I migliori Film del 2023
Luigi Abiusi
In ordine sparso
Pacifiction di Albert Serra
La Chimera di Alice Rohrwacher
Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto
L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice di Alain Guiraudie
Cerrar los ojos di Victor Erice
Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Eureka di Lisandro Alonso
Perfect days di Wim Wenders
Foglie al vento di Aki Kaurismaki
Tre film vituperati ma per me bellissimi:
Misericordia di Emma Dante
Finalmente l’alba di Saverio Costanzo
The Palace di Roman Polanski
Marco Allegrezza
Una manciata di confetti di diverso colore e sapore. L’anno passato vola via lasciando spazio al giovane nuovo arrivato, restano però sospese delle scie luminose, tracce volatili o piume che si librano in cielo.
In ordine sparso:
- Green Border di Agnieszka Holland & Nuit Obscure – Au Revoir Ici, N’Importe Où di Sylvain George
Il silenzio di una preghiera, il sangue di una ferita ricorrente. Imparare. A vivere. E a filmare.
- Perfect Days di Wim Wenders & Cerrar los ojos di Victor Erice
Un film smette di essere un film quando inizia a essere vita. Piena di esistenza ed esistenze, angeliche, liriche, amichevoli e amorose. E l’amore resta un “privilegio raro”?
- As bestas di Rodrigo Sorogoyen & Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi & Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto
Cavalli, cervi, uomini, ombre incendiarie e demoni si tingono di rosso. Il candore esiste, è fragile e timido, e si nasconde. Una stella alpina piantata su di un terreno di guerra. Invasi ed invasori state molto attenti a non calpestarla, potrebbe essere l’ultima.
- La Bête di Bertrand Bonello & Conann di Bertrand Mandico
Cari Bertrand, le vie della fantasia sono infinite. Inquadrature come pagine, sequenze come periodi, film come manoscritti. Di che genere? Nessuno o, sicuramente uno ancora da inventare.
- Invelle di Simone Massi & The Plough di Philippe Garrel & Bonjour la langue di Paul Vecchiali
Babbo, babbo, il tuo ricordo resterà per sempre? Anche quando non ci sarò più? Varrà lo stesso per tutti gli altri?
Il padre risponde che sta lavorando da un’eternità per un’eternità, intima ma collettiva, mai individuale.
- Deep Sea di Tian Xiao Peng & Spider-Man: Across the Spider-Verse di Joaquim Dos Santos, Justin K. Thompson, Kemp Powers
Animati da sentimenti e sensazioni sensazionali diverse, due estremità di un fulgido baratro mai visto. Un buio abbagliato da miliardi di render con infinite gradazioni di pigmento, stupore ed estasi. Superate più di mille siepi, vinta ogni olimpiade, l’olimpo dell’animazione è conquistato.
- Do Not Expect Too Much from the End of the World di Radu Jude & Tatami di Guy Nattiv, Zar Amir Ebrahimi
Cinema o politica, che dir si voglia. Che esso o essa, possa esser fatto a colpi di finzione o di realtà ripresa, sempre dolore o benevolenza può arrecare.
Ceci n’est pas une caméra. Mais une locomotive contre l’injustice.
- Daaaaaalí! & Yannick di Quentin Dupieux
Passeggiando trai sogni ho conosciuto due persone particolari. Erano divertenti, eccentriche, a volte antipatiche, ma molto tenere. Ancora ci penso, purtroppo non le ho più riviste. Spero di poterle incontrare di nuovo un giorno, o queste o di nuove. Sempre sognando, e, sorridendo.
- Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese & AGGRO DR1FT Harmony Korine
Ma non è cambiato niente dall’ultima volta? Perché dopo tutto questo tempo ancora si muore? Sembra essere da sempre così. Possono cambiare i tratti somatici, i luoghi, i colori ed i formati, ma su questa terra la gente continua a morire.
La Storia non esiste,
se esiste nessuno la conosce,
se qualcuno la conosce allora fa finta di niente.
Fucking humanity.
- L’Envol di Pietro Marcello & Snow Leopard di Pema Tseden & Samsara di Lois Patiño
Una realtà bagnata di magia è un racconto favolistico, etereo e intangibile, con dei personaggi in carne ed ossa, e degli habitat riconoscibili e familiari. Come si definisce una poesia? A volte basta un lieto fine e l’incertezza di non aver compreso, ma la sensazione di aver vissuto. Una barca salpa altrove, un leopardo torna in libertà e a Zanzibar le spiagge ci fanno ricominciare da capo.
Sergio Arecco
(usciti in sala, in ordine alfabetico)
Anatomia di una caduta di Justine Triet
As bestas di Rodrigo Sorogoyen
Il cielo brucia di Christian Petzold
Foglie al vento di Aki Kaurismäki
Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
Il maestro giardiniere di Paul Schrader
Povere creature di Yorgos Lanthimos
Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh
Terra e polvere di Rui Jun Li
Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras
Alessandro Cappabianca
Fairytale di Aleksander Sokurov
Magic Mike. The Last Dance di Steven Soderbergh
Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Rapito di Marco Bellocchio
Master Gardener di Paul Schrader
Io capitano di Matteo Garrone
I limoni d’inverno di Caterina Carone
Ferrari di Michael Mann
Cerrar los ojos di Victor Erice
Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
Massimo Causo
Foglie al vento di Aki Kaurismaki
Rapito di Marco Bellocchio
Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Il cielo brucia di Christian Petzold
Trenque Lauquen di Laura Citarella
Ritorno a Seoul di Davy Chou
As bestas – La terra della discordia di Rodrigo Sorogoyen
Bussano alla porta di M. Night Shyamalan
Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
Godzilla Minus One di Takashi Yamazaki
e anche
Unrest di Cyril Schaublin
La chimera di Alice Rohrwacher
Hokage (Sjadon of Fire) di Shinya Tsukamoto
In disordine e sulla linea di un cinema che tiene la posizione di chi sta nel gesto filmabile della vita (Kaurismaki, Scorsese, Tsukamoto, Schaulin, Yamazaki, Sorogoyen), di chi guarda la trasparenza dell’essere presente al tempo (Rohrwacher, Chou), di chi confonde magnificamente il tempo e la narrazione (Citarella, Abbruzzese), di chi guarda la fine del mondo e vede la vita (Shyamalan, Petzold). E infine di chi cristallizza e purifica il pensiero rendendolo qualcosa di filmabile (Bellocchio).
Simone Emiliani
Ferrari di Michael Mann
Foglie al vento di Aki Kaurismäki
Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Rapito di Marco Bellocchio
Air. La storia del grande salto di Ben Affleck
As Bestas di Rodrigo Sorogoyen
La chimera di Alice Rohrwacher
Il cielo brucia di Christian Petzold
John Wick 4 di Chad Stahelski
DogMan di Luc Besson
Serie
Succession di Jesse Armstrong
Film streaming
Maestro di Bradley Cooper
Edoardo Mariani
(i film qui presentati sono tutti posti al primo posto e non si vorrebbero fare distinzioni e classificazioni basate sull’ordine, quindi i titoli sono stati messi in ordine alfabetico considerando la prima lettera del primo film in questione).
AGGRO DR1FT di Harmony Korine
« Come si fa ad avere così tanto e così poco », perdendo i confini di ciò che è reale e ciò che è digitale, nascono mostri e characters indefinibili, senza madre né padre, ma con un destino sacro e preciso davanti, quello di far esplodere gli schermi.
A longa viagem do ônibus amarelo di Júlio Bressane
Le foglie sui pavimenti
delle case in Brasile,
un segno sacro
di come la natura
stessa,
madre nostra
ci vuole ricordare,
e in qualche modo
santificare,
nella nostra mortalità.
Il vento non si sbaglia,
mai,
e le direzioni che ci vengono indicate,
sono le nostre scelte.
Linee sciolte
divagazioni,
mondi possibili
di un’unica vita possibile,
ahimè, quella che stiamo,
qui e ora, spendendo,
vivendo, disseminandoci,
nello spazio e nel tempo.
Come le foglie,
in autunno,
come le stelle,
nella notte di San Lorenzo,
cadiamo continuamente,
nei vuoti che riempiamo,
d’amore, di risate
e di vino.
Bye Bye Tibériade di Lina Soualem
« Non so come si vive un lutto…So come si diventa madre, ma non so come si perde una madre ». Negli archivi dolci di una giovane autrice si nascondono immagini di un passato che non potrà tornare, di luoghi che non esisteranno più, e il cinema rimane l’unico testimone di questa Palestina scomparsa.
Conan di Bertrand Mandico
La politica è un veloce cambio di colori, di ritmo, di attori e attrici, di personaggi, di anime, di scenografie, di sceneggiature e di mondi, tra una scena e l’altra. « Stai diventando un angelo della Storia. Uccidere la propria giovinezza è il colmo della barbarie ».
Eureka di Lisandro Alonso
I film devono viaggiare ed essere un viaggio, permetterci di trasmigrare lo spazio del corpo. « Ricordati una cosa : SPAZIO, NON TEMPO ».
Film annonce du film qui n’existera jamais: « Drôles de Guerres » di Jean-Luc Godard
« È difficile trovare un gatto nero in una camera buia, soprattutto se non c’è » Sentimento. Passione. La mia esperienza sono i miei ricordi, e tornarci con l’immaginazione sono i miei viaggi in cui mi avvicino ai miei fantasmi, ai miei maestri del passato. I ricordi sono la cosa più personale che esiste e attraverso la quale possiamo unirci condividendoli con gli altri.
Nu astepta prea mult de la sfârsitul lumii (Do Not Expect Too Much From the End of the World) di Radu Jude
È meglio non sapere come si fanno i film e adoperarsi direttamente per fare il cinema. La testimonianza non deve essere una denuncia drammatica, non deve con il punto di vista rappresentare una denuncia, ma deve essere una poesia contemporanea che, insieme alle altre testimonianze, compone una lettera di speranza verso il futuro.
Orlando, ma biographie politique di Paul B. Preciado
A cosa dovremmo riferirci se abbiamo piuttosto voglia di rigenerarci ? « Il cambiamento di sesso e la migrazione sono le due pratiche che, rimettendo in questione l’architettura politica e giuridica del colonialismo patriarcale, mettono un corpo umano vivente nei limiti della cittadinanza ». Qualcuno certe cose doveva pur dirle.
Qīngchūn (Jeunesse) di Wang Bing
« I cani abbaiano alla Luna, e intanto la carovana passa ». Chi si ferma vede il mondo dal suo punto di vista, unico e lento, ma vero e sincero. Gli esseri umani non saranno quelle macchine per le quali non sono stati creati.
Samsara di Lois Patiño
« Mi disse che quella era per lui l’immagine della felicità. E che provò ad associarla ad altre immagini, ma senza riuscirci. Mi scrisse: un giorno la metterò da sola all’inizio di un film, con una lunga pausa nera all’inizio. Se non si troverà la felicità nell’immagine, almeno si vedrà il nero » dall’inizio di Sans Soleil di Chris Marker, che resta un indicazione sempre presente nei film che descrivono questa Terra come un “pianeta senza confini”.
Yannick di Quentin Dupieux
Ma se nessuno pensa più alla classe operaia, allora chi ci pensa alla classe operaia ?
« Potrebbe succedere il finimondo da un momento all’altro! » o come diceva Pier Paolo Pasolini « la cultura è una resistenza alla distrazione ».
Zielona Granica (Green Border) di Agnieszka Holland
I film sono ancora uno spazio dove si può dare voce a chi è disperso, senza destino, senza una casa, con la sola speranza come carburante della propria sopravvivenza. Si tenta in ogni modo di parlare della crisi migratoria, quando è il sistema tutto ad essere in crisi, e se qualcuno vuole aiutare il prossimo, che lo/la si lasci in pace a fare del bene.« Non dobbiamo tirarci indietro, se siamo uniti e restiamo umani, potremo accarezzare il sogno dell’utopia sociale. Vi auguro di avere il coraggio di restare soli e l’ardimento di restare insieme, sotto gli stessi ideali. Di poter essere disubbidienti ogni qual volta si ricevono ordini che umiliano la nostra coscienza. Di meritare che ci chiamino ribelli, come quelli che si rifiutano di dimenticare nei tempi delle amnesie obbligatorie. Di essere così ostinati da continuare a credere, anche contro ogni evidenza, che vale la pena di essere uomini e donne ». (dalla lettera di Mimmo Lucano alla comunità di Riace).
Andrea Pastor
Ha ancora senso stilare una classifica dei dieci migliori film dell’anno a febbraio, quando, in ogni dove, on line o meno, fino a fine 2023 e oltre, tutti coloro che scrivono sul cinema hanno già elencato, più o meno motivandole, le loro scelte?
Credo di sì, perché, al di là del ritrovarsi, anche qui, scriventi e lettori, uniti o separati nelle scelte, al di là che sia giusto, almeno una volta all’anno, perlomeno, nominare i film che riteniamo nostri, anche e soprattutto quelli, magari, ‘mancati’, quelli sui quali non si è avuto modo di scrivere nei mesi scorsi, penso non sia mai troppo tardi accedere alle visioni, le opere sono sempre quasi tutte recuperabili, in qualche sala, o piattaforma, i film sono in qualche modo quasi tutti nell’ ‘aria’, e possono e devono continuare a nutrirci, a riposizionarci, a eccederci, a farci parlare con loro, a farci ripensare, anche e soprattutto in questo inizio d’anno, ancora funestato da stragi, da guerre, da orrori, da censure di ogni tipo, e durante il quale continuiamo ad essere violati da immagini che mai avremmo voluto vedere, o rivedere…
E non può dunque che essere la morte, quella più o meno violenta, mostrata come tale o magari magistralmente racchiusa in una ellisse, o in un raccordo, o nel fuori campo, a far trasudare, a far respirare, a dare ritmo e senso ai film più vitali visti l’anno scorso, o recuperati o rivisti in questi giorni, a quelli che più ho amato e che continuo ad amare..
In cima alla classifica non può che esserci Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
che mi sembra contenere in sé quasi tutti gli altri, perché potrebbe comunque esulare da qualsivoglia classifica.
Scorsese finge di raccontare, epicamente, un brano di Storia che sembrava dimenticato, per comporre una sinfonia sulla nozione di verità. Scolpita tra la luce e il buio, il colore e il bianco e nero, tra cieli muti e silenziosi e terre desolate, la violenza, o meglio il gesto di uccidere violentemente, che ha sempre scandito il tempo della narrazione nella maggior parte dei suoi film, qui è come riconvertito. Non basta il Capitale a dettare la legge, non basta il colore nero dei soldi, delle ricchezze da ereditare, a motivare le innumerevoli morti violente che scandiscono questo nuovo capitolo della sua filmografia, quella che mi appare sempre più, se colta nella sua interezza, come una lunghissima, sperimentale, parabola sulla caduta e resurrezione del cinema classico, rilanciata di film in film. L’ambiguità resta la matrice delle tre ore e trenta circa di durata, e il dubbio permane, resistente, anche se il Bene e il Male sembrano essere mostrati come tali. Il punto di vista appartiene quasi sempre, coraggiosamente, al personaggio ‘negativo’ incarnato da Di Caprio, alla sua fisiognomica che può sembrare grottesca, ma che di fatto è l’esplicitazione di un maschile infantile e come regredito, al limite dell’animalesco, ingrugnito, incarognito, più che precocemente segnato, anche nel volto, dalla guerra, da ciò che ha visto prima del film, da quello che probabilmente lo ha reso una Maschera, una sorta di tragico automa, serial killer di corpi e anime, in primis della donna che ama. Mai burattino nelle mani dello zio King De Niro, ma un departed che sembra condannato, lontano dai campi di battaglia, alla menzogna, al dibattersi continuo tra il generare nuove vite, e il dare compulsivamente la morte, dominato da un’onnipotenza disperata e impotente, così come (im)potente è lo stesso spettatore del film, che vive nel ‘nero’, nel buio, anche quando ci si trova in esterni, in piena luce: ci si interroga continuamente sul nome da dare al legame con la nativa che decide di sposare, ci si continua a interrogare, da quel primo loro incontro fino all’ultimo, sulla verità o meno del suo sentimento…fino al processo finale (ben più stilizzato, duro, teso, preciso, di quello tanto celebrato nell’inerte Oppenheimer), chiusura tragica di una parabola criminale e disperata, là dove ai dialoghi e ai campi controcampi serrati, tra il re maledetto e il suo principino – quasi due raffigurazioni, delle pratiche autoriali e attoriali – leitmotiv che scandiscono le varie fasi del narrato, si sostituiscono le urla insostenibili di un dolore senza nome, dietro le sbarre, gli ‘Yes Sir’ nell’aula del tribunale, davanti all’occhio della camera, mai giudicante, ma che si fa implacabilmente fissa, quasi a voler ‘inchiodare’ colui che ha deciso di dire, per la prima volta, il vero, prima della più che flagrante apparizione dello stesso Scorsese, nella finzionale, straniante, messinscena di un radiodramma, solo da ascoltare, anche con gli occhi..
seguono, in ordine, come quasi sempre, sparso :
Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Mi è sembrato, finalmente, dopo molti anni, di veder ritornare Moretti ai fulgori di Palombella Rossa, premio Filmcritica a Venezia, là dove si giocava la solo apparente morte dell’ideologia e di una narrazione lineare. Qui un film fiabescamente politico, che si sta girando e che subisce delle interruzioni, alternato, come in un sogno, a quello ‘con canzoni’, che si desidererebbe girare, esulando però dalle facili formule del metacinema. Etica ed estetica del (proprio) cinema non solo più giocosamente, ma anche malinconicamente, enunciate, ma didatticamente rimesse in scena a partire da più lutti. Scene da un matrimonio che sta finendo, prima che si consumi il distacco definitivo, all’ombra della morte del grande partito, girate su differenti set, in un gioco di finzioni che odorano di vero, fino alla circense parata finale, ad un saluto in macchina rivolto al suo spettatore, che torce la disperazione in un sorriso quasi gioioso
Patagonia di Simone Bozzelli
Credo sia superfluo, dopo la recente intervista fatta al quasi esordiente Simone Bozzelli, ritornare a parlare di quello che considero, insieme a L’expérience Zola di Gianluca Matarrese, e al sole morettiano, uno dei pochi film italiani che mi hanno parlato, e non poco, nello scorso anno. Un amore disperato, venato di sadomasochismo, che si consuma fra le ceneri di un passato che non c’è, che è come azzerato, fra due giovani uomini, due orfani, che si cercano, si desiderano, si negano, si autodistruggono, si ritrovano, dopo un incendio visto da vicino, incerti tra moto e stato in luogo. Nel nome del padre scomparso si ascolta insieme un disco, si celebra l’immaginario, il sogno di un luogo destinato a restare un impuro significante, sia pur impregnato d’amore
Perfect Days di Wim Wenders
Anche in questi, sublimi, giorni che sembrano perfetti, il protagonista sembra non possedere un passato, sembra vivere, sentire, muoversi, solo nel presente della proiezione, in un quotidiano solo apparentemente sempre uguale, fatto di risvegli, di brevi percorsi in macchina per raggiungere i luoghi di lavoro, di ascolti di canzoni su nastro appartenenti a un passato più che remoto, così vicino e così lontano, di meticolose pulizie di gabinetti pubblici architettonicamente esemplari, di foto scattate alla luce che trapassa tra il fogliame di un ‘albero della vita’, di letture che accompagnano al sonno, al sogno. Tutto sembra scorrere e ripetersi uguale ma, impercettibilmente, tutto, ogni giorno, cambia, si trasforma, e gli stessi brevi incontri, compreso quello finale, con l’ ‘altro sé’, che sembra riflettersi e rispecchiarsi nel nostro occhio, nel lungo, dolce ed estenuato primo piano che chiude il film, nella loro evidenza e trasparenza, celano segreti legati a un passato indicibile, e forse, anche qui, come in Patagonia, legato a un nome del padre che non si può più nominare…A custodire questi non detti e non visti, solo lo sguardo protettivo e accogliente di Wenders, che sembra proteggere la sua creatura, che sembra vegliare un corpo e uno sguardo, un sentire, un vedere che non possono che rimandare al nostro essere soggetti di percezione, di contemplazione, in perenne ‘falso’ movimento ..
Poor Things di Yorgos Lanthimos
Dovrò forse rivedere i precedenti film di Lanthimos, dovrò forse ricredermi. Non avendo mai amato il suo cinema, da sempre vissuto come ermetico, cinico, congelato e grevemente simbolico, è stata una vera e propria sorpresa trovarmi ad ammirare il suo ultimo grande film. Belle. Un corpo femminile immediatamente, fin dal suo apparire in scena, differente, mutante, frutto di innesti su un quasi cadavere che non vuole morire, che si fa macchina desiderante sotto i nostri occhi, imparando a camminare, a parlare, a dare voce alle sue pulsioni naturali e quindi fuori norma, fuorilegge, a trasgredire naturalmente, e con gioia, le regole del gioco di un’epoca che è tutte le epoche, in uno spazio tempo che le permette di uscire dalle gabbie paterne, da un utero in bianco e nero, oscillante tra il gotico e il surrealismo, quasi lynchiano, per farsi (e darsi al) colore ritrovato, saturo, fiabesco, in una Hollywood da c’era una volta, in una Lisbon story dove poter ascoltare un canto che arriva da vicino, e che mette la sordina ai rumori di una città Oz, che forse non c’è. E’ all’ombra assolata di quel canto, che Belle apprende a godere sessualmente, a danzare, a continuare un viaggio che la porterà su una nave querelliana, bagnata da una luce colore che non nasconde il referente fassbinderiano, in una Parigi innevata, in un bordello dove, sia pur per necessità, poter sperimentare altre pulsioni, altri piaceri, dove continuare a ridefinire le sue vampate d’amore. Non sono solo i suoi consueti fisheyes, i grandangoli esaspera(n)ti, a espandere il senso del film, sono gli zoom, le violente zoomate sul suo corpo in godimento, sono i dettagli sulla sua carne, a hardizzare l’immagine, a farle sabotare i generi, in un eccesso che non chiude mai il perimetro dello schermo, e che lascia continuamente spazio all’imprevisto, al fuori campo, in una raggiunta libertà, di Belle, del suo regista demiurgo, per la prima volta, mi pare, un autentico, compagno di sguardo, capace di esaltare l’occhio, e il cuore, dello spettatore
Pacifiction di Albert Serra
Non c’è racconto, sono solo le atmosfere, il climax, i colori infuocati dei tramonti sul mare, quasi ruiziani, sono le immagini di un paesaggio finzionalmente turistico, sono le voci quasi sempre sommesse di un ‘alto commissario della Repubblica’, perennemente vestito con un completo bianco, quasi un simulacro del durassiano ‘ viceconsole’, sono i corpi seminudi dei nativi all’interno di un bar discoteca spettrale, mostrato come un allucinato paradiso infernale, più ancora che artificiale, immerso nel neon, a darci il senso di un film dove i non detti, i non visti, lo spiato, l’indagato, lo stravisto da un binocolo, lo straudito complotto, in stato di alterazione, in un campo da gioco di notte, che odora di lager a venire, ci fanno continuamente temere quello che forse (mai) avverrà, forse un esperimento nucleare, o un conflitto bellico, un golpe, o solo i titoli di coda…Una lezione politica di cinema ultrasensoriale
Ferrari di Michael Mann
Un’altra, emozionante, sorpresa, il film più anomalo e rischioso di un regista adorato dai più e col quale non mi è mai riuscito, pienamente, di conversare, escluso Miami Vice. È ancora e sempre la morte a dettare il montaggio implacabile, ma anche meditativo, del film. Un anno, una vita di un uomo che sembra, tramite i suoi piloti cavalieri dell’apocalisse, rivaleggiare continuamente, essere in gara, con se stesso, oltre che con le scuderie rivali. Non alla terra né al denaro né al cielo sembra mosso il suo guardare dietro gli occhiali neri, e forse è solo un nero sole a farlo muovere, tifare in silenzio, cercare di dare energia a chi corre e va a morire, e a uccidere, senza volerlo, in suo nome, nel nome ancora una volta di un Padre di più figli, perennemente alla ricerca, roboante e incalzante, e inesausta, del proprio essere che non c’è, che si affanna affinché il suo (cog)nome non si volatilizzi, che si muove da una casa, da una famiglia, da una pista all’altra, in un allucinato e iperrealistico incedere circolare, marcato, all’inizio e alla fine, dal suo dialogare col figlio prematuramente scomparso, in un cimitero realisticamente quasi immaginario. Mann convive col suo non eroe, gli dà forza, energia filmica, ancora una volta la vita sembra essere contro la morte, il cinema ‘contro’ la televisione e le radiocronache, il colore contro il bianco e nero di un cinegiornale simil ouverture scorsesiana. Un Mann più libero del solito, meno programmaticamente astratto e sperimentale, compone qui la sua opera più libera, infuocata, e allo stesso tempo oscura, impenetrabile.
Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto
Non mi sembra di poter aggiungere niente di più alla quasi esaustiva lettura che ne fece, su queste pagine, Daniela Turco, da Venezia
John Wick: Chapter 4 di Chad Stahelski
…perché impuro cinema sperimentale travestito da ultimo, forse definitivo, episodio di una saga sulla morte e su un quasi morto al lavoro, destinato ad uccidere chi, per denaro, fa di tutto per annientarlo, perché si allontani definitivamente dalla propria immagine. John Wick come un Cavaliere pallido che, in tre capitali diverse, in tre set al limite dell’onirico, molto spesso all’interno della stessa inquadratura, senza stacchi di montaggio, finge, ben più che iperrealisticamente, come in uno stato di allucinazione lungo quasi tre ore, di mettere ko chi lo vuole definitivamente gettare fuori campo. Geometrie forsennate, massima iperstilizzazione che sembrano, ad una visione superficiale, parafrasare l’estetica del videogame, di fatto, immerse in una strepitosa colonna sonora, mai di solo accompagnamento, concretizzazioni di un materiale bruciante, di un immaginario seriale che lotta fino all’ultimo per non dissolversi, così come fa tutto il cinema che non si stanca di permanere, di rimandare il momento del the end, quello con cui si chiude, peraltro, più che misteriosamente, il Killer film di Scorsese, là dove i titoli di coda sono singolarmente omessi, nella loro interezza.
The Palace di Roman Polanski
No, nessuna traccia trash, nessuna eco dei cinema dei, sia pur amati, fratelli Vanzina, in questa sarabanda terminale e politica, dove le servitù si affannano a (non) seguire les régles des jeux, in questa Mascherata che non può che rimandare, nel suo essere luttuosamente vertiginosa, spiraloide, alla comicità, sempre segretamente e vertiginosamente anche tragica, di Blake Edwards. Nell’albergo di montagna, dove l’anno duemila va a morire, il libero scambio tra le attrici e gli attori, stars dal trucco esasperato, che le rende spesso al limite del riconoscibile, e gli incalzanti, frenetici, movimenti di una camera irriducibile, e più che resistente, di una steadycam intrusiva ma anche cinicamente, e grottescamente, critica, che sa sempre trovare la distanza giusta da questi corpi e carni in decomposizione, è più che incessante. Il cadavere occultato di un anziano miliardario che viene truccato e posizionato su una carrozzella per (non) fargli vedere i fuochi artificiali, per non dare a vedere agli altri il suo essere diventato quasi una salma, è l’esplosiva metafora e metonimia dello sguardo e della sapiente scrittura filmica di Polanski, qui coadiuvato, nella stesura del scénario, da un vitalissimo Skolimowski. Unità di luogo, tempo e azione, dove l’irrealismo impregna le gag fino all’ultimo respiro e inquadratura, fino agli straordinari titoli di coda, là dove il biancore accecante di una finta neve arriva a coprire l’imago dell’albergo. La risposta sulfurea ad una sola domanda, quella di un passato mai abbandonato: Che?
rimangono purtroppo esclusi, da questa classifica, compilata in questi giorni, alcuni film molto amati: Green Border di Agnieszka Holland, As Bestas di Rodrigo Sorogoyen, Knock at the Cabin di M. Knight Shyamalan, The Killer di David Fincher, Magic Mike – The Last Dance di Steven Soderbergh e il già citato L’expérience Zola di Gianluca Matarrese
dedico queste righe all’amico scomparso Paul Vecchiali pensando al suo film postumo, Bonjour, la langue, presentato al festival di Locarno, già recensito sulla rivista da Francesco Scognamiglio. Sono sicuro che, se l’avessi visto, avrebbe, ancora una volta, rivaleggiato, nonostante il parere di Paul, che non amava Scorsese, con i killer che tanto continuano, ad ogni visione, a incantarmi.
Bruno Roberti
(5 Visioni oltre)
Cerrar los ojos di Victor Erice
Hokage (shadow of Fire) di Shn’ya Tsukamoto
A longa viagem do onibus amarelo + Capitu e o Capitulo di Julio Bressane
Las poetas visitan a Juana Bignozzi di Laura Citarella
Pacifiction di Albert Serra
(in sala)
Perfect Days di Wim Wenders
Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki
Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
As Bestas di Rodrigo Sorogoyen
Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi
Magic Mike-The Last Dance di Steven Soderberg
Knock at the Cabin di M. Night Shyamalan
The Palace di Roman Polanski
Rapito di Marco Bellocchio
Spider-Man: Across the Spider-Verse di Dos Santos, Powers e Thompson
*ho considerato Wenders e Miyazaki del 2023 secondo l’anno di uscita internazionale
(Bonus fuori lista)
Ferrari di Michael Mann
Le vele scarlatte di Pietro Marcello
Close di Lucas Dhont
Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone
Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Le grand chariot di Philippe Garrel
Anatomia di una caduta di Justine Trier
Napoleon di Ridley Scott
Foglie al vento di Aki Kaurismaki
The Killer di David Fincher
(ai festival)
Menus Plaisirs: Les Troisgros di Frederick Wiseman
The Caine Mutiny Court-Martial di William Friedkin (Venezia)
L’experience Zola di Gianluca Matarrese (Venezia)
Green Border di Agnieszka Holland (Venezia)
Saz-e dahani (Armonica) di Amir Naderi (Venezia)
Sidonie au Japon di Elise Girard (Venezia)
L’homme d’argile di Anais Tellenne (Venezia)
Hit man di Richard Linklater (Venezia)
This Is the End di Vincent Dieutre (Palermo Sicilia Queer Filmfest)
House di Amos Gitai (videoinstallazione Venezia Biennale Architettura)
Francesco Salina
Oppenheimer di Christopher Nolan
Killers of the flowers moon di Martin Scorsese
Priscilla di Sofia Coppola
Francesco Scognamiglio
Summer Grasses, all that’s left of warriors dreams: Do Not Expect Too Much from the End of the World di Radu Jude e Perfect Days di Wim Wenders
I rami appaiono nelle sfere di cristallo: Evil does not exist di Ryusuke Hamaguchi, The Plough di Philippe Garrel
Sistemi e buchi neri: Spider-Man: Across the Spider-Verse di Joaquim Dos Santos, Justin K. Thompson e Kemp Powers e Shadow of Fire di Shinya Tsukamoto
Sorveglianti dell’umanità: Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese e Incident di Bill Morrison
Fa troppo male il ricordo della mia vita: Cerrar los ojos di Victor Erice e Samsara di Lois Patiño
Il collasso delle ombre: La Bête di Bertrand Bonello e AGGRO DR1FT di Harmony Korine