Berlinale 75: Leibniz di Edgar Reitz
Nell’atelier del filosofo
di Paolo Vernaglione Berardi
Nel film di Edgar Reitz e Anatol Schuster Leibniz, chronicle of a lost painting, presentato lo scorso febbraio, fuori concorso, alla 75° edizione del Festival di Berlino, la monade, principio filosofico e urbanistico di Leibniz è lo studiolo del giardiniere di corte nella reggia di Charlotte di Prussia. La filosofia di Leibniz è il fondo del pensiero che si dispiega tra un esterno, che qui si avvia progressivamente a comparire, cioè il mondo, il regno, Berlino, la serie infinita della materia, – e l’interno, l’anima nel suo elemento di ragione, l’interiore tessitura della monade.
Come Gilles Deleuze ha argomentato, la filosofia di Leibniz è nell’ordine delle operazioni della piega: molteplici piegature, spiegamenti e orbita di superfici ripiegate, la cui rappresentazione è l’arte barocca del chiaroscuro, dei drappeggi, vortici, liquidità aeree, pienezze fluide, organi e vesti larghe, punte arrotondate e superfici fluttuanti; il tutto disposto in due piani in cui ci sono le stanze di abitazione del pensiero del filosofo. I due piani sono quello della materia sensibile, il mondo, le molteplicità organiche, e, al piano superiore, quello dell’anima che si eleva fino agli spiriti che vivono secondo il principio selvaggio di ragione.
La piega è ciò per cui il visibile diventa dicibile, ma bisogna apprendere l’arte infinita della trasposizione della vista in parole. Nella Monadologia «i composti simbolizzano coi semplici», cioè il visibile è trasposto nel dicibile. La piega che è il dispositivo di esistenza che separa visibile e dicibile, è governato dalla legge degli inversi. Il film fa girare il pensiero del filosofo al contrario. Non c’è dicibile e non c’è un interprete se non c’è del visibile, che è il visus, il viso che emerge dal fondo oscuro della tela. Nella Monadologia la monade è l’immagine rovesciata di Dio. Al contrario, il film percorre la trascrizione del dicibile e dell’ordine delle parole nel visibile della scena.
Il doppio spazio si estende orizzontale: è la scena unica dello studio-atelier che dovrebbe corrispondere al luogo della monade che, al limite estremo verso il fuori lascia filtrare uno spiraglio di luce mondana, e al limite interno verso l’intimità, promana le idee da forze oscure. Si tratta della circoscrizione di forze primitive modulate da luci radenti.
La materia organica, l’esterno quasi visibile dallo studio, è sua volta animata da due forze, elastica e plastica. Il secondo spazio, in cui si ripiegano le pieghe dell’anima, è il teatro degli spiriti: una porta nascosta introduce all’origine della tripartizione: monadi, anime, spiriti che sono proiezioni delle anime sulla materia inorganica.
Nel saggio Il nuovo sistema della natura il filosofo indica che la piega è sempre tra due pieghe. La piega connette separando il primo piano e il secondo, l’esterno, la città, la reggia, il giardino, e la monade studiolo che opera a sua volta la piegatura tripartita di Esistenza, Mistero e Bellezza. Forze derivative in basso, forza primitiva in alto. Le une non ci sono senza le altre. L’errore di Cartesio è stato di derivare le forze di ragione, il cogito, dalle forze derivative, mentre il rapporto corpo-mente è l’effetto di induzione delle forze primitive sulle forze di esistenza.
Infatti, il primo tentativo di ritratto del filosofo, che è la proiezione dello struggente, barocco desiderio della regina, fallisce, perché realtà e verità del soggetto sono forzate dall’arroganza della rappresentazione.
Tuttavia il pensiero non si dà sul piano del visibile ma del dicibile o leggibile. Ovvero, la materia indifferenziata che è il fondo oscuro della monade, il mondo che è serie infinita filtrata nella piega, ottengono l’enunciabile.
Nella Monadologia l’impossibilità di vedere tutto – il corpo trasparente – si riduce nella capacità dell’anima di leggere in sé stessa «ciò che vi è rappresentato distintamente». Dal fondo del visibile, che è oscurità piena, la monade trae la parte di mondo che riflette e in cui si riflette l’armonia. «L’armonia è definita una scrittura verticale, che esprime la linea orizzontale del mondo».
In una lettera ad Arnauld Leibniz scrive che due monadi cantano ciascuna la propria partitura senza conoscere o sentire quella dell’altra e tuttavia si accordano alla perfezione. Ciò che una monade esprime oscuramente è espresso chiaramente da almeno un’altra monade. Il segno dell’esistenza armonica è il fatto che «i sensi sono conformi». Il dicibile viene enunciato attraverso la vista. Il visibile scompare nel dicibile attraverso il pensiero. «Ciò che non so posso dipingerlo».
La monade è costituita di luce e di tenebra, 0 e 1 dell’aritmetica binaria inventata dal filosofo, cecità di luce e immersione nel buio. Una certa spiegazione della differenza tra il visibile e il dicibile è nella giustificazione del calcolo infinitesimale, ove la ricerca delle variazioni genera pieghe infinite e non un’unica superfice di iscrizione.
“Ne porte né finestre” è la condizione della luce che penetra nelle crepe. Sprazzi di luce radente nella buia interiorità sono raccolti da specchi assetati. Il dispositivo di conoscenza si appronta nell’oscurità corporea della materia vivente al primo piano della monade. Gli oggetti sono investiti da un divenire temporale e si dinamizzano quando il canone univoco, maschile, strafottente del pittore professionista si dissolve nell’artista indipendente: il divenire donna della piega di spontaneità.
Allora, il ritratto diviene oggetto manierista, non più essenzialista. Dall’apertura, finestra chiusa che filtra raggi angolati, il primo specchio riflette una luce piena al secondo, che la proietta sul volto del filosofo che è il punto di vista della monade. É il ritratto possibile che si ripiega nella modulazione di colori, suoni, gesti. I gesti a loro volta si dispiegano negli atti esteriori della pittrice: preparazione dei colori, disposizione del cavalletto, ricerca dei punti di rifrazione degli specchi e dell’illuminazione frontale.
Questo movimento è interno alla dinamica spaziale dell’ambiente in cui si dispiegano i gesti di interiorità del filosofo: riflessioni nel dialogo con l’artista, comprensione della tecnica pittorica, immersione in un pensiero comune che non risolve la differenza tra visibile e dicibile ma la ordina in un’armonia prestabilita. Qui l’azione della verità sul soggetto non è la scoperta di ciò che è nascosto sotto il panno protettivo della tela, ma è la progressiva trasformazione dell’insieme delle azioni dell’artista e del filosofo nello spazio dell’atelier. Ogni monade rispecchia l’intero universo dal suo punto di vista. Ma ciò non significa che la verità è la totalità del mondo, perché solo una parte di mondo si distingue nel rispecchiamento che ne fa la monade. Il dialogo è ricerca di una posizione, di un punto di vista, di una presa di posizione; è l’espressione di un dicibile che esclude la visibilità.
In Leibniz l’azione delle forze primitive di ragione sugli oggetti è dicibilità infinita, – la molteplicità delle monadi al primo piano della materia sensibile. Nei Nuovi saggi, la monade ha una camera oscura che nel film rivela il fondo abissale da cui emergono la macchina calcolatrice e gli appunti di una vita che pendono da un bastone appendiabiti.
Nelle Considerazioni sulla dottrina d’uno Spirito universale unico, Leibniz scrive che l’esistenza del mondo è solo virtuale. Ogni monade esprime il mondo intero ma solo una piccola regione è espressa chiaramente. La potenza di appercezione illumina un singolo distretto nella magnetica oscurità della percezione. Nello studiolo la ricerca della luce nella chiusura dell’ambiente e la ricerca degli angoli di riflessione della luce sul volto del filosofo presentano la serie infinita del mondo nella piega del movimento infinito della ricerca.
Due conseguenze di spazio e di tempo condensano due esteriorità di desiderio che in Leibniz e nel film formano la piega che ripartisce dicibile e visibile. Sul piano del visibile il fuori è il desiderio del ritratto, la cui realizzazione si sfalda al progredire della malattia di Charlotte. Sul piano del dicibile è la scoperta del fondo oscuro della monade che segue la paura del nulla da parte della pittrice e la paura di non poter conoscere da parte del filosofo. Come Heidegger ha dimostrato, la domanda sul perché “esiste qualcosa piuttosto che il nulla” rimane inevasa sul piano del dicibile e trova conferma sul piano del visibile.
La ragione, forza primitiva, ripiega l’invisibile nel dicibile e dispiega l’indicibile nel visibile. In ogni caso la materia vivente è l’infinita parte sommersa del mondo che sostiene l’esigua porzione fluorescente di elevata chiarezza. In quella cima Leibniz elabora la lingua artificiale, logica, computazionale, presentata nei teatri di corte, nella cui scena, approntata dal lume naturale, è ripiegata la materia brulicante della sostanza semplice.
Sempre due piani: quello della lingua computazionale, lingua formale di presentazione espressa nella macchina da calcolo e nella mimica profusione di inchini al sovrano di Vienna; e quello delle percezioni della materia caotica che l’appercezione dichiara solo in un distretto.
Negli Elementi di filosofia nascosta Leibniz scrive che «bisogna mostrare che Dio è una persona, ovvero una sostanza intelligente. Bisogna dimostrare rigorosamente che Dio si sente agire in sé medesimo…». L’armonia di Natura e Grazia sarà allora visibilità indicibile, esclamazione barocca di una ragione senza lingua. Questa ragione è perfezione che è attributo di Dio. Infatti, la perfezione non è il canone da attribuire ad una scala quantitativa dal meno al più perfetto, ma è la qualità degli enti. Nel Discorso di metafisica ciò «…è tanto più vero, in quanto proprio dalla considerazione delle opere se ne può scoprire l’artefice…».
D’altra parte i gradi di perfezione dipendono dal fatto che “nulla è senza ragione”; che dunque hanno ragione di essere anche le imperfezioni della perfezione. La piega del dicibile nel visibile connette infatti i due infiniti della ragione e della sensibilità. Nella pienezza della piega «…ogni mente è onnisciente, benché in modo confuso. E ogni mente percepisce simultaneamente tutto ciò che avviene in tutto il mondo: e queste percezioni confuse delle infinite varietà simultanee producono le sensazioni che proviamo dei colori, dei gusti, del tatto. Tali percezioni infatti non constano di un solo atto dell’intelletto, ma di un aggregato di infiniti.».
Alla fine dicibile e visibile, anima e corpo mostrano il nesso immanente della creazione: «Infatti Dio sin dall’inizio plasmò l’anima e il corpo con tanta sapienza e tale artificio che, per la stessa primaria costituzione e nozione di entrambi, a tutto quanto avviene all’uno corrisponde perfettamente per sé tutto quanto avviene all’altro, come se trascorressero dall’uno all’altro…».
In L’origine radicale delle cose tutti i possibili tendono all’esistenza. Perfezione è quantità di essenza. Il modo migliore per realizzare qualcosa è in base ad un principio economico – minima spesa, massimo effetto. Una matesi divina o meccanismo metafisico è all’operaper realizzare il massimo. «Come la possibilità è il principio dell’essenza, così la perfezione, o grado dell’essenza…è il principio dell’esistenza».
Le cose esistenti e le cose possibili hanno realtà. Il mondo è “perfettissimo” fisicamente e moralmente «perché in verità la perfezione morale è la perfezione fisica delle menti». Il mondo non è solo una macchina, è anche una repubblica, in cui è conferito alle menti il massimo di felicità «in cui consiste la loro perfezione fisica».
In una delle lettere a Charlotte Leibniz scrive che il suo pensiero è come la tela di Arlecchino e che «vi sono ovunque vita e percezione» e che «noi non siamo gli unici esseri dotati di riflessione nell’universo…».
Ci saranno dei geni ma in fondo «sarà tutto ancora come qui». Secondo questo principio non ci saranno mai «anime staccate dalla materia». C’è infatti un accordo primordiale delle anime e dei corpi. I corpi sono disposti secondo le intenzioni di uno spirito universale, le anime sono specchi viventi dell’universo secondo la portata e «il punto di vista di ciascuna». É come se Dio «avesse creato altrettanti universi in piccolo, che si accordano nel fondo, ma sono diversificati nelle apparenze». Ecco perché il pittore che identifica il fondo con l’apparenza fallisce; ed ecco perché invece il divenire-donna dell’artista riesce nel fare del dicibile la piega del visibile. Il ritratto esiste, senza realizzarsi.
Alla morte della regina la piega si rompe in due involti: un ritratto senza soggetto visibile e un punto di vista senza oggetti conoscibili. Le due situazioni, che mostrano l’armonia prestabilita, dimostrano l’insieme concettuale di una dicibilità invisibile. Sono i primi passi nel giardino nebbioso.
