Venezia 82: Masterclass di Tsai Ming liang
A cura di Daniela Turco
Back home potrebbe sembrare un titolo piuttosto contraddittorio per un film che non è un ritorno a casa – non lo è almeno per il regista, nato in Malesia e poi trasferito appena ventenne a Taiwan per studiare cinema -, eppure è indicativo dell’abilità di Tsai Ming liang nello scegliere i titoli, solo apparentemente semplici, carichi invece di una ambiguità e di una molteplicità di senso che invita a essere esplorata. Per inciso, il film precedente di Tsai Ming liang, Abiding nowhere (2024), ultima tappa americana della serie Walker, dichiara invece fin dal titolo un’impossibilità ad “abitare da nessuna parte”, che appartiene alla figura in costante lentissimo movimento del monaco/Lee Kang sheng, ma anche all’essenza più profonda del cinema, immagine impermanente che si/ci muove. Ritornando a Back home, “home” è, in questo caso, il Laos, il paese da cui proviene Anong Houngheuangsy (già presente in Days e in Abiding nowhere ad affiancare la “stella fissa” Lee Kang sheng), che infatti appare qui nella prima sequenza, addormentato sul sedile durante il viaggio. Il ritorno a casa riguarderebbe quindi Anong, che si trova in Laos per far visita alla famiglia ed è accompagnato dal regista, che, straniero in questa terra di cui non conosce la lingua, adoperando una videocamera Canon e una Leica, prosegue la sua riflessione sull’abitare possibile/impossibile – uno dei temi più ossessivamente presenti nel suo lavoro –, attraverso un itinerario che raccoglie una serie di inquadrature di case, quasi tutte abbandonate, sparse nel paesaggio circostante, che, nel montaggio, stranamente incalzante, come di slides che si inseguono, formano la materia sensibile di quel cinema “scolpito a mano” che il regista cerca di liberare. In questo fitto catalogo di case laotiane soggetto/oggetto all’interno dei frames, si avverte una scelta già presente nella teoria dei volti in Your face (2018), che qui risulta capovolta: in Your face si trattava di filmare-dipingere la singolarità intima dei volti come fossero dei paesaggi, mentre in Back home sono le case disabitate, disseminate nei campi, a diventare esse stesse il volto del paesaggio, in cui sono immerse. Alcune di queste case sono colorate, altre diroccate, a testimoniare quell’amore del regista per le rovine di cui un film come Afternoon rappresenta l’epitome definitiva, ma in larga parte un po’ sbilenche e incompiute, arrampicate sui pali che le staccano dal suolo, e quasi tutte prive di abitanti, con l’eccezione di qualche animale che attraversa le inquadrature, immerse in un silenzio sospeso che diventa l’ultimo avamposto del cinema di Tsai Ming liang, dove la realtà fisica più concreta si rovescia sempre nell’ombra indecifrabile eppure presente di una metafisica irraggiungibile. Tutto è estremamente prossimo, documentale e fortemente teorico, in questo “piccolo” film dove gli appunti di viaggio diventano immagini-pensiero, eppure tutto è come disperso in un altro tempo, in un’altra lingua, in un altro mondo, rurale – in alcuni punti si pensa alla forza di certi appunti pasoliniani in Africa – dove ogni cosa accade e si muove senza troppa fretta, una giostra contesa dai bambini e da un cane, le conversazioni teneramente domestiche dentro la casa della famiglia di Anong, la presenza sommessa e diffusa di un genius loci, evocato dalle statue dei Budda dipinte con attenzione dagli artigiani ai bordi della strada. Tutto si muove e scorre in Back home, eppure tutto si àncora alla bellezza enigmatica strappata da ogni inquadratura; Tsai Ming liang, che, come ha detto di recente in una intervista, dopo essersi da tempo liberato dalla prigione della sceneggiatura, ora si vorrebbe anche liberare dei titoli,[1] che sente come un limite per il cinema che ha in mente: un cinema che possa fluire senza confini come il pensiero, e che continui attraverso il suo sguardo persistente e gentile a scolpire il tempo e, misteriosamente, a creare ciò che esiste, animali, piante, persone, case, suoni, che si fanno elementi magici, poesia ancestrale di un mondo che ancora prova ad accordarsi con i nostri desideri. (d.t.)
Il giorno 5 settembre 2025, in dialogo con Elena Pollacchi, nel corso di una masterclass Tsai Ming liang ha riattraversato alcune tappe del suo percorso nel cinema, partendo dai suoi esordi, e dal Leone d’oro vinto a Venezia nel 1994 con Vive l’amour, per arrivare all’ultimo film presentato alla Mostra del 2025, Back home. Nella trascrizione della masterclass che segue si possono incontrare le sue idee sul cinema come spazio in cui proteggere le proprie idee, sfuggendo alle convenzioni e alle mode, dove è necessario conoscere la strada tracciata dai maestri per trovare diversamente il proprio passo. Dove scoprire infine un po’ di cinema nell’incessante proliferazione delle immagini che noi stessi produciamo o trasmettiamo e da cui siamo costantemente accerchiati?
Tsai Ming liang: Ricordo di aver incontrato al secondo anno di università un professore che insegnava storia del cinema, ed è stato poco dopo che grazie a lui ho iniziato a fare televisione, ed è stato lì sul set televisivo che ho incontrato Lee Kang-sheng, che in seguito avrebbe avuto un ruolo molto importante nei miei film. Allora seguivo molto i film della Nouvelle Vague e del Neorealismo italiano. Lee Kang-sheng invece cercava di studiare per superare gli esami di ammissione per entrare al college, ed è stato durante quel periodo, mentre passavamo del tempo insieme, che in me ha cominciato a prendere forma l’idea del mio primo film, Rebels of the Neon God (1992), un film semplice, che prendeva ispirazione dai problemi personali di Lee Kang-sheng, di un ragazzo, cioè, che tentava l’ammissione al college. E anche per i film successivi, Vive l’amour (1994), e The Hole (1998), ho sempre cercato di assecondarmi, di fare come sentivo di voler fare; ad esempio di questi due film non ho mai finito di scrivere la sceneggiatura.
Poi, in seguito, più o meno dopo il quarto film, hanno cominciato ad arrivare dei finanziamenti dall’estero.
Che cos’è il cinema? Tornando ad esempio a Rebels of the Neon God, non è che a me interessasse particolarmente il dialogo, mentre ero certamente attirato dall’idea del perdersi di questi ragazzi, inoltre volevo anche della musica nel mio film, volevo un pezzo musicale che sembrasse esserci e non esserci. E poi il film ha vinto il Golden Horse al Festival di Taipei nel 1992 per la colonna sonora.
Nell’ambito del cinema taiwanese dicevano che i miei attori erano sbiaditi, ma a me, soprattutto, interessava sperimentare, per me era un po’ come avere a che fare con degli insetti in un laboratorio. Io non mi fido dei dialoghi, non mi interessano, i miei attori non hanno cose particolari da dire, eppure i loro corpi esistono. Credo di essere stato il primo regista taiwanese a filmare qualcuno che si masturba. E nello studio, nello staff, erano abbastanza incazzati, ma io ho tirato dritto, non mi sono fatto sviare.
A Venezia, quando ho presentato qui Vive l’amour è stata una cosa strana, mi facevano domande del tipo: “ Ma non è che questo pianto è troppo lungo?”, “Non è che lo potresti accorciare almeno un po’?” E io allora ho risposto: “No. Non posso”. La giuria di quell’anno, il 1994, non accolse il film in modo omogeneo, anzi ci furono delle reazioni opposte, quattro giurati, però, lo amarono molto.
Ricordo che quando Marco Muller mi disse che avevo vinto il leone d’oro, io sul momento non ci riuscivo a credere, eppure è stato un premio importante per me, perché è stato da allora che tutti hanno cominciato a prendere in considerazione il mio lavoro, a conoscerlo.
Per me è assolutamente importante che il centro del film abbia a che fare con le fondamenta del cinema. E le domande che mi facevo sempre erano di questo tipo: rispetto ai grandi registi, Antonioni, Fassbinder, ecc, come ci si può differenziare da loro, pur continuando a tenerne conto?
Allora pensavo che avrei girato una diecina di film nella mia vita…Mi sono divertito a giocare e a usare il cinema come gioco, pochissimi se non assenti i dialoghi, pochi i movimenti della macchina da presa, il cinema non ha necessariamente bisogno di essere realistico. Ho sempre voluto nei miei film Lee Kang-sheng, e osservandolo, ho visto il mio riflesso su di lui. Quando Lee Kang-sheng si ammala io lo curo, e lo faccio e lo farò sempre, quando si ammalerà di nuovo.
Il film Days ruota in un certo senso sulla convalescenza di Lee Kang-sheng. Con il cinema ho percorso la mia strada, non mi interessa la moda, cioè, so che cosa c’è fuori, ma non mi interessa.
Ho sempre avuto alcuni punti fermi per realizzare un film: 1) devo ottenere dei soldi per girare. 2) Non devo essere controllato 3) nel film ci deve essere Lee Kang-sheng.
E ci deve essere la magia.
Elena Pollacchi[2] (che ha condotto la masterclass di Tsai Ming liang) gli domanda a questo punto se pensa che sia ancora possibile inventare nel cinema qualcosa di nuovo.
Oggi credo che la cosa meno importante siano i soldi, anche se per me ora è più facile trovarli. Nei trent’anni passati, e soprattutto per What time is it there?(2001) ho dovuto darmi molto da fare per cercare i soldi, anche se posso dire che in generale sono i soldi che hanno cercato me. Comunque preferisco fare film che non fanno botteghino e io questo lo metto sempre in chiaro prima: o l’idea di questo film vi piace, oppure non vi piace…
Quello che cerco è la possibilità di esprimere qualcosa con il cinema…
Ultimamente mi è capitato di collaborare molto con i musei, che in un certo senso, offrono più libertà. In un museo, un visitatore entra e comincia a guardare, è un’esperienza molto libera…Mentre nel sistema hollywoodiano c’è una certa lunghezza prevista per i film, e inoltre ci devono essere le star, una buona sceneggiatura, ecc., dunque, quelli come me, semplicemente non possono lavorare a Hollywood. Sotto questo aspetto, in realtà, il cinema è molto poco liberale. I musei, invece, mi hanno accolto, e io sono entrato, ed è lì che ho scoperto che il cinema era molto poco liberale…
Verso la fine degli anni 60, mi interessava molto un regista come King Hu, che aveva realizzato film come Come drink with me (1966) o Dragon Inn (1967), due film Wuxia che mi hanno ossessionato molto a lungo. Tuttavia, allora i film si dividevano in due principali categorie, da un lato i film di cappa e spada, dall’altro i film d’amore. Ma, quando è arrivato il mio turno ho scelto invece di cambiare. Pensavo: “sto sottostimando il potere del cinema”. Non volevo essere come i grandi maestri, volevo fare i miei film, il mio cinema… Tuttavia il sistema è molto rigido, e oggi con Netflix il cinema si è come normalizzato, non c’è visione estetica, prima esistevano registi come Hitchcock, Welles, Kubrick, ecc., e se i loro film li vedi in televisione è completamente un’altra cosa. Ho visto di recente Lawrence d’Arabia, un film che è un peccato vedere in tv. Speriamo che il cinema rimanga cinema…Naturalmente ci sarà sempre il cinema in quanto “contenitore”, anche se penso che forse dovrebbe cominciare a “musearsi”, ovvero, a spingere maggiormente il suo lato creativo, farlo venire fuori…Ricordo che quando il mio film Stray Dog aveva vinto alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013 il Gran Premio della giuria, poco dopo un museo di Taipei aveva accettato di mostrarlo per dieci settimane, anche se il film veniva anche distribuito nei cinema. Il pubblico dentro i musei è in un certo senso più libero, se crede può dormire, può portarci i bambini, ecc… Entrare in un museo diventa allora un’esperienza più intensa che vedere il mio film in un cinema. Ora i musei in Asia cominciano a essere più numerosi, e quando il pubblico esce da un museo è più sensibile, più “morbido”; penso che se le persone non vengono educate, non potranno sostenere il cinema d’autore.
A un certo punto, nel 2018, in seguito a una serie di viaggi, che avevo fatto, ho realizzato Your Face, che voleva essere una specie di omaggio al cinema. Volevo cioè fare un film che fosse composto soltanto di primi piani di volti e ho chiesto a Ryūichi Sakamoto di aiutarmi con la musica, e questo secondo me era un film molto adatto al museo, però, poi, ho cambiato idea ed è stato distribuito nei cinema. Anche i cinema, allora, possono diventare dei musei, e questo film il pubblico l’ha amato, e si tratta di tredici volti di persone ripresi in primo piano con la musica di Sakamoto.
Days invece l’ho girato durante la pandemia di Covid e Anong Houngheuangsy, l’attore che compare nel film, per un anno non era potuto tornare nel Laos il suo paese, e durante quest’anno di distacco ha fatto una serie di disegni, di dipinti. Dopo il Covid, ho legato l’esperienza del cinema a quella del museo; nel museo erano stati esposti i disegni di Anong mentre nel cinema veniva proiettato il film, così che con un unico biglietto gli spettatori potevano fruire di entrambe le esperienze. Per quanto invece riguarda The Walker si tratta di una serie di film che ho portato avanti nell’arco di dodici anni. Non c’è alcun contenuto, semplicemente in questi film Lee Kang-sheng cammina scalzo in tanti luoghi diversi: Taiwan, Hong Kong, Parigi, Marsiglia, Tokyo, Washington D.C.…Quest’anno i diversi The Walker saranno proiettati insieme e con un unico biglietto le persone li potranno vedere per ore ed ore, e io sarò presente, lì, con loro dentro il cinema. E’ cinema questa esperienza, anche così cerco di aprire la testa del pubblico; ad esempio ora sono appena arrivato qui a Venezia da Los Angeles dove sono stati proiettati i dieci film della serie The Walker.
Elena Pollacchi interviene chiedendo a Tsai Ming liang se il suo lavoro di sottrazione possa essere inteso come una risposta alla proliferazione di immagini nel cinema e non solo.
In effetti con il cellulare che può fare foto, girare video, posso a stento criticarli perché sono grezzi, se poi si pensa a Netflix… è un po’ come se si fosse perduto il senso estetico. Per registi come Chaplin, come Kurosawa, come gli espressionisti tedeschi, è l’estetica che è l’elemento fondamentale, oggi invece sono i dialoghi, lo storytelling a prevalere. Ogni inquadratura è una pittura, eppure oggi spesso tutto quanto sembra diventare “script”. Il film che ho portato qui a Venezia quest’anno, Back home, è la conferma di questo, ambientato in uno spazio nuovo come il Laos. All’inizio dell’anno sono stato per la seconda volta nel Laos, un paese abbastanza povero. Anong viene da lì, recita nei miei film, e proviene da un paese in cui spesso i giovani laotiani emigrano per lavorare. Sono persone molto divertenti, e le loro case sono diverse, per costruirle usano rami, materiali intrecciati che prendono dalla vegetazione circostante. Ho trovato questi aspetti molto divertenti, le case vengono ristrutturate spesso, ma vengono restaurate a poco a poco perché non hanno molti soldi, e spesso queste case sono inabitate, non vedi molta gente in giro, perché gran parte dei laotiani lavora all’estero. Anong doveva tornare nel Laos per una vacanza e per visitare la sua famiglia, e io l’ho accompagnato.
Lo seguivo nei suoi percorsi e io stesso ho fatto le riprese di un centinaio di case, più o meno, e non sapevo ancora che cosa avrei fatto di questo materiale, poi, quando sono rientrato a Taiwan mi sono fatto dare una mano dal mio montatore. In fondo, questo è un film scritto dalla macchina da presa e non dalla penna, e insieme, nel montaggio, abbiamo dato forma al film.
[1] Cfr. Whiteboard Journal, Jakarta,Indonesia, December 2024
[2] Elena Pollacchi è professoressa associata di lingua e letterature della Cina e dell’Asia sud orientale presso l’Università di Ca’ Foscari, Venezia.

