Pesaro 60: Conversazione con Julio Bressane
Il Cinema è l’amore che ti fa vedere l’emozione più forte.
Conversazione con Julio Bressane a cura di Edoardo Mariani e Bruno Roberti
Il programma della 60esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro accoglieva quest’anno anche un grande e sentito omaggio, coordinato da Roberto Turigliatto, all’opera di Julio Bressane che ha presentato due nuovi film, Relâmpagos de críticas murmúrios metafísicos e Leme do destino, in concomitanza con un approfondimento su alcuni dei suoi film durante le notti di Fuori Orario Cose (mai) Viste su Rai 3.
La mattina del Sabato 22 giugno a Pesaro, trasportati da simili deduzioni sui ritmi delle immagini, puntando le iridi dei nostri occhi verso una comune osservazione, Julio Bressane, Bruno Roberti ed io, abbiamo condiviso una serie di pensieri sulle circostanze che rendono il cinema un’arte provocatoria e solitaria, ma che lascia sempre aperti dei solchi, delle crepe, nelle quali ci ritroviamo uniti e accolti dalla stessa voglia di caos.
Dopo la commovente conversazione matinée con il pubblico nella sala del Cinema Teatro Astra, noi tre ci siamo spostati nella sala riunioni dell’Hotel Savoy, dove Bruno Roberti aveva soggiornato durante le giornate della Mostra. Testimone e partecipe di questo incontro dolce e potente tra due vecchi amici, ho trascritto qui di seguito la conversazione integralmente, senza tagli. Consiglio di avventurarsi in questa lettura pensandola come una sorta di discesa teorica folle. Si dimentichino tutte le certezze prima di questo lancio nel vuoto lungo circa cinquemila parole. Alla fine, parafrasando Julio, l’importante è il disordine.
(E.M.)
Julio Bressane: gli elementi del cinema, un cinema degli elementi
Nei film di Julio Bressane si rispecchia la stessa euforica vertigine che ci avvolge quando si parla con lui. Si parla sempre di qualcosa che non cessa di tralignare e di tracimarsi negli elementi che emergono dall’invisibile e insieme emanano dai corpi. Sono gli elementi essenziali del cinema che, come lui stesso dice, si nasconde e si occulta in quel tracciato magnetico che è il film, che può essere visto solo in quanto movimento di revulsione da cui si scatenano i relampagos, i ‘lampi’ sonori e lancinanti, mormoranti e saettanti entro cui il cinema, appunto per bagliori, si lascia intra-vedere e divinare.
Sono gli elementi primari, originari, del cinema come ‘musica della luce’ e come materia prima che ribolle e va in concrezione nel crogiolo alchemico della visione, quelli che il suo occhio ossessivo e veggente, ipnotico e liberatorio, mette in atto. Il cinema di Bressane è un cinema degli elementi laddove l’aria e i cieli, le nebulose del ‘batuque dos astros’ (il ‘baccano degli astri’ come recita il titolo del suo film-saggio in omaggio a Fernando Pessoa) fluttuano lungo il tragitto del fotograma/fotodrama/fototrama, strada segreta (quella sua Rua Aperana 52) che va alla deriva delle memorie e la riconducono all’atto del vedere, al momento della presenza assoluta. Laddove un vortice terrigeno e la terra solcata e inscritta di pittogrammi rupestri del Sertao (quelli che assediano il suo Sao Jeronimo) producono sussulti dell’immagine che prende a navigare, spinta da un timone cieco e insieme oracolare (come quello della pietra millenaria di Leme do destino). Laddove le acque del mare, le sue onde trascinano il gesto del filmare come il primo dischiudersi dell’immagine nel suo dis-limite (così nel suo ‘re-filmare’ il primo film brasiliano in assoluto, 1898, Uma vista da Baia de Guanabara, di Alfonso Segreto, nome denso di mistero e azzardo, oppure nel re-invocare quel Limite che va alla deriva nel capolavoro sperimentale, 1931, di Mario Peixoto). Laddove le scintille infuocate alimentano il consumarsi infinito e poi il riaccendersi perenne del fuoco di quelle immagini (come nell’epilogo, che è anche un prologo e un ‘introibo ad altare cinemae’, che segna infinitamente il Leme do destino).
La conversazione con Julio che segue è la testimonianza di questo incessante ardere del desiderio di cinema: ascendere verso il Sole delle immagini e discendere verso la Terra dove ogni visione si concreta nei corpi travolti in un folle volo: quello stesso del Filme do amor (do CINEMA).
(B.R.)
Julio Bressane: Lasciatemi cominciare per favore…Vorrei cominciare ringraziando Bruno Roberti, perché gli devo moltissimo. È qualcuno che conosco da molti anni e che mi ha aiutato sempre. È un profondo conoscitore del cinema, e come essere umano è un uomo che ha sempre avuto una grande empatia verso di me. Sono contento di essere qui con lui, perché è stato sempre all’ascolto del mio lavoro, sempre molto comprensivo e generoso verso di me. E questa è una cosa così rara tra gli uomini, contare su qualcuno che ci capisce veramente, ed è una delle poche persone più speciali della mia vita, ed è per questo che ha un posto molto importante nel mio cuore. Lui è un grande amico che mi ha sempre dato un appoggio quando ne avevo bisogno, quando ero nelle sabbie mobili, lui era la a soccorrermi. Sono veramente contento di rincontrarlo ancora una volta e di ritrovare lo stesso état d’ésprit et de la conversation. Con Bruno ho passato sempre dei bei momenti.
Edoardo Mariani: Come avevi detto prima durante l’intervento al Cinema Astra, “l’arte è qualcosa di antisociale e personale” che però porta poi a questi bei momenti d’amicizia e vissuti con il cuore.
J.B.: Questa è una idea di Fernando Pessoa, ci sono tante idee del mondo, e il mondo è pieno di teorie, ma quello che dice ha un senso perché l’antisocialità dell’arte della quale parla Pessoa è riferita alla condizione dell’esistenza stessa dell’arte. Diceva che, dato che noi siamo costantemente immersi in gruppi e in relazioni sociali, l’arte è qualcosa che fa sì che tutti coloro che ci sono intorno, noi tre qui in questa stanza, sentiamo l’arte, sentiamo questa cosa, ma non siamo capaci di esprimerla, nessuno di noi è capace di parlare agli altri di cosa sente verso l’arte. Quindi questa espressione di Pessoa non parla di sé, ma è l’agente di questa espressione, perché esprime un qualcosa di universale e che nessuno, neanche colui che l’ha pensata, è capace di descrivere. Quindi l’arte è sempre la comprensione individuale di una sensazione generale. Quindi si, tutto comincia da un qualcosa di antisociale, che non dipende dal gruppo formato della società, da milioni di persone che non hanno i mezzi per esprimersi, ma proviene dall’idea del disturbo, cara a tutti noi e a tutta la filosofia a partire dagli anni ’50 e ’60. La cosa che non riusciamo a raggiungere, a descrivere, è un disturbo, ed è attraverso questo disturbo che trasmettiamo le cose. Ci svuotiamo, come degli schizofrenici, di questi disturbi che sentiamo. La cosa curiosa è che non possiamo pensare questa cosa senza impiegare il termine “autore”, Questo termine è stato utilizzato quando ce n’è stato bisogno nel contesto di una storia del cinema che aveva coltivato fino a quel momento soltanto la sua essenza di spettacolo, e dal momento in cui si è creata una distinzione, è nata anche una corrente di autori, che sono veramente degli autori. Ma c’è una idea sbagliata, riprendendo anche la visione di Pessoa: bisogna abolire “l’autore”, e dare vita agli autori, a tutti gli autori. Nella lingua portoghese c’è un’espressione interessante che ci può aiutare, dobbiamo imparare il “nazionalismo cosmopolita”. Siamo nazionalisti nel senso che siamo attaccati alla nostra lingua di nascita, sei marchiato dalla tua lingua, ma sei cosmopolita perché sei aperto a tutte le mitologie, puoi avere tutto.
Bruno Roberti: Ed è come una “singolarità comune”. Mi fa pensare al tuo lavoro sull’immagine, che abbiamo visto in A longa viagem, dove, tu parlando delle tue immagini, parli di immagini anonime, e dici che le hai trattate nella loro singolarità, estraendole dalla totalità del tuo lavoro. E queste singolarità si spargono in una moltitudine empatica e circolare, danno vita ad una lingua comune grazie alla presenza di ogni singola immagine.
J.B.: Si, esatto. A longa viagem do Onibus Amarelho è un film di 58 film sconosciuti e anonimi. E questa cosa che dico è vera, perché per me questi film che ho riguardato sono anonimi.
B.R.: Malgrado siano tuoi film, per te sono dei film anonimi.
J.B.: È qualcosa che va al di la di me stesso e della mia comprensione. Non bisogna mai dimenticare che tutte queste cose sono incoscienti. Ad esempio, noi tre qui nella stanza, parliamo, e quello che ci diciamo è il 10/15 % di quella cosa più importante della quale non parliamo, e che non sappiamo neanche cosa sia. L’incoscienza è una amica, che parla costantemente con noi e che noi non capiamo.
B.R.: È qualcosa di sconosciuto che ascoltiamo e che non capiamo.
J.B.: Una amica che cerca di dirti delle cose che non vedi. E questo invisibile che non vediamo è quasi il 90% della nostra coscienza. Quindi tutto è molto relativo. Comunque, in ogni caso, quando faccio un film sento di fare uno sforzo verso questo discorso, verso queste cose. E non importa se il film è riuscito o meno, perché tutto quello che alla fine si vede nel film sono tutte queste piccole cose, una sorta di ordine precario delle cose. Per A longa viagem do Onibus Amarelho, ho questi 58 film e li guardo come film anonimi, perché in fondo lo sono. Tutti questi film sono stati visti pochissimo, poco diffusi e poco conosciuti, per gli altri e per me stesso. Servirebbe del tempo per comprenderli, e quello che cercavo rivedendo questi film non ero io. Ma volevo vedere, guidato dalla “in-coscienza”, se al loro interno c’era il Cinema. Quindi ho messo da parte i sentimenti della memoria familiare e dei ricordi personali, per fare spazio alla memoria del Cinema. Questa è una coupure mal-être (un sezionamento mal posto). Perché sono la stessa cosa, abbiamo un sentimento attraverso il quale trasmettiamo le cose agli altri, che è sempre indirizzato a qualcosa di specifico, ma che poi si trasferisce come un sentimento totale, non si possono separare. E la difficolta del cinema è il suo essere intimo, dice più cose di quelle che vorremmo dire, molte più cose…Ci mette a nudo. Perdi la tua essenza.
B.R.: È come se il cinema parlasse, ti guardasse, anche se non vuoi, e quando tu dici che “il film nasconde il Cinema”, è come se tu, con il tuo lavoro, vai cercando di estrarre il Cinema nascosto dal film attraverso dei movimenti e delle operazioni telluriche, magnetiche, geologiche di emergenza di qualcosa che ti attraversa. E’ come il lavoro di un rabdomante, tu cerchi qualcosa… Questa è la ragione che mi fa pensare che ci sia in questa ricerca ‘rabdomantica’ un continuo interesse per la ricerca del suono della luce, del suono dell’immagine e dei suoni nascosti ‘sotto l’immagine’.
J.B.: Cinema, è la più forte delle attività. Non puoi separarla…Se cerchi qualcosa nel Cinema, in fin dei conti non è niente di speciale a livello tecnico, ma è in gioco la passione più profonda, l’emozione più profonda. Per questo cerchiamo, parliamo di questo CINEMA, perché è lì che si nasconde e dove passano tutte le cose dell’universo. È una traversata dell’inferno, intima e in solitudine. Scegliere degli estratti di un film è come scegliere delle emozioni nascoste, emozioni che non avevi visto in quel momento, e che adesso invece sono i punti dove si nasconde l’emozione più forte. Ed è questo il Cinema: è l’amore che ti fa scegliere il punto.
Per Relampagos de críticas murmúrios metafísicos ho passato gli ultimi sei mesi alla Cinemateca di Rio guardando film muti alla ricerca di momenti in cui il Cinema era flagrante, protagonista. E in ogni film, non importa che film, ci sono dei fotogrammi anormali, dei momenti di Cinema in cui appare l’amore nella sua integralità. E non possiamo separarci, ad un certo punto stiamo vedendo l’amore.
E.M.: Come l’essenza dell’umanità e della storia dell’essere umano sono nascosti dietro alle piramidi d’Egitto. Non si sa dove, ma sono rimasti rinchiusi da qualche parte all’interno del monumento e allo stesso tempo non sono da nessuna parte.
J.B.: Tutte queste cose rappresentano un “doppio movimento”. Tu scegli mentre è la scelta a sceglierti. E questa cosa è curiosa, perché non sono delle rime, ma piuttosto dei paradossi. Coincidentia oppositorum.
B.R.: Coincidenza oppositrice. Nell’incontro tra un’immagine e un’altra c’è un momento traumatico dal quale fuoriesce una terza cosa, che non è né in una né nell’altra immagine.
J.B.: Come gli ideogrammi. Da solo significa una cosa, un altro significa un’altra cosa, ma insieme significano una terza cosa ancora. Questo è un po’ al principio di tutto. Tutto è così. Se qualcosa sale, qualcosa scende. E’ la formula del pathos che ritorna nel Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg: Mitra per il Sole che ascende…
B.R.: …e Fetonte che cade. Infatti Warburg studiò il Tempio Malatestiano a Rimini dove sulla chiave di volta dell’arco d’ingresso della cappella di San Girolamo (Santo cui tu hai dedicato un intero film) è scolpito un Sole, chiaro rimando alla luce come generatrice del cosmo. E Warburg mise anche in rapporto la Cappella Carafa di Santa Severina in San Domenico Maggiore a Napoli, e i suoi bassorilievi zodiacali, con le meditazioni di Giordano Bruno sull’ Arte della Memoria (arte delle immagini che era quasi un cinema ‘antelitteram’). Ne parlavamo con te proprio in questi giorni pesaresi. Nell’Atlante di Mnemosyne ricorre l’immagine di Mitra che sale verso il sole e di Fetonte che scende verso l’oscurità, verso la Terra. La caduta e l’ascesa. E questo è il movimento dell’immagine. L’ascensione e la discensione. William Blake direbbe il matrimonio tra il Paradiso e l’Inferno: The Marriage of Heaven and Hell.
J.B.: È il Pathos dell’immagine. Diversi anni fa avevo incontrato quest’uomo incredibile, un filosofo italiano, Emanuele Severino. L’ho conosciuto a Lipari, e abbiamo passato due o tre giorni insieme, e mi regalò un libro che si intitola L’anello del ritorno. Lui era un grande lettore di Nietzsche e di Leopardi. E diceva che Leopardi è il Nietzsche italiano, il Nietzsche prima di Nietzsche. Per questa cosa che, guardando al loro linguaggio e al loro temperamento, hanno lo stesso stato patologico, e grazie ad esso hanno prodotto un linguaggio quasi identico, uno con il suo italiano e l’altro con il tedesco, ma hanno creato espressioni molto simili.
B.R.: E a proposito di questo stato di Pathos, di stato patologico, quando tu giri un film non è un pò come se fossi posseduto? Perché in te si vede il magnetismo, la possessione e allo stesso tempo la visione ascensionale, come dei lampi, i Relampagos come dei momenti visionari. Tu esci au de haut de toi même.
J.B.: Sono dei momenti di comprensione e apprensione della luce, perché quando siamo al montaggio vinciamo sempre sulla luce, mentre quando giriamo perdiamo. Ma quello che volevo dire di Emanuele Severino è questa maniera che ha di descrivere la teoria, perché ha questo modo semplice e corretto di dire: la teoria è come una festa greca nella piazza, sono tutti insieme, ma ad un certo punto nel tempo, un occhio sale sulla folla e comincia a guardare i movimenti degli altri dall’alto verso il basso. E questa è la teoria.
B.R.: Theáomai!
J.B.: Da qui viene il teatro, theáomai è il teatro. E il teatro è il movimento degli dei.
B.R.: Il teatro è il movimento della visione.
J.B.: Vai da un oracolo per sapere se tua figlia si sposerà presto. Questo è quello che vuoi sapere dall’oracolo. E chiedi ad un prete di interpretare l’oracolo. Il sacerdote va dall’oracolo e gli riporta la domanda, poi aspetta e sente insieme all’oracolo la risposta. Guarda con lui, senza parlare, e poi torna da te e ti dice cosa ha visto. Questo atto è il teatro. Ti racconta cosa ha visto per avere questa risposta. Questo teatro è theáomai, il movimento degli dei.
B.R.: Trovo una analogia con Leme do destino, perché in questo film c’è questo movimento di rivelazione a partire dalla rivelazione del piacere della donna protagonista, ma anche rivelazioni della propria genealogia attraverso un movimento oracolare. Perché quando la donna ha avuto il coraggio di affrontare il trauma della rivelazione del proprio piacere, c’è anche il movimento che la riporta alla scoperta del figlio che aveva abbandonato. Aver incontrato questa donna per la protagonista è come se avesse incontrato Tiresia, una testimone che la riporta ai fatti reali della sua vita, le ricorda cosa era accaduto. Questo movimento è vorticoso e vertiginoso di visioni progressive che arriva attraverso un primo momento di possessione, in quella scena di danze dionisiache, e poi attraverso il momento dell’incontro fatale con il destino nascosto all’interno della roccia. Come se all’interno della roccia ci fosse un vortice di destino. La roccia è il leme, il timone in italiano, che direziona non con una volontà chiara, ma con una volontà oscura, come le foglie della sibilla.
J.B.: Questo è in qualche modo quello che vediamo nel film. Perché loro due insieme sperimentano tutte cose che sono molto pericolose per lo spirito. La danza dionisiaca, è terribile, è un momento di completa perdizione nel quale si fanno le cose più abominevoli. Ma tutto questo resta comunque un gesto. È per questo che Warburg mette insieme nell’Atlante l’immagine di una danza della decapitazione accanto ad una giocatrice di golf!
B.R.: In una delle Mnemosyne di Warburg c’è una raffigurazione della danza della menade con la testa di Penteo decapitato messa accanto ad una fotografia di una golfista che sta colpendo una pallina da golf. Quindi questa pallina diventa la testa di Penteo, sono due gesti.
J.B.: Ed è la stessa cosa. C’è un cambio di valore, inerente alla sopravvivenza, perfino la testa è diventata una palla da golf. Tutto questo è un unico gesto.
B.R.: Un movimento!
J.B.: Come le due donne nel film, che sono molto unite, vivono una relazione non solo intima, ma anche qualcosa che va oltre, verso una relazione di vita. Immagina una donna che non ha mai goduto, che non conosce che cosa è il godimento, che non sa neanche come si bacia una persona. Quando si ritrova a baciare il suo stesso figlio, lei poggia le labbra sulle labbra dell’altro e basta. Perché lei non sa niente di intimità. Per questo la sua amica le dice “il nostro amore è soft, dolce, leggero”. Perché non ha niente a che vedere con le mani, con la lingua, ma è un amore che si fa in un altro modo, e da quel momento che lei comincia a preparare un terreno sensibile, attraverso questi gesti fisici, come ad esempio la danza dionisiaca, una provocazione, ma che la portano a sentire! Sentire qualcosa! Anche noi potremmo avere dei fratelli o delle sorelle che non abbiamo mai conosciuto, e che sono qui da qualche parte. Ma per sentire se abbiamo davanti un nostro fratello o sorella, dobbiamo avere una certa anormalità della percezione. Come le feste greche, sono delle preparazioni, delle iniziazioni dello spirito. Queste due donne si preparano insieme a qualcosa, sono possedute in queste danze, e si perdono nello sviluppo del proprio godimento. E per vivere tutto questo bisogna essere capaci di sentire qualche attrazione proveniente dall’esterno, dalle sfere attrattive.
B.R.: Quando la protagonista scopre questo piacere, che è sia un piacere del corpo, ma anche un piacere dello spirito, può essere vista come una energia fondatrice dei movimenti nei luoghi. Per questo voglio chiederti, se questa è l’energia con la quale nel film hai fatto muovere le cose, gli oggetti. La corda, le scarpe, la matita, i libri, tutti mossi da questo magnetismo, e quest’energia è una energia dell’immagine, del desiderio, è il fuoco dell’immagine. Nella mia lettura del film, tu finisci con la consumazione del fuoco, la consumazione che continua nell’invisibile. Un pezzo di carta che brucia, come diceva Pasolini “il cinema si scrive su carta che brucia”.
J.B.: È la fine e la sua stessa ripartenza. Io avevo pensato al movimento di questi oggetti come se prendessero vita, ma non che l’oggetto diventi umano, no. Ma due di questi oggetti vivi sono direttamente legati ai sentimenti della protagonista: la corda, che ha la stessa etimologia del cuore in latino, rappresenta l’amore intermittente. E alla fine tutto questo dovrà essere bruciato, e dopo che tutto è bruciato, tutto può ricominciare. Questa è una idea molto interessante di Machado De Assis, che ha scritto un libro su qualcuno che è morto, Memórias póstumas de Brás Cubas, che scrive dall’oltretomba. Tutto è fondato sull’illusione che la vita è come un libro, ci sono diverse edizioni, piene di errori, se ne fanno di nuove, la seconda, la terza, ed ogni volta ne correggiamo gli errori, poi arriva l’ultima edizione, quando tutto è corretto e pronto, si muore. Come nelle parole di Pasolini, tutto deve bruciare per cominciare, e non per finire.
B.R.: Poi c’è il ritorno di un inizio…
J.B.: È il ritorno di un altro inizio. Che non conosciamo, ed è per questo che è interessante, un corpo a corpo con la terra devastata. Un altro mondo, il mondo incantato del cinema è finito, e domani ne cominciamo uno nuovo, da incantare ‘al contrario’.
E.M.: Abbiamo parlato dei greci, ma quando siamo venuti a Rio de Janeiro, con Elsa, sulla terrazza di casa tua avevamo parlato di queste montagne davanti casa vostra, della Rua Aperana, e che queste pietre significavano qualcosa per i nativi, e che significano ancora qualcosa, visto che sono ancora la. Nell’altro film che hai portato qui a Pesaro, sulla storia del cinema brasiliano, nelle prime immagini si vede la costa di Rio dove non ci sono molti palazzi, non c’è molta civilizzazione. E più i film avanzavano temporalmente negli anni, e più si vedevano apparire sempre di più questi grandi palazzi sulle spiagge, ma quelle grandi pietre restano ancora la, e dal mare osservano l’avanzare della civilizzazione. E per me, questi oggetti che si muovono in Leme do destino, sono anche legati a queste forze ancestrali.. Così come la pietra sul mare dove si ritrovano tutti nel finale del film…
J.B.: È questo la cosa importante di Leme do destino. Tutto comincia con l’immagine di una grande pietra, ancora prima del titolo del film, c’è questa Pedra do Leme. Leme do destino. Leme è una roccia preistorica, e tutto il suolo brasiliano che calpestiamo è un suolo preistorico, e lo sentiamo, anche se non si fa attenzione a camminare su questo suolo preistorico. Nel film c’è questo destino, tutto quello che accade cerca di dare un altro valore a questo mondo che viene prima dei palazzi e della civiltà. Il film vive di una forza ancestrale, che è in ognuno di noi, ma che non fa parte dell’identità nazionale. Può essere che in Italia, voi avete questa cultura così forte e lunga…
E.M.: Però non si dice mai che i nativi costruivano le loro case in legno, nel pieno della natura, e oggi non ne abbiamo tracce. Così come per tutta la cultura brasiliana, che è per lo più una cultura orale, e quindi anche nel discorso teologico, tutto esiste e si sente, ma non se ne vedono le tracce.
J.B.: Il fatto è che tutti questi miti sui nativi, sono delle ipotesi, Ralph Waldo Emerson diceva “Non c’è parte della scienza che domani non possa venire rovesciata”. È vero. Tutta l’antropologia è nata sulle ipotesi di gente che tentava di spiegare cose che non riusciva a capire, e in Brasile c’è una mitologia incredibile su queste grandi montagne, come vi avevo fatto vedere a casa mia. Sono due montagne, e quella dietro ha una forma conica, a piramide. E su queste due rocce, come raccontava nel sedicesimo secolo il frate cappuccino Abbé d’Aubeville, le donne danzavano e cantavano sulla più piccola e sull’altra gli uomini, che durante tutta la notte facevano festa alla luna piena e alla nascita del sole. Facevano queste feste ai piedi delle due principali divinità della mitologia nativa di questa epoca. Pregavano soprattutto Tupan, che rappresenta il sole e Cecy, la luna, ma prima c’erano altre divinità, altre raffigurazioni che poi sono state adorate anche dai Greci, dai Persiani. Tante culture sono passate per il Brasile. E questa cosa è folle.
B.R.: C’è questa ipotesi che i greci e i latini passarono per il Brasile, forse anche gli egiziani.
J.B.: È una follia, ma ci sono le tracce di questi passaggi. C’è un testo, Inscripções e Tradições da America Prehistorica di Bernardo Da Silva Ramos, sono una serie di volumi incredibili, e oggi è uscito anche un libro sulla poesia, perché ha creato un metodo mallarmeniano di scrivere, perché non c’erano foto nel diciannovesimo secolo, e ridisegnava copiando tutti i segni delle iscrizioni che studiava, e per leggere quello di cui lui parla, che nessuno conosceva prima, lui ha utilizzato una scrittura poetica, una sorta di De Saussure della preistoria brasiliana. E distaccando le diverse linee che compongono i segni ritrovati in Brasile, dimostra come ogni linea è presente anche nell’alfabeto greco, e ne descrive l’aspetto poetico. Possiamo anche dire che è impossibile che i greci siano venuti in Brasile, ma non è questo il problema centrale, ma è il suo metodo poetico, che gli permette di raccontare il mondo per come poteva essere. Per questo il suo discorso è stato messo da parte e distrutto dai positivisti, proprio argomentando con certezza che i greci non sono mai potuti venire in Brasile. Ma si, questo non è mai stato importante! È la poesia di questi manuali, la scrittura di Bernardo Da Silva Ramos che andava osservata… Per concludere, è andato esplorando tutta l’America Latina, era tra il 1840 e il 1850 e ad esempio ha trovato una piccola colonna appartenente ad un tempio cinese in Ecuador. Questa cosa è di uno ‘spiritismo’ incredibile.
Sono andato anche io con Rosa in viaggio per tutta l’America Latina, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, e siamo andati in Ecuador, a Quito, nella capitale. Nei sotterranei della banca dell’Ecuador c’è un museo sconosciuto, che si chiama Museo delle migrazioni transpacifiche. E questo museo è pieno di oggetti cinesi trovati sulle coste d’Ecuador, scodelle, posate, gioielli, tutti oggetti cinesi trovati sulle coste del Pacifico.
B.R.: È una ipotesi di ‘migrazione delle immagini’ dei popoli.
J.B.: Ma si, ma ti rendi conto. Questa cosa è incredibile! Da Silva Ramos ha avuto questa intuizione proprio perché ha riconosciuto nelle immagini delle cose che gli sembravano vicine.
Dieci anni fa, al Festival di Rotterdam, c’era un giovane direttore, bravissimo e di origini cinesi, che parlava soltanto il cinese, ed io non parlavo che il portoghese brasiliano. Ci siamo messi a conversare, era alto due metri e mi ricordo che era molto tranquillo, e gli parlavo di questa idea delle migrazioni transpacifiche, e lui mi ha detto che dove abitava, in una piccola città di provincia, c’era un museo dove aveva visto delle mappe antiche dove erano disegnate le rotte per attraversare il Pacifico dalla Cina all’Ecuador, passando tra diverse isole che a seconda delle maree apparivano e sparivano. E seguendo queste isole si arrivava fino all’America. Quand’è cominciata questa follia? Grazie a quest’intuizione, di quest’uomo che ha finito la sua vita abbandonato a se stesso, per strada, come un miserabile…E poi questi due volumi di duemila pagine l’uno sono stati pubblicati quarant’anni dopo la sua morte, in un’unica edizione: Inscripções e Tradições da America Prehistorica. Tutte queste ipotesi spiritiste e folli sono qui in questo libro, e soltanto le persone più sensibili, come si può vedere nelle sedute spiritiste popolari di umbanda e macumba ancora oggi, possono sentirle. Vedi un uomo che arriva, con la giacca e la cravatta, elegantissimo. Poi si spoglia e diventa uno spirito di un Caboclo, di un altro uomo, e comincia a fare delle cose e a dire delle cose, e alla fine della seduta, si riveste e torna come era arrivato. Tutto questo esiste non solo in Brasile, ma esiste in tutto il mondo, e questo significa che chi ha una sensibilità un accentuata può arrivare a provocarsi degli ‘stati altri’, e arrivare a sentire questo genere di cose. Sentire questa cosa importante che è la confusione, l’importante è la confusione!
B.R.: Con – fusione.
J.B.: Sono delle cose difficili da comprendere nell’incomprensibile, ma sono proprio lì che abitano queste cose.
B.R.: Ma è proprio lì, come dici tu, che i cliché si trasformano in caos.
J.B.: Questo è un discorso grande, e mi viene in mente la visione di un uomo geniale e sensibile, che non è più tra di noi, un poeta della pittura francese che si chiama Paul Cézanne. Lui aveva questa visione scura del mondo, ma diceva che tutto quello che facciamo sono dei cliché. Chi scrive un romanzo, chi fa la musica, chi dipinge…Che cosa abbiamo tutti nella testa…Cliché! Cliché di Petrarca, cliché di Mozart, cliché di Cézanne…Abbiamo la testa piena di cliché, e il primo passo è quello di prendere tutti questi cliché e metterli nel caos più totale. Caos!
B.R.: Un caos – mos.
J.B.: Tutti i cliché nel caosmos. E che ce ne facciamo di tutti questi cliché che ci circondano? Il passo successivo è farli cadere nell’oblio, nell’abisso. E questo è veramente difficile. Tutto quello che abbiamo in realtà sono proprio questi cliché del mondo, e se li butti nell’abisso perdi tutti questi punti di riferimento. E perché? Per PROVOCARE LA CATASTROFE! La catastrofe è quando tutto è caduto giù. E solo a quel punto si può ricominciare. Ma non ricominciare dalla catastrofe, dalle rovine, no. Cominciare a pensare. Ci si avventura nella foresta nera.
B.R.: Cioè praticamente quando hai attraversato la foresta nera, esci e trovi che quei cliché sono altro, come se la materia avesse trasmigrato in oro. Sei come un alchimista.
J.B.: Esatto, è per questo che bisogna attraversare la foresta a piedi. Perché con l’aereo vedresti la foresta da lontano, ma per conoscere i segreti della foresta devi attraversarla dall’interno, entrare da terra nella foresta. La posizione del creatore è come una posizione suicida…Perché esponiamo noi stessi alla sparizione. E questo succede molto spesso…Io ho già passato questa fase. E perdi la ragione, ti senti perduto. E ti serve qualcuno che ti aiuti…Io ho avuto la fortuna divina di avere accanto a me mia moglie Rosa, che mi ha educato, mi ha dato gli strumenti per raggiungere qualcosa che non sono ancora capace di raggiungere. L’arte è molto bella da vedere, ma è dolorosa da fare.
B.R.: Questo è il momento che l’alchimista affronta nella fase necessaria della nigredo, attraversare il nero, imparare a vedere nel nero per poi riconoscere la luce, e il bianco. L’aurora che nasce nell’orrore (“Cela s’appelle l’aurore” direbbero Bunuel e Godard, e ‘aurore’ fa assonanza con ‘horreur’). Volevo chiederti ancora una cosa. In Relampagos de Críticas Murmúrios Metafísicos, tu fai questo cammino attraverso le immagini come se fossi alla ricerca di un ‘luogo comune’ tra queste immagini, ed io ho riconosciuto una certa ossessione per gli occhi. C’è questo nonno cieco all’inizio, poi il dettaglio su quegli occhi che tornano, c’è quell’immagine dell’ipnotizzatore che hai scelto di José Mojica Marins… È come se tu cercassi di far uscire questi occhi incatenati nelle immagini, consumare i tuoi occhi, trovare altri occhi e mangiare con gli occhi.
J.B.: Tutti questi film, non solo quelli dell’epoca del muto, tutti i 48 film che compongono Relampagos de Críticas Murmúrios Metafísicos, hanno una cosa in comune che si chiama attraversamento. Cioè trattengono in essi una memoria incosciente del tempo. Ogni immagine ha qualcosa al suo interno, ed è per questo che bisognerà ancora continuare ad interpretarle… Perché ogni cosa che accade all’interno di queste immagini resta legata al momento in cui stava accadendo, ed è proprio questo tempo che rimane sempre nascosto, e per questo le immagini hanno questa specifica memoria nascosta ed incosciente del tempo. Questo è curioso perché guardiamo tutti i film con gli occhi, e quello che accade è grande, è la difficoltà, questo grande sforzo che dobbiamo fare per vedere, per guardare. Il primo film di finzione brasiliano è del 1909, anche se in giro si trova scritto che è del 1911, ma è soltanto uscito nel 1911, infatti era stato girato addirittura nel 1908…Comunque è la storia di un anziano che sta per diventare cieco, il film si chiama Os Óculos do Vovô, Gli Occhiali del Nonno. Come per il problema del cinema, guardando tutti questi film brasiliani, ho trovato sempre questa questione del vedere e del guardare. E ci sono così tante cose che bisogna saper vedere prima di poter mettere una immagine a nudo, ci vuole un grande esercizio dello sguardo. Mettendo alla prova continuamente gli occhi, altrimenti non si può. Si dovrebbe poter fare un’operazione della cataratta. Aprirsi…Come guardare…cosa dovrei guardare? Perché in Brasile siamo un paese dove tutto è venuto da fuori, purtroppo non ha niente di veramente brasiliano, tutto quello che c’era di brasiliano è prima del XVI secolo, ma dopo l’arrivo degli europei qui tutto, fino ad oggi, non è propriamente brasiliano. Ed è per questo che in Brasile il problema principale è quello dello sguardo, il luogo comune dei film brasiliani è la difficoltà di guardare, la lotta per lo sguardo. Ciò vale per tutti i film, anche quelli che cominceranno a girare domani, tutti i film e tutti i cineasti brasiliani, chi consapevolmente, chi inconsapevolmente.
B.R. Un esercizio del guardare, un gesto di ‘compossibilità’ del guardare.
J.B.: Certo, perché bisogna creare un altro senso del guardare, un’altra forma di vedere. Una forma reale di métissage, il meticciamento delle razze è soltanto un inizio. La vera fusione comincia dopo, con l’ibridazione del pensiero, l’incrocio delle filosofie. E questo è il vero meticciamento. Forse in Brasile siamo già avanti in questo percorso…E questa cosa richiede un grande sforzo, soprattutto oggi, che la vita è molto difficile, e dobbiamo costantemente pensare alla nostra sopravvivenza. Il cinema in questo è la più complessa delle arti. Perché in generale si devono seguire le esigenze delle arti, ma è già questo un grande sforzo, ma per come sono messe le cose oggi niente invita a compiere questo sforzo. La prima grande difficoltà dell’arte sta nell’autodisciplina, ma poi subito dopo viene la sopravvivenza, quella che ti fa pensare a come vivere. E oggi non lo so, in questo chiaroscuro…
B.R.: Come attraversare questo chiaroscuro, e avere la possibilità e la sensibilità di continuare ad esercitare, fino in fondo al percorso, uno sguardo che possa andare all’interno delle cose. Questo è il cinema che si nasconde nella vita…
J.B.: La difficoltà di oggi è giustamente quella di avere un tempo irresponsabile. Per uscire dalle catene della vita serve un tempo irresponsabile, ma la vita adesso è molto attenta alla sopravvivenza e al benestare dell’individuo, e tutto questo è diventata oggi una nuova difficoltà da superare. Anche io, che ho un grande privilegio nel fare cinema, ho sempre difficoltà a portare avanti le mie ricerche, sono sempre costretto a fermarmi per poi riprendere. Oggi, mi viene da pensare che esiste una nuova forma di schiavitù, che è l’inseguimento del salario. Prima per vivere più si lavorava e più si guadagnava. Adesso ci sembra sempre di lavorare per raggiungere questo salario che non ci basta mai…
B.R.: Io purtroppo devo andare via. Mi dispiace fermare questo discorso politico che stava nascendo, ma devo prendere un treno tra poco…
J.B.: Sapete, io sto passando un momento molto difficile, nell’arte come nella vita, ma sono così contento di essere qui con te Bruno, di essere qui in questo momento con voi, e spero fortemente di rincontrarci ancora, ma ora che sei qui voglio dirti che ti sono molto grato di averti avuto nella mia vita.