torna a scuola. Con le sue ex allieve. Era stato un anomalo professore nel 1968. In un corso di carattere sperimentale per studentesse aveva loro aperto gli occhi come nessun altro docente era riuscito a fare. Aveva loro insegnato le principali nozioni del linguaggio cinematografico, a guardare diversamente il reale, a far lavorare il loro immaginario, a usare delle telecamere per filmare, in totale libertà, pezzi di vita familiare, riprese in strada, piccole fiction girate “in famiglia”. Il tutto era stato ripreso in un film in b/n, registrando, il più fedelmente possibile, le lezioni, le discussioni collettive, compresi gli entusiasti, gioiosi, stupiti sguardi in macchina delle allieve con la (piccola) macchina da presa, e poi le reazioni, a lavori ultimati, dei familiari, delle autorità. Un pregevolissimo materiale resistente, che poneva, già da allora, questioni didattico- politiche sulla necessità di insegnare il cinema in tutte le scuole “di ogni ordine e grado”, materiale che Reitz ha conservato per decenni. Ma c’è il colore, fin dall’inizio, e il passaggio del tempo, il ritorno. Perché il grande cineasta ha organizzato un rientro in aula. Le allieve sono cresciute, invecchiate, felici di questo loro re-incontro, di riabbracciarsi e di ritrovare, dopo tanti anni, il loro primo maestro, di rivedersi e di rigustare, probabilmente per la prima volta, o come se fosse la prima volta, la loro creatività, il loro riflettere sulle proprie immagini, il loro riflettersi come “imago” di un passato da non dimenticare. Dopo essersi, all’inizio del film, rimesse in posa, davanti alla scuola, in una delle sequenze più emozionanti, per una fotografia, immagine tempo che vorrebbe duplicare quella scattata decenni prima, su quella stessa soglia, mantenendo le stesse posizioni di allora, le ex allieve rientrano sul set. Reitz, che non è mai stato un “accademico”, nemmeno in quel remoto passato, e che è diventato, nel frattempo, uno dei più grandi registi contemporanei, è nuovamente accanto a loro, anziano e magari un po’ affaticato, a (far) ripensare, come sempre collettivamente, a quelle lontane immagini, sempre presenti. Le singole ex filmmaker rievocano, con commozione, quelle felici ore di apprendimento, inserendole nel contesto di allora, senza nessuna retorica o nostalgia (perlomeno apparente) di un’esperienza che comunque ha segnato la loro vita. Dopo il congedo vediamo Reitz, di spalle, andarsene, camminando lentamente sul marciapiede, non ci si può che chiedere se la sua destinazione non sia un’altra Heimat, da cui farsi abitare, in un cinema che verrà…
