Costruire in mezzo al vuoto
Appunti a partire da un film di Julio Bressane su Antonioni e Hitchcock più una nouvelle di Raúl Ruiz
di Giovanni Festa
Davanti a me ho due testi e un film: Todas las nubes son relojes di Raúl Ruiz, meravigliosa nouvelle di detection (su cui si basa l’omonimo film del 1988) scritta da Ruiz come se fosse uno scrittore giapponese che non esiste, Eiryo Waga; i due brevi capitoli de Los pixels de Cézanne dove Wenders parla di Antonioni; e il film-dittico di Julio Bressane (montato insieme a Rodrigo Lima) Antonioni/Hitchcock. A imagem en fuga. A volte fra testi apparentemente lontani esistono relazioni nascoste. Somiglianze di famiglia. Vediamo, in questo caso, quali potrebbero essere.
Il film di Bressane è un saggio che associa, montandole una dopo l’altra, sequenze dei film del maestro italiano con altre di quello inglese. Il risultato è sorprendente, e sottolinea la capacità, da parte del montaggio alternato, non solo di articolare spazi simultanei o destini che si biforcano e intersecano, ma di suggerire affinità elettive fra film di due autori diversi che diventano due volti della stessa medaglia-cinema.
Altro aspetto interessante del film di Bressane è che le scene non sono tutte ad alta qualità: la maggioranza sono copie in VHS, e in alcune di esse, come la sequenza di Psycho che apre il film, l’immagine è rigata, sfarfalla, aggiungendo, per così dire, il pathos del supporto a quello della trama, rivelando che ogni riproducibilità tecnica è caduca e che, in un certo senso, il nastro ha una grana che il tempo mette a nudo. Collasso delle vecchie videocassette, che ci affrettiamo a digitalizzare, tristi simulacri transitori del tempo che fu…
Il montaggio non riguarda però, solo le immagini, ma l’intera dimensione audiovisuale: la lingua (vediamo intersecarsi l’inglese con l’italiano), i suoni e i dialoghi che appartengono ai diversi film-universi e che entrano così in comunicazione. Non si tratta solo di immagini, ma di tessiture complesse che interrogano anche la memoria dello spettatore il quale, grazie al montaggio, vede di nuovo tutto per la prima volta, e a sua volta compie composizioni personali (magari, come è successo a me, immettendo frammenti del cinema di Bressane: – A Agonia insieme a Psycho, Garoto con Deserto Rosso), o finalmente, comprende perché la sequenza di The Birds dove si vede l’incendio dall’alto sia l’unica intrusione di un film altrui in A Longa Viagem do Ônibus Amarelo: perché non si tratta di una sequenza tratta dal film di Hitchcock, ma dal film di Bressane A imagem en fuga.
Vediamo così, ad esempio, la famosissima scena di Cary Grant/Roger Thornhill che attende qualcuno nel mezzo del deserto in North by Northwest. Per la prima volta mi rendo conto che si tratta di una delle sequenze più potenti mai girate non su un uomo che aspetta (è il lato, se vogliamo, legato al destino come macchina infernale), ma all’essere umano inerme davanti ad uno spazio desolato e alla sua potenza. Solo che Cary Grant non osserva questo paesaggio desertico come fa, per esempio, il contemplatore romantico con le solitudini nordiche. Osserva meccanicamente l’orologio, è nervoso: se l’europeo del secolo XIX scivola nell’assenza di durata per precipitare nell’istante dove tutte le coordinate collassano, per il nordamericano del secolo XX la vita è innanzitutto un problema di tempo che manca. Cos’è che vede Roger Thornill? Una palizzata sbilenca; pezzi di terra desolata (compie un giro del corpo di 360 gradi per osservare quello che c’è alle sue spalle: solo che quello che si trova davanti a lui e quello che c’è dietro, sono la stessa e identica cosa); un cartello sul nulla; la strada viola e grigia, dove passano poche auto lasciando dietro di loro un vortice di polvere. Poi, il taglio: vediamo Richard Harris/Corrado Zeller di spalle davanti al lago nella boscaglia di Deserto Rosso: l’essere umano e lo spazio naturale; poi Monica Vitti che osserva la barca con la bandiera gialla: come Thornill con l’aeroplano, la barca è satura di sventura (a bordo c’è il colera). Taglio.
Segue un’altra sequenza, dove vengono montate insieme le immagini delle rocce dell’isola rosa sempre in Deserto Rosso (come non pensare a quelle di Garoto e di São Jerônimo? C’è tutto un pensiero della roccia nel cinema di Bressane) con quelle del Monte Rushmore in North by Northwest: il passaggio è da forme delicatamente biomorfe, naturali, simili a carne o argilla rosa cotta al sole, che, come nella Terra dei Tarahumara di Artaud, “cantano”, a quelle antropomorfe, scolpite, dei profili dei potenti: in mezzo alle prime, il corpo, purificato, riposa; addosso alle seconde il corpo, issato, è in pericolo. All’azione implacabile segue il tempo sospeso: c’è, qui, tutta la differenza fra quella che Ruiz chiamava conflicto central y escenas mixtas, fra un cinema che si basa sul conflitto di desideri opposti e sull’azione implacabile e un altro che si basa su un lento deambulare dove la radice conflittuale è dimenticata per perlustrare una zona vacía.
Todas las nubes son reloj è un racconto di ficción especulativa che, dietro il tema criminale, elabora una complessa meditazione sul vuoto basandosi sulla dicotomia proppiana fra “orologi” ossia sistemi regolari, e “nubi”, sistemi altamente impredicibili. La protagonista, Ikiko Narusse, deve controllare se la disposizione degli oggetti in una villa semi-abbandonata divenuta set cinematografico risponde a quella stabilita dallo scenografo, il maestro Miyata. La collocazione è basata su un punto sovrano: quando si è trovato questo luogo, “tutti gli oggetti distribuiti in maniera apparentemente eterogenea costituiscono un unico oggetto, invisibile e trasparente”. L’importante non sono però gli oggetti, ma l’aria che circola tra di essi, meglio, il vuoto “la forma cubica che si forma allontanando oggetti e scolpendo uno spazio quadrato”. Ruiz-Waga racconta che Ikiko procede sempre allo stesso modo: prende diversi oggetti a caso e li predispone prima uno contro l’altro; poi ripete il vuoto nelle zone dove il conflitto è maggiore; alla fine, accade qualcosa di simile e opposto a quella rara epifania che si sperimenta davanti a un’anamorfosi: se il soggetto si posiziona in un certo angolo, non vede altra cosa che il vuoto; se muove leggermente la testa, ecco riapparire gli oggetti eterogenei, disposti secondo la legge sublime del caso. Nell’anamorfosi accade qualcosa di simile: si passa dall’oggetto “confuso” (che Lacan chiamava “il pane da due libbre di Dalì”) alla visione chiara, il teschio, la morte, che l’oriente sostituisce, appunto, con il vuoto.
Impossibile non convocare, a questo punto, una sequenza di Antonioni, da L’Eclisse, assente nel montaggio di Bressane. Vediamo Monica Vitti/Vittoria, mentre, con gesto automatico e annoiato, cerca di disporre un nucleo di oggetti di forma curiosa, secondo un ordine diverso, dietro una cornice vuota, per poi abbandonare il lavoro a metà. È come se Vittoria prima volesse “toccare con mano”, scoprire, manipolandolo come farebbe un’artigiana, il complesso di operatività di alcuni oggetti casuali e, nello stesso tempo, carichi di una certa aura (allontana, mentre tenta questa composizione l’oggetto più banale, il posacenere, ricoperto di disgustosi mozziconi) per poi rendersi conto dell’inanità del compito. Sartre suggerisce che ogni oggetto, ogni utilizzabile, rinvia ad un altro utilizzabile. Questi rinvii non possono essere colti da una coscienza puramente contemplativa: per essa il martello non rinvia ai chiodi ma è posto soltanto accanto ad essi.
È come se Vittoria sperimentasse il suo intorno non come spazio strumentale di oggetti utilizzabili, ma come luogo svuotato di progetti operativi, dove ogni oggetto è, semplicemente, posto di fianco all’altro, sconnesso. È quello che capita all’Angelo della Malinconia di Dürer: sparsi disordinatamente al suolo giacciono una serie di oggetti enigmatici che hanno perso ogni orizzonte di uso. Le cose rivelano sempre ai personaggi di Antonioni una sorta di resistenza, una, si può dire, crisi di operatività. E il mondo, invece di essere il luogo di itinerari, di progetti operativi – direbbe De Martino – di atti possibili o attuali, diventa improvvisamente, e in modo misterioso, una totalità non utilizzabile, una presenza terrificante e immediata di fronte alla coscienza gettata o lasciata sola.
Da un lato Vittoria, la ragazza occidentale che non riesce a utilizzare operativamente la costellazione di oggetti che la circondano e li costringe nello spazio chiuso di una cornice; dall’altra Ikiko, la sua controparte orientale che cerca un vuoto centrale a partire dal quale l’eterogeneo ritrovi un senso e un destino; da un lato un gesto (che è anche un pensiero) che avvicina e orienta imponendo collegamenti, dall’altro un gesto che allontana scolpendo il vuoto. Alain Bergala, in un testo molto denso intitolato “Le ipotesi del cinema oggi” uscito nella rivista cilena El Resplandor, accenna proprio a questa differenza fra oriente e occidente, quando monta insieme tre sequenze di tre film molto diversi, due americani e uno orientale, caratterizzati tutti da un incontro amoroso dove un uomo e una donna sono divisi da un oggetto centrale: un tavolo da ping-pong; uno di biliardo, uno di un caffè; nell’ultimo caso, quello del film orientale, la macchina da presa rivela la presenza fuori campo di un terzo personaggio, che stava tra i due che credevamo soli ed era rimasto occulto. E associa questo gesto ad una pittura cinese (probabilmente San Shui di epoca Song) dove, al centro, c’è una nube: “l’idea è che il centro della rappresentazione debba rimanere vuoto, perché è lì dove tutto circola, dove si trovano le tensioni, gli affetti”. Nel cinema americano “quello che sta al centro dello schermo è una figura, un personaggio che parla con un altro. In quello asiatico, i sentimenti e le emozioni non stanno nel centro, stanno nel Tra”. Il cinema americano satura questo spazio mediano con una serie di elementi che potremmo definire costruttivi. Lo occupa. Lo colonizza. Colonizza il vuoto per costruire un mondo secondo, completamente artificiale; Antonioni, invece, è il cineasta europeo che forse con più sensibilità ha compreso questa presenza del vuoto. Ma si tratta di un vuoto completamente diverso da quello orientale. È il vuoto della mancanza di senso. Alla costruttività perversa hitchcockiana si sostituisce, in Antonioni, la impossibilità di progettare un’idea di mondo condiviso. Il vuoto centrale in cui brancolano i personaggi di Antonioni non è quello del filosofo-viaggiatore cinese nei dipinti di epoca Song. È il vuoto dell’animo, l’angoscia disperata di Livia, di Giuliana, barche senza ormeggi in un porto delle nebbie d’occidente dove la borghesia percepisce confusamente un sentimento, acuto, di terminazione. Il borghese che, con le sue capacità mimetico-adattative, è invece l’eroe positivo dei film del maestro hollywoodiano. North by Northwest si conclude con Eva Marie Saint/Eve sospesa nell’abisso, e Cary Grant che tende la mano verso di lei, in un gesto che sembra di impossibile salvamento; un taglio mostra le mani che si stringono in primo piano, poi la macchina da presa si allontana e scopriamo che non ci troviamo più a un passo dal nulla, ma nel comodo vagone letto di un treno. La mano tesa che i personaggi di Antonioni si tendono mutuamente non sono, invece, così solerti e sicure: non conducono fuori da nessun abisso. Vittoria e Piero non avranno mai il loro appuntamento; Giovanna camminerà in mezzo alla periferia inquinata mentre Corrado è partito in Patagonia; l’abbraccio finale di Lidia e Giovanni, più che alludere alla ricostituzione della coppia borghese, sembra mostrare un desiderio irrefrenabile che si sporge fin dentro la morte. Le coppie di Antonioni rimangono a fissarsi dentro quell’abisso spalancato che la visione moralista di Hitchcock finisce per richiudere.
Se ritorniamo al film di Bressane, vediamo come il dettaglio delle pietre scolpite di North by Northwest è montato poi insieme ai tetti della Sagrada Familia di Gaudí in Professione: Reporter: un paradigma antropomorfo si trasforma in uno architettonico, che ci fa pensare di nuovo alle pietre dell’Isola Rosa: Le Corbusier definì Gaudí «plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro». Il cinema occidentale non smette di erigere paradigmi costruttivi, porosi o plastici.
Le pietre diventano architettura, l’amorfo, costruzione: le immagini dei dettagli architettonici minacciosi de L’Eclisse si alternano a quelle della Fallingwater di Frank Lloyd Wright (altro grande autore modernista: Bressane sta facendo – anche – una sua personale storia dell’architettura?) ricostruita negli Studios MGM da Hitchcock. In entrambi i casi i personaggi sono oppressi da un’architettura che diventa elemento minaccioso che, letteralmente, si curva sopra di essi per abbatterli o per proiettare sopra l’ombra del dubbio: nel dedalo di spigoli della struttura che regge la casa, Roger Thornill assomiglia allo Scott Carey di The Incredible Shrinking Man di Jack Arnold, modificato da un’esplosione atomica, mentre gli uomini in attesa del film di Antonioni sembrano aspettare, più che l’evento astronomico il fall out nucleare (nel film, come si sa, uno dei passanti legge una pagina de L’Espresso che parla della crisi dei missili cubani: De Martino nel suo libro sulla Fine del Mondo e Carlo Ginzburg in La lettera uccide si sono soffermati entrambi sulla sequenza). In entrambi i casi la minaccia veicolata dall’elemento architettonico si espressa attraverso il dettaglio. Il sintomo premonitore dell’elemento architettonico contagia così l’intero ambiente-mondo. E qui appare illuminante il terzo testo a cui abbiamo accennato all’inizio, il libro di Wim Wenders, che ricopia l’intervento fatto da Antonioni in Chambre 666. Il maestro, davanti ad una macchina da presa lasciata immobile davanti a lui parla del futuro del cinema: “in Deserto Rosso affrontai il tema dell’adattamento: dell’adattamento alle nuove tecnologie, all’aria contaminata che probabilmente saremmo costretti a respirare. Chissà anche il nostro organismo cambi. Chissà come finiremo, non lo so. È probabile che il futuro si presenti con una ferocia che oggi non conosciamo, anche se è possibile presumere come sarà (…) La mia impressione è che non sarà difficile trasformarci in nuove persone che si sono maggiormente adattate alle nuove tecnologie”. Sono i due aspetti, distruttivo e creativo, della dominante tecnologica: Antonioni e Hitchcock sembrano voler mostrare entrambi gli aspetti, mescolando astrazione e empatia. Il film di Bressane continua montando la scena d’amore girata come fosse quella di un omicidio in Deserto Rosso e quella della caduta di Kim Novak/Madeleine seguita dalle immagini silenziose della scalinata e del campanile in Vertigo. Esplorazione degli stadi estremi, Vertigo e Angst: Monica Vitti/Giuliana si abbandona su una sedia e Kim Novak/Madeleine precipita nel vuoto. E poi, semplici associazioni di contenuto: la partita alla fine di Blow Up incontra il suo controcampo nelle gradinate di Stranger on a Train: partita che diventa performance e, poi, sciarada criminale.
Nell’ultima sequenza de A imagem en fuga volteggia, leggera come una piuma, una carta di giornale (sempre da Deserto Rosso). In questa immagine senza azione che la sorregge, dove il più residuale degli oggetti è aperto al libero gioco del caso, con questo spiraglio di oriente, Bressane ha voluto chiudere le ante del suo dittico sapiente e implacabile. Suggerendo che le immagini possono essere sempre molte cose, mai una soltanto. Ma non è quello che dice, da sempre, Raúl Ruiz?