Per Stefano
di Paolo Vernaglione Berardi e Daniela Turco
Paolo Vernaglione:
Di Stefano era la dolce disponibilità a condividere piccole esperienze di cinema. Ed era contagiosa. Quei momenti diventavano, parlando e riflettendo insieme, grandi momenti di visione.
Erano rari quegli incontri, quando venivamo con Daniela a Genova, ma a casa sua o in un bar, in un tempo sottratto ad impegni noiosi compressi in 2-3 giorni di visita, con lui si recuperava il senso dello studio e della ricerca.
Era un erudito Stefano, che conosceva il cinema a fondo e a menadito. Memoria prodigiosa, passione per il dettaglio, sguardo acuto che penetrava le immagini per restituirne un senso periferico. Questa la sua pratica critica avvolta in una densa leggerezza di parola. La sua risata era istantanea e avvolgente, quello che diceva delle immagini faceva dell’accademia un’antiaccademia sensibile, una naturale sovversione del preteso senso cruciale da trovare in un film, uno scenario, una sequenza. Lavorava invece sui margini, sulle difficoltà, sui limiti e sulle microfratture che producevano voragini quando parlava di cinema, e quella difficoltà si avvertiva nella sua vita, la faticosa tessitura periferica di un senso che gli e ci sfuggiva…
Su un letto, a casa, ingaggiammo una partita a dama. Giocava come un boa constrictor. Con lui non c’era partita. Ad un certo punto non si riusciva più a muovere un pezzo. Vinceva senza vincere Stefano. Vinceva perdendo, ma nel suo fallimento c’era una potente resistenza ai tempi malvagi, alla vita normata, ai desideri frustrati di una generazione e mezzo – che la scrittura e la critica delle immagini riscattavano in parte.
Il suo sapere enciclopedico aveva nel discorso il tono nietzscheano della dismissione della parola istituzionale, che suscitava una invidia competitiva che lui, più o meno consapevolmente innescava e che un attimo dopo faceva esplodere nelle risa di diserzione, nell’accordo istantaneo che insieme si provava.
Tralasciava di proposito le occasioni creative e lavorative e forse, in misura meno feroce, anche questo condividevamo: un certo modo autodistruttivo di vivere che, più inconsapevole che certo, era un gesto di resistenza al mondo infame delle merci e delle professioni, dei ricatti e dell’uso dei corpi.
Sapevamo che non era sempre stato così. Che una piega di rivoluzione l’avevamo cucita e che la passione per le immagini era, ed è ancora per noi, tutto il potere all’immaginazione.
Viveva l’uso dei corpi Stefano, ma non ne rivendicava, se non forse per sè stesso, l’esperienza. Questo almeno era ciò che la lontananza ci faceva pensare di lui. Piuttosto, con lucida determinazione, come noi ma tagliandosi più a fondo, si faceva il suo film.
La lezione implicita del suo essere è che nessuna parola è vera se l’immagine che annuncia non ti ferisce, se non ti ha già attraversato, se non ti riguarda in un’attesa che ha una doppia versione, nativa e terminale. L’opera e le voci, Sirk e Fassbinder, le passeggiate e le traversate, questo manca ora di Stefano, ma questo è il bello di alcuni e di alcune che non vogliono finire quanto hanno iniziato e che forse per questo ottengono il privilegio di una permanenza.
Daniela Turco:
Non avrei mai voluto scrivere queste righe, eppure con un grande peso nel cuore, mi trovo a riordinare i ricordi di più di trent’anni per scrivere di Stefano Paba, prematuramente scomparso all’inizio di ottobre: un amico, un critico e un appassionato studioso di cinema e non solo, qualcuno di davvero raro da incontrare, capace di lasciare un segno, anche in chi lo conosceva solo superficialmente.
In Stefano si avvertiva subito una sensibilità acuta, inquieta e la presenza di una cultura che non esito a definire straordinaria perché abbracciava molti campi diversi, cinema, musica, letteratura; era impossibile trovare Stefano impreparato su qualcosa, eppure, nonostante la sua evidente eccezionalità, non si comportava mai in modo arrogante, era invece gentile, generoso, aperto…
Gli sono ancora riconoscente per il suo aiuto fondamentale qualche anno fa, mentre stavo scrivendo una monografia su Vincente Minnelli, per avermi fatto avere diversi film del regista presi dal suo archivio, condiviso con il fratello Marco, vasto e impressionante per la quantità di film rari o introvabili lì raccolti. E ricordo con grande malinconia che una volta terminato il libro, venne con me a presentarlo alla biblioteca Lercari di Genova, alla presenza di altri amici e amiche lì riuniti, in una giornata dolce di settembre.
Entrambi ci eravamo trovati in anni diversi – Stefano era di otto anni più giovane di me – a seguire le lezioni di storia e critica del cinema di Maurizio Del Ministro al Magistero di Genova, era stato Andrea Pastor, amico di entrambi, a farci incontrare alla fine degli anni ’80. L’amicizia, il cinema, i libri, la provenienza da famiglie difficili, era quanto aveva spontaneamente legato me e Stefano, e anche se in seguito vivevamo in città diverse – mi ero intanto trasferita a Roma – il dialogo tra di noi continuava comunque, e nonostante il suo lavoro di conferenziere sulle navi da crociera lo portasse in tutto il mondo, ci scrivevamo e ci sentivamo sempre, quando fra un viaggio e l’altro sbarcava a Genova.
Così, negli anni scorsi mi arrivavano ogni tanto i suoi aggiornamenti su un libro che da tempo aveva in mente di scrivere, uno studio teorico sul primo piano al cinema anche se il testo definitivo sarebbe stato molto più articolato, me ne aveva inviato alcune parti perché le leggessi. Come per tutti i suoi scritti, si trattava di un approccio profondamente originale e pensato, che tra l’altro chiamava inevitabilmente in causa la pittura, ma per spingersi oltre, con una strumentazione sottile, psicoanalitica, indispensabile per rivolgere un’interrogazione tanto profonda al mondo delle forme. Ricordo di averlo incoraggiato il più possibile ad andare avanti con il libro, gli dicevo di approfittare dei giorni liberi sulla nave, per chiudersi in cabina a scrivere, perché ero assolutamente convinta che il suo era un modo diverso e inaugurale di entrare dentro un film, con la freschezza di un taglio teorico sperimentale …. Ora, forse, quando lo strappo della perdita si farà meno crudo, dei vari frammenti di quel libro non finito, come di altri scritti portati invece a termine da Stefano, si potrebbe pensare di farne qualcosa, un libro, come testimonianza sia pure tardiva del suo pensiero.
Appena un paio di anni fa, nell’autunno del 2022, Stefano mi aveva proposto un progetto da portare avanti insieme: un libro a nostra cura composto di sole interviste con Agnieszka Holland, regista molto amata da entrambi, che avremmo dovuto coinvolgere alla prima occasione; allora pensavo che prima o poi avremmo trovato il tempo di farlo, ma mi sbagliavo. Mi viene in mente una frase, prelevata da Senso, che Stefano ripeteva spesso, molti anni fa: solo ora, non domani….
Degli ultimi giorni di Stefano in ospedale, difficili, dolorosi, ma anche pieni di tenerezza, mi è rimasto impresso un libro di Ian Penman, Fassbinder, migliaia di specchi, un regalo di suo fratello Marco, posato sul suo comodino, e ancora uno scambio di parole tra di noi, la voce di Stefano ormai ridotta a un sussurro, mentre i suoi bellissimi occhi, vivi, attenti, continuavano a dire tutto…
Stefano aveva scritto per Filmcritica per diversi anni, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, prima che il suo lavoro sulle navi lo allontanasse dalla rivista; ho scelto per ricordarlo qui un suo testo dedicato all’ultimo film di Joris Ivens, Une histoire de vent, dove si parla del vento, del respiro, della morte e di una nuova nascita…