65° Festival dei Popoli: La memoria e altre forme di autoconservazione della specie
di Sabrina Scansani
In una Firenze popolata dal traffico caotico dei turisti, le presenze si muovono fra le strade come una serie di figurine, fra siti e monumenti storici, senza sapere che proprio in quei giorni si riunisce uno straordinario sottobosco umano, composto da appassionati di documentari artistici, indipendenti e sperimentali.
Lo spazio dei due cinema fiorentini che ospitano la 65esima edizione del Festival dei Popoli è affollato da cineasti e critici che irrompono nelle sale e negli atri per seguire un’edizione che celebra la grande emancipazione dell’immagine caotica,disomogenea e delirante. Si onora la materia umana nella sua forma più eterea e corporea allo stesso tempo: l’ossessione della memoria, la necessità di aggrapparsi a questa incredibile forma di auto-affermazione, che fino ad ora è stata determinante nella sopravvivenza della nostra specie e che rischia di non esserlo più (secondo l’Orologio dell’Apocalisse, abbiamo raggiunto il minimo storico: mancano solo novanta secondi alla mezzanotte).
Parafrasando Aina Xistó, autrice del corto di ricerca portoghese METAMORPHOSIS’ CHANTINGS or That Time When I Incarnated as Porpoise, il cinema è un vecchio sciamano, capace di raccogliere la materia dal passato al futuro e usare le immagini in movimento per viaggiare nel tempo, facendosi portavoce di una memoria collettiva.
Appare in un primo momento strano che in un festival costruito sul tema della testimonianza e sull’impegno politico del ricordare, si sia deciso di mettere in copertina il simbolo dell’anti-umano, una figura dalle sembianze femminili generata con l’uso dell’AI, che interroga sulla contraffazione del reale, di cui sempre di più siamo spettatori passivi.
Non tutta la distorsione del reale presuppone una falsità concettuale. Una certa tipologia viene usata nella docu-testimonianza Silence of Reason, dove le voice over sembrano robotiche perché distorte dalla necessità di nascondere e proteggere l’identità delle donne vittime di abusi. A essere disumana appare solo la tragedia del trauma, che traspare dalle testimonianze audio provenienti dalle trascrizioni del processo delle Nazioni Unite, che nel 2000 condannò lo stupro di massa delle donne musulmane durante la guerra in Bosnia. L’audiovisivo permette l’elaborazione della tragedia e spezzando il cortocircuito del trauma, asseconda il passaggio all’elaborazione e lo ripropone come monito.

La trascrizione è la modalità più oggettiva di onorare la memoria, ma il cinema permette di farlo anche con la rappresentazione di un mondo immaginario che dialoga con il presente storico, anche attraverso l’uso dell’archivio, modus operandi ritrovato in molti dei lavori presenti al Festival, uno fra gli altri Grandmamauntsistercat di Zuza Banasinska. L’autrice polacca rivisita immagini di propaganda comunista, stravolgendo il passato e stravolgendo l’emblema folcloristico di Baba Jaga, la leggendaria strega cattiva, figura capace di guardare oltre all’identificazione dei corpi in quanto tale.
Ci spostiamo, non troppo lontani dallo stesso tipo di rabbia che alimentava l’operato di Baba Jaga (dal termine protoslavo “Jeza”, che significa “rabbia”), immergendoci in altre derive di memoria femminile storica. In A Hungarian village (titolo dell’opera di Judith Elek a cui è dedicata una retrospettiva del Festival) si entra nelle case di giovani ragazze appena uscite dall’infanzia, i cui progetti di vita sono plasmati da un flusso culturale permeato nei secoli, che le fa desiderare di perseguire un unico obiettivo: sposarsi appena possibile. Le immagini di repertorio bucano lo schermo, quando le domande della regista si fanno insistenti e una sfilza di madri e padri si ritrova a riflettere sul fatto che non sono contenti dei pensieri prematuri delle loro figlie sul matrimonio, esplicitando la contraddizione patriarcale all’interno di un sistema familiare apparentemente sano.
Allora, È a questo punto che nasce il bisogno di fare Storia (titolo del film di Constanze Ruhm), quando lo spettatore è in grado di leggere le immagini con distacco temporale, accedendo a un nuovo livello di consapevolezza. La realtà catturata diventa istantaneamente anacronismo e ci ritroviamo a guardare dall’esterno quell’involucro spazio-temporale che scopriamo essere non lineare. È allora che il passato si separa dal presente, avviene la frattura, la visione si allarga e la comprensione diventa possibile.
Il sottotitolo del film dell’autrice austriaca è “Un film come uno specchio rotto” e accosta l’archivio alle manifestazioni del collettivo Non una di meno, ai giorni nostri. La sovrapposizione del passato e del futuro è una doppia esposizione fotografica, in cui il mondo immaginario diventa uno sforzo di immaginazione politica. Nasce l’idea speculativa della memoria, quella più brutale: come sarebbe cambiato il mondo se avessimo avuto accesso a certi materiali di archivio? E perché, anche se oggi ne possiamo disporre, ancora non riusciamo ad evolvere?

L’impegno politico può essere tanto utopico quanto potente ancora oggi, così come lo fu nel 1947, quando un gruppo di più di duecentomila giovani si impegnarono nella costruzione dei 247 chilometri della ferrovia Šamac-Sarajevo, riuscendo là dove il governo non era arrivato. Una strabiliante storia di volontariato e sacrificio ripresa nel bianco e nero di Newsreel 242 – Sunny Railways di Nika Autor), la cui forza creatrice fa quasi vergognare lo spettatore di non essere in piazza ora, e allo stesso tempo permette di credere in una spinta propulsiva possibile per il cambiamento.
Denuncia e ricerca, binomio saldamente intrecciato nell’opera di video-testimonianza che pervade anche i film presenti nelle sezioni minori, che colpiscono per la giovane età degli autori e delle autrici. Spicca Petrolia, un cortometraggio in 35mm girato da Giulia Mancassola che non si ferma alla propria storia personale, ma riesce a dipingere il passato comune degli abitanti dell’ex polo petrolifero albanese, decadente teatro della sua infanzia, che l’autrice aveva fino ad ora schivato, a causa di un sentimento di rigetto. Dall’altra parte, That tiny places where the light comes in che dialoga in opposizione col precedente, delineando un compendio filosofico proveniente dalle parole immaginifiche di due bambini in grado rivolgersi solo verso il futuro, perché nel luogo dell’immaginazione il passato non esiste.
Ancora rabbia, ma diversa, è quella di Andrej Grigorita, che inonda di primi piani Tineret, l’opera prima di Nicolò Ballante che racconta con linguaggio da film di finzione drammatico la vita senza filtri di un giovane trapper della periferia romana, finalmente in un quadro inedito, non patinato, sporco e reale. Il documentario, durato quattro anni, trasmette la precarietà e l’emarginazione di una classe sociale in cui i ragazzi rinunciano ai propri sogni per badare alla famiglia, diventando padri prima di esserlo, adulti prima di crescere. La resistenza nella vita quotidiana è, di nuovo, politica nella sua vera essenza, politikḗ, che riguarda la polis e il singolo cittadino.
La resistenza politica come insorgenza del segno della memoria collettiva è il tema portante di uno dei film più potente del Festival: Portuali, di Perla Sardella, un’opera coraggiosa e antifascista nella sua accezione più reale. Protagonisti sono un gruppo di lavoratori del porto di Genova, la cui immagine di maschi alfa dalla forte e burbera personalità si sfalda curiosamente ancora prima della proiezione in sala, grazie alla loro entusiastica iniziativa di spiegare striscioni che recitano inni contro la guerra e l’intonazione di canti antimilitaristi.
È una battaglia reale per loro, portata avanti con coraggio nel lavoro quotidiano, che li ha spinti a scegliere di iniziare una serie di scioperi per denunciare il passaggio di navi che trasportano munizioni ed esplosivi, perché profondamente convinti dell’incostituzionalità del proprio incarico. “Non volevamo che le mani che lavorano toccassero armi destinate a guerre lontane”, recita l’articolo di giornale che ha ispirato il lavoro dell’autrice, trasferitasi a Genova per seguire la loro lotta, che è arrivata fino a dichiarare la loro posizione di fronte al Parlamento Europeo.
Non c’è rassegnazione in un film in cui la ripresa asseconda il contenuto dei lunghi discorsi delle riunioni dei sindacalisti, e la lotta di classe si intreccia contro quella contro la violenza di genere, che esonda nelle immagini più dinamiche delle manifestazioni femministe alle quali il gruppo partecipa, perché toccato dalla tragedia di uno di loro che ha perso la figlia, Martina Rossi, vittima di tentato stupro a vent’anni e morta mentre cercava di scappare dai suoi assalitori.
La standing ovation non aspetta la fine dei titoli di coda, esplode irriverente verso un grande schermo che scompare, lasciando spazio alla concretezza di una sala piena di persone e non solo di spettatori. È manifestazione, è coro antifascista. Reca con sé l’essenza stessa del documentario, che raggiunge l’obiettivo più grande: far risuonare i cuori e attivare le menti, invitando a una mobilitazione di pensiero. Un documentario che, nonostante l’estetica ricercata, rinuncia a parlare di forma, permettendo al contenuto di esondare nel microfono offerto a uno dei protagonisti, che colma di informazioni necessarie una storia che va oltre l’ora e mezza di visione. E l’audiovisivo diventa teatro di militanza nella sua forma più appassionata.
Perla Sardella, che è accreditata anche come direttrice della fotografia e operatrice di ripresa, nel talk che segue il film afferma che nel suo lavoro lei non usa le mani come le usano i protagonisti del suo film, e che c’è bisogno di qualcuno che prenda in mano la macchina da presa e racconti queste storie, che altrimenti spariscono.
Come possiamo sopportare tutto questo? Forse si riesce solo quando è già tutto passato. Forse camminando con altri compagni di viaggio che possano farsi megafono delle nostre battaglie. Forse, parafrasando le parole di uno dei produttori, Fulvio Lombardi, si sopporta diventando noi stessi archivio, scegliendo le parole con cui ispiriamo gli altri e cercando la verità in quelle che non sappiamo ancora dire. La vita stessa è sopravvivenza e resistenza e, quindi, è politica.
Le immagini di Portuali entreranno nell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (di cui nel montaggio già diverse immagini sono state utilizzate) e sono quindi destinate a diventare memoria storica, nonostante con grande umiltà l’autrice ci tenga a sottolineare che quelle vite e quelle storie esistono al di là del suo lavoro documentaristico.

Appare quasi irreale questo assunto se pensiamo al racconto di Jake Williams, protagonista del documentario Bogancloch dell’inglese Ben Rivers, lavoro magistrale iniziato nel 2005 che segue la vita di un uomo anziano nel corpo, ma senza età nello spirito, nella sua vita quotidiana. Il bianco e nero inganna sul tempo del racconto e tratteggia una realtà che non sembra contemporanea e riesce là dove voleva arrivare l’autore, che nel talk afferma: “il bianco e nero lo uso per costruire un mondo, non per rappresentarlo, come fa invece il colore”.
Ed è pura architettura quella che delinea i confini di un mondo altro, etereo e surreale, che si spezza all’improvviso quando Jake inizia a cantare in inglese, e il suono di parole contemporanee ci fa ricordare che non si tratta di uno spirito, ma un essere umano collocato nel nostro stesso tempo storico. Jake assomiglia a un eremita, ma è un eremita a ore, al di là del tempo e dello spazio ma anche perfettamente incastonato nella matericità delle azioni umane, impresso nella celluloide di quello che sembra un universo parallelo, dove fare la doccia è un dolore indicibile, e cantare nella vasca da bagno invece è la vera essenza dell’essere vivi.
Ci si chiede, ma esiste realmente questo vecchio professore che insegna il sistema solare ai ragazzini a scuola e fa l’eremita part-time? Oppure, in una parafrasi dell’interrogativo di Berkley se faccia rumore l’albero che cade in una foresta quando nessuno lo sente, Jake esiste solo perché percepito da noi?
Lui però non si cura dei massimi sistemi e canta “Oh life, the world is mine”, mentre in zoom out usciamo dalla Terra ed entriamo nello spazio profondo che trattiene il suono dello sciabordio dell’acqua della sua vasca da bagno. Tempo e spazio si dilatano, e lui diventa dio, dentro e sopra alle cose. Un regista del cinema-universo, che non si limita solo a osservare, ma piega lo spazio-tempo con la propria esperienza.
Forse è questo il segreto del documentario?
O forse è un interrogatorio multidirezionale sul senso della realtà, un percorso costellato di domande senza pretesa di risposte, che pervade il film Terra Incognita, visionario incontro di immagini-logos dell’autore Enrico Masi. Nel suo quinto lungometraggio, che riporta una visione e una composizione tipica dei lavori firmati da Caucaso Factory, la ricerca massima nel campo della fusione nucleare si intreccia con la vita di una famiglia neo-rurale che vive senza elettricità, trovando il terzo lato di un’impalcatura triadica nella voce che manifesta le supposizioni del naturalista Alexander Von Humboldt, pioniere del pensiero ecologico moderno.
Il saggio documentario propone un’impalcatura complessa, articolata in maestose panoramiche ambientali in cinemascope accostate a dettagli di un impianto per la fusione nucleare in Francia, e astrazioni filosofiche cosmiche.
Terra incognita divelle una serie di assunti fondamentali con la potenza del ragionamento a servizio di una narrazione documentaristica diretta con raffinatezza in cui niente è lasciato al caso. Quando inizia davvero l’Antropocene, quando l’uomo è stato in grado di controllare l’energia che governa il mondo? Quando il pianeta-uomo ha iniziato a respirare più forte del Pianeta Azzurro, soffocandolo? Dov’è il nostro limite?
Il progresso è possibile con l’unione disinteressata di intuizione e pensiero, ma forse abbiamo accelerato troppo velocemente per recuperare la maturità necessaria a comprendere ora dove stiamo andando.
Ci renderemo conto troppo tardi di cosa potevamo fare, mentre collezionavamo diciassettemila bombe atomiche (e quelle necessarie alla distruzione dell’intera nostra specie sono qualche centinaio). Ci guarderemo nello specchio rotto, incontrando gli occhi di una forma che avrà sembianze umane, ma sarà più temibile forse di qualsiasi evoluzione dell’Intelligenza Artificiale.
