Spettralità del set
di Bruno Roberti
Storie di fantasmi 1 : Presence di Steven Soderbergh
Che cosa è un set? Che cosa può un set? Si tratta di un campo di forze in cui vengono convocati i corpi, i gesti, le presenze, in modo tale che quelle convocazioni possano concretarsi e insieme fantasmizzarsi in immagini per predisporsi nello spazio secondo una traiettoria del tempo, assorbite e poi emesse. Tale processo filmico viene come introflesso e simultaneamente estroflesso in un film come Presence di Steven Soderbergh. L’apertura immette ‘in situ’, con il piano sequenza che si dipana incessantemente, sul luogo dell’appartamento vuoto, solcato da finestre che intersecano l’esterno e l’interno, che si da come set perlustrato, esplorato, percorso da uno sguardo incollocabile e fluttuante. Ora quello sguardo connette paradossalmente la forma di una soggettiva e una ripresa di tale soggettiva suscitando il senso perturbante di un riconoscimento/misconoscimento. Lo spettatore è collocato (ma anche dis-collocato) nella posizione della macchina da presa che a sua volta è un occhio inquieto come posto fuori dalla sua orbita, così da essere presente nel momento stesso in cui si assenta, si dà come invisibile, non visto eppure unico canale che può accedere alla visione, farci partecipi del set, nel punto stesso in cui questo viene assorbito ed estroflesso da quell’andirivieni fatto di impercettibili sussulti. Il senso vertiginoso di aderenza e di estraneità insieme che produce il movimento dello sguardo fantasmatico muovendosi in una soggettiva senza soggetto, una presenza che si avverte proprio nell’assenza del referente, del portatore di quello sguardo, si ripercuote sul nostro sguardo. Siamo noi che guardiamo quello sguardo, vediamo il visto e l’atto del vedere, siamo, per così dire noi stessi il ‘fantasma nella macchina’. Viene messo in gioco da Soderbergh l’atto stesso del filmare come atto spettrale e al contempo il fatto che ogni set si impregna, mentre viene filmato, di quella stessa spettralità. Il film viene ‘infestato’ progressivamente da questa spettralità, in modo da far emergere l’inerenza del fantasmatico al film come set, alla loro co-incidenza: del resto ogni film è un film di fantasmi che rivivono e sopravvivono nel momento stesso in cui si riflettono nel film che si proietta. Lo spettrale è il pellicolare. Quando Chloe, la figlia minore dei Payne si avvicina, come attratta, al vecchio specchio ottocentesco, Cece, la ragazza dell’agenzia immobiliare, le dice che quello specchio è fatto di nitrato d’argento che è la materia ‘archetipale’, il composto chimico fotosensibile di cui sono fatte le vecchie pellicole. Capiamo fin dall’inizio che Soderbergh ancora una volta si interroga e ci interroga sulla materia delle immagini e sul loro incessante moto del ‘darsi a vedere’ che coincide con il ‘darsi a nascondere’, sul cinema stesso e i dispositivi della visione come ‘macchine in mutazione’, di volta in volta di una “qualità totalmente diversa alla luce” (come dice ancora Cece a proposito dello specchio). Si tratta dunque di perseguire un punto di presa incommensurabile e ogni volta introflesso nell’atto stesso del suo estroflettersi. Questo è il paradosso: siamo dentro e contemporaneamente fuori rispetto a quel set e a quello sguardo che osserva, si muove, fluttua dentro il set involvendolo ed evolvendolo, rinserrandosi nei suoi spazi, nelle sue stanze, e insieme sporgendosi sulle sue aperture e sui suoi riflessi (specchi e finestre). “Secondo me è il cuore della casa” dice ancora dello specchio la ragazza dell’agenzia: specchio cocteauniano o vetro duchampiano che apre e chiude simultaneamente all’interno e all’esterno, sulla dimensione ulteriore dell’aldiqua e dell’aldilà dello schermo, “specchio che sfugge” e specchio che inghiotte ed emette come ogni dispositivo filmico. Così la camera/occhio/spettro/presenza/assenza inquadra e disinquadra, scarta e dribbla, bracca e si sottrae, allontana e avvicina i piani sonori così come i campi visivi. Ne risulta un altro paradosso: un fuoricampo che continuamente guadagna il campo, lo attanaglia, lo sospinge. Salvo occludere e disoccludere tramite neri che si ripercuotono sugli sguardi in macchina, cioè verso l’impossibile da darsi a vedere, verso lo spettrale: così a conclusione del primo lacerto/piano sequenza, quando Chloe, dopo aver deambulato per la casa vuota si rivolge a quell’impossibilità di sguardo, e per così dire tocca con il suo sguardo quell’occhio impossibile. I neri di Presence sono in tal modo occhi chiusi/spalancati, il wide shut del film è una continua chiusura/apertura di palpebre che lasciano passare la sua luce possibile/impossibile. Occorre che venga messa in atto una reversione per far sì che la spettralità si ripercuota come proiezione, come raddoppiamento, e il procedimento dello scorrere pellicolare del fantasma entri in campo pur muovendosi dal fuori campo. In tal modo Chloe nomina Nadia, la suscita come un doppio protettivo/proiettivo: l’amica uccisa si addossa come alone spettrale allo sguardo di Chloe. L’occhio alato diventa occhio aptico, lo sguardo hauntologico attraverso lo specchio pellicolare (il nitrato d’argento che si dissemina nella casa sotto forma di specchi screziati e pulviscolari) prende a toccare gli oggetti d’affezione (il quaderno, i libri di studio, l’astuccio) e li sposta in aria, rimettendoli al loro posto, cioè predisponendo il set per trasmetterne l’aura spettrale. A poco a poco la dinamica intrafamiliare dei Payne viene permeata dalle reazioni dello sguardo/presenza/assenza che si ripercuotono sullo spazio sommovendo progressivamente il set, che a sua volta si carica di magnetismo configurandosi così come un campo di forze di cui quello sguardo/presenza/assenza costituisce il vortice. Con l’arrivo della sensitiva lo specchio (“i vecchi specchi sono molto meglio di quelli nuovi…hanno visto di più” dice) si configura come il tramiteattraverso cui Chloe viene assimilata a Nadia, come un riflesso, un doppio. “Il tempo non funziona allo stesso modo per lei” dice la medium facendo emergere la simultaneità di temporalità e spazialità con cui si manifesta lo sguardo fluttuante. In tal modo avviene una coincidenza, una assimilazione tra occhio e sguardo che però si scinde nel posizionarsi ogni volta in rapporto a ciò che Chloe esperisce nel ripetere inconsapevole il destino di Nadia e, come conseguenza contraria, provoca una schisi, una scissione tra occhio e sguardo, come quando l’immagine-sguardo improvvisamente si fa tremito e sembra fendersi nell’atto di osservare Chloe che dorme. Quel tremito diventa un battito, come un colpo al cuore, coincidendo con lo sguardo/presenza/assenza nel momento in cui Chloe anestetizzata sta per essere soffocata da Ryan. Allora è il set stesso, assimilato definitivamente all’occhio/sguardo a tremare e a produrre una interferenza di luce/suono che risveglia Tyler. La finestra assume allora la funzione di tramite tra dentro e fuori che aveva assunto lo specchio. Il vetro si rompe, l’immagine precipita. Il set/casa torna vuoto e lo specchio torna ad assorbire la spettralità riflettendola, mentre lo sguardo si libera riconquistando il fuori.

Storie di fantasmi 2 : Fuori di Mario Martone
Divaricato e intersecato tra un dentro concentrazionario che si apre su sé stesso nel cortile carcerario di Rebibbia e un fuori che si dischiude nel trascolorare di una estate dove il tempo si distende e si sospende, Fuori di Mario Martone si concreta nel set di una Roma del 1980 colta però e “ritagliata” nel presente delle riprese che scorrono con la libertà e i sussulti improvvisi di una sorellanza percorsa dall’eros che diventa fantasma del desiderio. Certo il film (e la sua scrittura frutto della simbiosi tra Ippolita Di Maio e Martone) parte dai due romanzi ( L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio)in cui Goliarda Sapienza, scrittrice e anima non riconciliata, rivive la sua breve esperienza dentro il carcere di Rebibbia ( a seguito di un furto e riciclaggio di gioielli ai danni di una amica e amante appartenente a quell’alta borghesia intellettuale cui si sentiva estranea, che è quasi una oscura vendetta, un gesto di insubordinata e provocatoria riottosità) e poi il suo ritorno alla città fuori nel reincontrare due ex detenute, giovanissime, con le quali stabilisce una febbrile empatia fatta di slanci e stupori, attrazione e inquietudine. Ancora una volta Martone entra in sintonia con la scrittura-sguardo del femminile (lo aveva già fatto in cinema e in teatro con Fabrizia Ramondino, Elena Ferrante, Anna Maria Ortese, Elsa Morante) e questa volta ciò avviene ancor più attraverso una sorta di disidentificazione per cui la scrittura filmica si disincaglia dal dato solamente biografico e affonda direttamente in una vibrazione del vissuto che passa congiuntamente per una estrema fisicità e una libera astrazione. Sono i corpi, le posture, le nervosità, le improvvise pulsioni, i gesti liberatori, le gioie irragionevoli, le malinconie sottese che si accordano e si disaccordano con un uso fluido, sincopato, a briglia sciolta (con zoom cassavettesiani e impennate “nouvelle vague”) della macchina da presa e insieme con un respiro che si allarga ai campi lunghi come a voler rilassare le tensioni visive. Come sempre Martone lavora su una singolarità in rapporto a una comunità. Qui Goliarda è colta in un momento in cui la solitudine la attanaglia, è senza un soldo, si sente incompresa e arranca nella scrittura del romanzo che sarà poi acclamato come un capolavoro postumo, L’arte della gioia. La condizione di isolamento e di estraneità era già quella di Renato nel Matematico, quella di Delia in L’amore molesto, quella di Leo in Teatro di guerra, quella di Silvia in L’odore del sangue, quella di Leopardi in Il giovane favoloso, quella di Domenico nell’epilogo di Noi credevamo, quella di Lucia in Capri Revolution, quella di Barracano nel Sindaco del rione Sanità, quella di Felice in Nostalgia. Ognuna di queste “anime perse” è filmata da Martone in rapporto a una “comunità” di volta in volta negata oppure elettiva e tale comunità fa corpo collettivo con il luogo-set, in modo che tra individuo e comunità viene fatta circolare un’aura proiettiva e fantasmatica che investe il set, che sia questo un territorio oppure una città o una enclave, configurandosi come un reticolo labirintico che connette e disconnette il dentro e il fuori, la prossimità e la lontananza. In Fuori accade come se questa insistenza si innervasse nelle maglie del film fino a costituirne il tessuto vibrante e intercomunicante, reversibile: la comunità delle detenute di Rebibbia, il dentro, si riversa in una dimensione di paradossale libertà che trascorre nella solidarietà femminile, nelle complicità, nel contatto fisico, nelle irruenze o nelle tenerezze, nelle zuffe, negli abbracci, negli atti autolesionisti e in quelli protettivi ed è quel fuorivissuto “anche quando sono dentro” che si rovescia per quelle donne nello “stare dentro anche quando stanno fuori”. Goliarda allora libera il suo dentro, la sua sofferta interiorità nel momento in cui riconosce e misconosce a un tempo la propria identità sciogliendola nella perdita e nell’oblio di sé per accedere al perdersi nell’alterità, nella relazione con Roberta e con Barbara, corpi che irrompono e “allegri fantasmi” che ritornano “libere” ma portandosi dentro l’esperienza bruciante del carcere, irruzione del reale che spezza la catena del simbolico, del ruolo sociale a cui in ogni momento Goliarda resiste ( il gesto del furto spezza questo ruolo, accoglie la sua inderogabile interruzione). In questo senso il movimento e l’andirivieni compenetrante tra dentro e fuori, che si scambiano di posto e rovesciano spettralmente il loro continuo e libero dis-collocarsi, si dipana nel film di Martone secondo le linee, che gli sono proprie, di una geometrizzazione degli spazi, di una densità che si discioglie in astrazione e di una trasparenza che si condensa in una luminescenza spesso occidua, fisicamente palpabile. E’quel giorno infinito e obnubilante, quel tempo protratto nella luce della periferia romana, da Torpignattara all’Acqua Bullicante, quella fuga nell’ estate romana che ogni volta fa sì che Goliarda possa riaprire gli occhi e vedere in un modo diverso (come quando Roberta le rinserra i palmi delle mani sugli occhi). Nel film il reale non è mai un realismo ma piuttosto la concrezione e l’irruzione, qualcosa di simile a un’apparizione o a un revenant, un ritornante, uno spettro che diventa risucchio desiderante, fantasma di carne e d’ombra e che rappresenta l’irruzione del reale nel simbolico, secondo la lezione di Lacan. In questo senso la telefonata che Goliarda sola in casa riceve e la voce roca e impastata, la risata che si spezza, e la rivelazione del ritorno di Roberta (la tossicomane, la militante nella lotta armata, la ragazza percorsa dall’eros e dal desiderio, che ha in sé qualcosa di misteriosamente dionisiaco) disturba l’ordine simbolico e rivela le falle nella struttura del soggetto, e quindi trova appiglio nella sensibilità insubordinata, irriducibilmente non riconciliata di Goliarda (così come la voce al telefono e la risata densa di enigmatica risonanza di Amalia a Delia in L’amore molesto). Prende avvio una storia d’amore, che si implicherà ancor più di correnti desideranti con l’arrivo di Barbara, l’altra ex detenuta che riproduce uno spazio che è insieme un “dentro nel fuori” e un “fuori nel dentro” in quella profumeria di sobborgo dove si ricostruisce l’intimità del “fuori” che nel “dentro” delle celle di Rebibbia si viveva quotidianamente (il dividere il cibo, il farsi insieme la doccia…). Qui il film raggiunge una sorta di condensazione epitomica, l’epifania di una immagine che congiunge i corpi simbiotici delle tre donne in una delicatissima e sospesa plasticità che richiama la triade delle Grazie. Così il fuori non è un limite fisso, immobile, ma piuttosto una sorta di piega mobile che introduce la discontinuità nella nostra esperienza. Come scriveva Michel Foucault: <<La finzione non deve più essere il potere che instancabilmente produce e fa brillare le immagini, ma la potenza che, al contrario, le dispiega, le alleggerisce di ogni loro sovraccarico, le anima di una trasparenza interiore che, a poco a poco, le illumina fino a farle splendere e le disperde nella leggerezza dell’inimmaginabile.>> (M.Foucault Il pensiero del fuori, SE, 2015, p.25). Il film di Martone convoca a sé altresì l’aura memoriale e fantasmatica di tutto un cinema italiano che pare aleggiare e posarsi in molti momenti: la rosselliniana attitudine a filmare Goliarda secondo l’itinerario di uno sguardo che la scardina da ogni sicurezza e la immette nel dolore e nella pietà, nell’amore e nella follia, facendo tornare in mente lo sguardo di Irene in Europa 51. E poi quella Roma, dentro e fuori le mura del carcere, dove riemergono il Pasolini di Mamma Roma, il Castellani di Nella città l’inferno, il Germi di Un maledetto imbroglio (citato attraverso il canto collettivo di Sinnò me moro lanciato dalle detenute verso le sbarre della prigione), fino al segreto omaggio a un grande cineasta “del femminile” come Giuseppe De Santis (evocato anche dalla presenza nel cast della figlia Luisa), il cui ultimo progetto non realizzato fu un film che doveva raccontare una giornata di permesso fuori dal carcere, in una Roma estiva, di un gruppo di detenute per terrorismo. Così spettralità e fisicità convergono in un finale lancinante in cui lo sguardo a filo macchina di Goliarda, attonito e trasfigurato, (riconducendo alla matrice rosselliniana il ricordo dello sguardo in camera di Cabiria), assolve e dissolve, in un vuoto antonioniano, il proprio fantasma desiderante.

L’articolo prosegue nella sezione “festival”.
