Venezia 82: Diagramma di immaginari collettivi
di Francesco Scognamiglio
La realtà si complica nel diagramma cartesiano del nostro tempo.
Reazioni a catena fanno esplodere tensioni e consapevolezze. Non parliamo più di cinema, qui c’è molto altro in ballo per cui lasciarsi trasportare. È tutta colpa delle immagini e ora iniziano le rivolte contro le illusioni.
Secondo le nuove tendenze emerse dal diagramma, l’oggettivo diventa, per i nuovi pensatori di cambiamento, fastidiosa imposizione di struttura. L’ordine sistematico della struttura è parte del matrix da distruggere, come ci insegna il 2000: il 2000 da ripensare.
Non può esserci confusione e nichilismo nei confronti della storia, per questo molti scelgono di credere ai modelli della fantasia rivoluzionaria. O meglio della rivoluzione fantastica: Beati i pirati della nuova era della pirateria. La bandiera della ciurma dei protagonisti del manga One Piece è davvero il simbolo delle rivolte per la riappropriazione di una morale e di una libertà soppressa dai pochi potenti del mondo.
La nuova generazione semplificando la distinzione tra bene e male ha accelerato il processo delle reazioni a catena.
Ad iniziare dalla scorsa stagione, il diagramma in questione indica un sentimento comune di giustizia che ha reso possibile la mobilitazione di massa. Nelle manifestazioni per la Palestina nessuno si è sentito più solo e impotente come prima.
Contrariamente alla visione pessimistica secondo cui l’uso sempre più pervasivo del cellulare condurrebbe a un isolamento e una più difficile rinuncia delle nuove ultra comodità, la grande rete favorisce lo scambio delle soggettività e l’intima espressione privata di ogni individuo.
L’applicazione in politica ma anche nel cinema è auspicabile su queste capacità di confronto che la nuova generazione possiede.
Presa coscienza di questa speranza, le immagini hanno avuto di nuovo la possibilità di parlarmi, libere.
Al Festival di Venezia, diverse soggettività si intrecciano e cooperano, dando forma a un unico grande film che somiglia un po’ ad un diagramma di immaginari collettivi.
“Noi siamo qui” si recita dopo essere stati sull’isola dei pirati.
Gli spazi si riempiono per poi svuotarsi. Come le 10.000 persone radunate qui al Lido di Venezia per la manifestazione VeniceForPalestine, giunta pacificamente, durante il pomeriggio del 30 agosto 2025, alle porte della cittadella del cinema.
Nonostante la presenza di punti in comune su cui la nuova generazione di proteste si riconosce e si mobilita, la mancanza di una chiara progettazione politica genera ansie per il domani.
Come ha detto uno slogan leggibile alle manifestazioni dei primi di ottobre di quest’anno: “Volevamo liberare la Palestina invece la Palestina sta liberando noi”.
È proprio in questo momento, di possibilità e costruzioni, che tremiamo all’idea che la folla scompaia improvvisamente.
La caduta nelle disillusioni quotidiane però mette a fuoco i fatti: “red pill” per rimanere umani.
“Umani”, come risponde Lilith nell’episodio “Mother” di Mather Father Sister Brother, un film a episodi di Jim Jarmusch.
Tutte le prime immagini di questi tre capitoli nascono dalla dolcezza dei colori e dei calori di una chitarra.
Le immagini scorrono per poi lasciare un bianco da riempire. Il dramma del cinema rispecchia il nostro: il funerale di ogni istante.
Quello che resta di queste famiglie viene riunito per poco tempo dinanzi ai bicchieri nervosi impegnati a riempire i silenzi vissuti con imbarazzo dai membri delle famiglie riunite. L’alcool di una vita dissoluta lascia spazio alla purezza dell’acqua che accompagna i rituali conviviali in cui ci immergiamo.
Scatoloni colmi di oggetti vengono trasportati e custoditi, proprio come accade con i ricordi preziosi: l’infanzia, con tutto ciò che ha significato durante la loro crescita, e le situazioni scomode di una lunga convivenza, fatte di caratteri divergenti o di comportamenti che ritornano tra le diverse generazioni.
Risplendono i segnatempo sui polsi dei personaggi in scena ma gli istanti presenti sfuggono spesso alla contemplazione.
Nasce un presente parallelo al gusto Paranoid Park, quando gli skater, pirati della strada, violentemente irrompono nel fluire celebrale dei protagonisti con meravigliosi momenti di moviola. È forse questa la sensibilità sacra, presente nelle atmosfere dei film dell’autore statunitense, che i fratelli delle prime storie hanno abbandonato o che forse non hanno mai posseduto per poter gestire la praticità del flusso delle loro vite materiali. E che invece in “Sister, Brother” i due protagonisti sembrano incarnare nonostante la recente perdita dei genitori.
Guardando i ricordi tra le mura di una casa svuotata dagli oggetti di una vita, i due fratelli si confrontano e si confortano a vicenda. Non avranno la forza di guardare il contenuto di ogni scatolone ma ne custodiranno la possibilità.
Lui con il microdosing di funghi riesce a simulare un apparente controllo sul suo stato d’animo. Lei, personaggio più umano tra i tanti, sotto il peso dei lucidi ricordi si immerge nel lago di coraggio, luogo da cui pescare ogni giorno immagini sufficienti per riempire il nuovo grande bianco presente sul suo avvenire.

Grazie ad un elemento di amplificazione, The Voice of Hind Rajab restituisce con un singolo evento di cronaca la dimensione collettiva delle ingiustizie percepite in questi anni di genocidio.
Tra le richieste di soccorso che arrivano alla Mezzaluna rossa, una flebile voce chiede aiuto: è Hind Rajab, una bambina di sei anni, che, rimasta bloccata in una zona di Gaza appena occupata militarmente dall’esercito israeliano, lamenta la presenza dei familiari morti all’interno dell’automobile in cui è nascosta. Per operare in sicurezza i soccorsi hanno bisogno di lunghe attese e procedure per ottenere un permesso da Tel Aviv. Il film resta dunque accanto agli operatori della sede di soccorso, impegnati a comunicare con la bambina mentre attendono il permesso necessario per intervenire.
Tutti gli audio della sventurata creatura corrispondono alle registrazioni reali di quelle telefonate, mentre gli attori recitano cercando di restituire le parole dette dai veri operatori della mezzaluna durante quelle ore di comunicazioni (anche se in brevi istanti, il film ci fa sentire anche le voci originali degli operatori). Questo permette una distinzione fattuale da ciò che il film è per natura e ciò che il film restituisce di vero in quanto tale. Interrompendo la sacralità della telefonata, la regista Kaouther ben Hania introduce una finzione necessaria per dare tridimensionalità ai protagonisti e per costruire dialoghi finalizzati alla denuncia delle condizioni illegali su cui gravitano le operazioni di soccorso civile dipendenti da un circuito infernale sviluppato ad hoc dai carnefici per renderle di fatto fallimentari.
Mentre gli operatori di soccorso cercano di prendere tempo supportando l’umore della bambina, si sente che alcuni proiettili colpiscono la carrozzeria dell’automobile in cui è nascosta e addirittura che un carrarmato sta cercando di schiacciarla. La vasta documentazione presente su questo avvenimento, testimone dei crimini di guerra contro l’umanità, comprende, oltre tutte le ore di audio della telefonata di emergenza, anche alcune immagini girate dagli impiegati della mezzaluna mentre gli operatori cercavano di comunicare con Hind Rajab.
Mentre l’operatore parla al telefono, vediamo che un cellulare in modalità videocamera effettua una panoramica per riprendere l’accaduto. Sul set del film, il telefono è stato filmato mentre attraversa l’inquadratura, mentre ciò che scorre realmente nel telefono sono le immagini originali registrate durante l’operazione.
La materia di cui è fatto il film vive tra queste due dimensioni – realtà e finzione – e si assottiglia sempre di più fino a scomparire dinanzi alla presenza delle macerie tragicamente reali ritrovate e filmate soltanto dopo i giorni di occupazione di quel punto tragico della mappa. Quando finalmente il soccorso sembrava essere giunto a destinazione, il veicolo esplose dinanzi l’automobile localizzata: ecco che un colpo di carrarmato era partito per porre fine a tutta la speranza.
Il film conquista l’immagine reale che vede il ritrovamento dell’auto e del mezzo di soccorso distrutti, sotto di essi, i cadaveri delle voci.
La consapevolezza con cui la bambina, durante la chiamata, dice di star per morire è un qualcosa di emotivamente devastante. Nessuno dovrebbe comprendere in così poco tempo la mancanza di speranza che ci può essere al mondo. L’orrore della consapevolezza rende i palestinesi gli esseri più umani su questo pianeta.

Impegnato già da tempo in opere che trattano della questione palestinese, Nicolas Wadimoff viene a conoscenza che il suo amico Jawdat Khoudary – anche attore di un suo film del 2018 dal titolo L’Apollon de Gaza – è riuscito, come pochi altri fortunati palestinesi, a fuggire in Egitto dal valico di Rafha prima del maggio 2024.
Dal loro incontro e dalle testimonianze sulla guerra raccolte tra i sopravvissuti, nasce Who is still Alive, un ritratto umano della tragedia palestinese.
Attraverso le storie di 9 rifugiati palestinesi, il regista svizzero ricostruisce una Palestina scomparsa, narrabile solo a parole. Riuniti in un teatro di posa in Sud Africa, spazio minimale in cui ricostruire le storie e i ricordi di una terra ferita, i protagonisti finalmente hanno l’occasione di raccontare nei minimi dettagli ciò che hanno vissuto nei primi mesi di genocidio: quando cadevano le bombe, quando le case crollavano e quando le persone che conoscevano morivano.
Un profondo senso di impotenza attraversa tutti loro, di fronte sia al proprio futuro che al destino della loro patria.
Nella prima parte del film vediamo i protagonisti mappare confini geografici con dei gessetti: delle città e dei quartieri in cui hanno vissuto, delle case in cui sono nati. Supportandosi a vicenda cercano di far riemergere tutto ciò che erano stati. Particolarmente toccante è la voce della più giovane, che in un flusso rapido e affannato cerca di liberarsi di tutto ciò che ha portato dentro di sé per tutto questo tempo.
In un secondo momento, il film si concentra sui racconti di ognuno di loro. Attraverso interviste intense e posate, ascoltiamo i particolari delle storie di chi ha vissuto sulla propria pelle la distruzione, la perdita e l’esilio. Jawdat Khoudary, Mahmoud Jouda, Adel Altaweel, Haneen Harara, Malak Khadra, Hana Eleiwa, Feras Elshrafi, Eman Shannan e Ghada Alabadla condividono esperienze diverse, ma tutte segnate da un profondo dolore. C’è chi parla del terrore delle bombe e di quel silenzio angosciante che precede un nuovo attacco, in cui ci si convince che restare immobili sia l’unico modo per rimanere vivi. C’è chi ha dovuto prendere decisioni impossibili, come lasciare la propria madre al confine perché non c’erano le condizioni per portarla con sé. E c’è anche chi racconta cosa voglia dire essere stato l’unico, tra i membri della famiglia, a essere ritrovato vivo tra le macerie della propria casa. Ogni voce aggiunge un tassello a un racconto collettivo di resistenza, di perdite e sopravvivenza. Il nero dello sfondo del teatro di posa amplifica l’attenzione sulla tragedia.
È il momento di uscire da questo teatro degli orrori: prendiamo una boccata d’aria con i protagonisti fuori dagli studios del set.
È chiaro che il trauma non può scomparire, ma attraverso la pluralità delle voci prende forma e trova ascolto. Nelle parole della più piccola tra i rifugiati, le problematiche dell’esilio si articolano nei racconti dei campi profughi in Egitto: del razzismo subìto a scuola e del continuo giudizio negativo che si abbatte su di loro.
Infine, Mahmoud Jouda ci parla delle conseguenze che può avere una violenza subita; racconta di quando, da giovane, aveva lanciato una pietra vicino a un carrarmato israeliano. Per questo motivo, i soldati lo inseguirono fino a irrompere in casa sua. Lo schiaffeggiarono e lo umiliarono, spiegandogli che in questo modo avrebbe imparato per sempre a non ripetere mai più un gesto simile. Oggi Mahmoud ci confida che quell’esperienza di violenza lo ha spinto a diventare uno scrittore.

