Venezia 82: Conversazione con Gianluca Matarrese
a cura di Sabrina Scansani e Marco Allegrezza
Il reality cinematografico pervade il Quieto vivere di Gianluca Matarrese, una tragedia greca costruita come un laboratorio teatrale e trasposta in scrittura filmica.
Qual è il limite del reale?
Siamo i performer di noi stessi, interpreti di una vita che è un grande canovaccio?
A Venezia arriva un film che non si limita a occupare lo schermo, ma invade anche lo spazio del Q&A, del red carpet, della prima con il pubblico, dei rapporti umani. In uno degli eventi più rappresentativi della messa in scena, le due protagoniste si ritrovano interpreti di loro stesse.
Sono Luisa e Imma, due donne scoppiettanti in lite da anni, una al piano di sopra, una al piano di sotto, in un piccolo paese in Calabria dove i parenti sono vicini di casa.
E mentre qualche attrice che sogna il grande schermo da tutta la vita si commuove fissando la propria immagine bidimensionale, Luisa e Imma diventano eroine inconsapevoli in un film che non è solo cinema, è arte dell’illusione, è un gioco di specchi che provoca un memorabile cortocircuito fra realtà e finzione.
G. M. Allora… parliamo del Quieto Vivere o di altro?
M. A. Parliamo di altro per parlare del Quieto Vivere, direi. A Venezia io non ho assistito al film con il cast in sala, perché l’avevo visto il giorno prima. Ho detto ai miei colleghi: dovete prenotare la proiezione con il cast perché succederà qualcosa! Ero sicuro che sarebbe stato un delirio, un carnevale.
G. M. Alla fine si sono comportate bene…
M. A. Come sei arrivato a questo film? Da dove sei partito?
G. M. Sono partito da lontano. In generale la gente pensa che faccio film in modo veloce, che in due giorni li covo e li faccio. Invece è da una vita che ce l’avevo in testa, che volevo fare un film sulla Calabria, la regione di mia mamma.
Tutto nasce dal fatto che ogni volta che incontro mia cugina Luisa, lei puntualmente, da sempre, fa dei grandi monologhi, usando spesso gli stessi termini, le stesse espressioni, gli stessi proverbi, sempre in dialetto. E io ho cominciato a registrarla.
Portavo questi zoom e li lasciavo sul tavolo. Mia mamma, che conosce perfettamente il mio lavoro, essendo stata lei stessa protagonista di Fuori tutto, le istigava, le provocava, le incoraggiava a parlare.
E quindi ho ore e ore di conversazioni, registrate nel corso degli anni, tutti i pranzi e le cene, con gli stessi aneddoti.
Luisa ha una certa teatralità, è colorata nei racconti di qualsiasi aneddoto. Ci sono cose che potrei stare qua a raccontarvi per ore… Lei ce l’ha anche con altre persone nel mondo. La politica, per esempio. Si è candidata anche alle comunali…
M. A. In che partito?
G. M. Non si può dire! Ci sono cose che ho tolto per non renderla antipatica, perché comunque è importante che si ami questo personaggio, anche se è molto spinto.
M. A. Istrionico, direi.
G. M. Sì, esagerato, ha anche una parabola inquietante e triste, ma allo stesso tempo ci si connette a lei emotivamente.
Quando riascoltavo i monologhi e li traducevo in italiano, ho iniziato a fare dei testi. Di solito filmo, vado a casa, monto, e poi scrivo con questo materiale. Invece, in questo caso, non giravo, raccoglievo soltanto. Mi piace molto raccogliere il materiale.
Poi con il coautore Nico Morabito abbiamo cominciato a lavorare sul personaggio, su questa parabola, a capire quello che poteva dire e quando dirlo, e abbiamo scritto un canovaccio.
Inizialmente il testo raccontava solamente di mia cugina Luisa.
Più ascoltavo, più le parole mi suggerivano immagini. Non avevo voglia di trasporle in azione, non c’era bisogno. Volevo fare un film sulla parola che evoca immagini.
Se ci pensate, non è così diverso da Gen_, dove ci sono delle conversazioni con il medico, e in La Dérnière Séance dove ci sono delle confessioni, o in L’expérience Zola, dove c’è tantissimo dialogo, con i due attori che mettono in scena un adattamento di un romanzo e quello che accade nelle loro vite si mescola a quello che accade nel romanzo e in scena.
Questa parola è teatralità.
Io vengo dal teatro, il teatro è il mio mondo, e questo film prosegue il tipo di ricerca del laboratorio teatrale. In questo caso il laboratorio è stato fatto con dei non-attori, che possiedono però un’estrema teatralità. Ed è l’unicità di queste donne della mia famiglia, e probabilmente anche della nostra cultura italiana.
Anche il titolo proviene da conversazioni con mia cugina, perché in dialetto “quieto vivere” si usa spesso, e ha molto più senso in italiano e in dialetto, che in altre lingue.
Noi capiamo subito cosa vuol dire, ma in inglese ho dovuto cambiarlo perché non c’è corrispondenza. Il titolo internazionale infatti è I want her dead, La voglio morta, che è un’altra cosa, però è divertente.
S. A. Come sei arrivato a includere anche l’altra cugina?
G. M. Dopo aver fatto dei sopralluoghi e aver scelto le location, ho mandato i miei genitori un mese prima giù per preparare il terreno, perché non si può arrivare e fare di colpo un film sulla guerra familiare che è ancora in atto.
Mi piaceva l’idea del gioco familiare, in cui i membri della famiglia giocano a fare altri ruoli e si ricostruiscono le scene di cui si parla. Così si è creata la dimensione della messa in scena fatta tra di noi, in famiglia.
Poi ho parlato con la cognata, Imma, l’altra protagonista, e lei ha accettato di fare il film.
Io sapevo che anche lei era un buon personaggio. La conosco di meno, perché è la cugina acquisita, ma conosco suo marito che è fratello di Luisa. Sono tutti personaggi molto teatrali. Appena l’ho conosciuta e le ho parlato, non sapevo più dove stesse la verità.
Forse il film doveva andare verso questo senso: a un certo punto si perde la verità e si entra nella dimensione della sociopatia, della follia.
E se si va a indagare all’interno delle dinamiche familiari, se si fa psicanalisi, poi diventa complesso. Ma l’obiettivo non era quello di trovare la verità.
Abbiamo costruito una specie di struttura narrativa: abbiamo deciso di filmare un pranzo di Natale, abbiamo deciso chi serviva per la scena, chi stava a tavola, come dovevano vestirsi, abbiamo scelto in che casa farlo e cosa mangiare.
Durante le riprese lavoravamo come se fossimo su un set: abbiamo preparato la stanza dove si sarebbe mangiato, abbiamo fatto la spesa e deciso tutti i movimenti e le posizioni delle persone. Abbiamo fatto i sopralluoghi, il pre-light, i punti macchina. Abbiamo fatto una specie di planning, con le zie che ascoltavano.
Poi loro hanno fatto tutto veramente, reagiscono, interagiscono, fanno tutto a modo loro. Le tre zie sono diventate per me da subito il coro tragicomico.
Così mi è venuta in mente la tragedia greca, perché nella tragedia greca non si vede mai la violenza in scena, gli atti violenti vengono riportati da messaggeri o altri personaggi. La parola che crea immagini è già tragedia greca.
M. A. Si capisce che questa storia sedimenta dentro di te: vieni da lì, è la tua terra, la tua storia. Ma è stata la “drammaturgia del reale”, cioè le situazioni vissute in famiglia che hanno portato a delle assonanze con il dramma epico, o è qualcosa nelle trascrizioni delle conversazioni, che ti ha fatto pensare che potesse diventare una vera costruzione teatrale?
G. M. No, tutto è arrivato in maniera progressiva. Volevo assolutamente inserire il teatro nel film, come teatro della vita e volevo finire con il teatro vero e proprio. Infatti inizialmente, la prima scena, quella dello scontro verbale, era in realtà l’ultima e il film si sviluppava con tutti i parenti che cercano di fare incontrare Luisa e Imma, e alla fine loro si incontrano, una da una parte e una dall’altra.
Ma se arrivi all’ultima scena dopo aver sentito per un’ora e mezza questa parola così incarnata, sei stanco e non le ascolti più. E poi avevamo difficoltà a spiegare la situazione all’inizio del film, chi è chi, le parentele varie, e qual è il problema.
Allora ad un certo punto ho pensato a questa follia: mettiamo questa scena dell’incontro all’inizio, non alla fine, partiamo a bomba così. E funziona. Non ci interessa sapere l’incontro sia avvenuto davvero, se è un flashback o un posto non realistico. Si inizia da questo caos, da questo coro e poi il film si conclude con una scelta esistenziale di solitudine.
M. A. La scena finale semina il dubbio fra il binomio fiction, non fiction… perché c’è la messa in scena ma c’è anche il documentario. E a un certo punto esplode l’aspetto della teatralità, che in loro è innato, e diventano corpo che urla: “registrate, sono arrabbiata e devo dire la mia verità!”
E il coro delle zie supporta questo gioco, così come la musica.
G. M. Il musicista ha lavorato sul folk calabrese, l’ha praticamente inventato, perché non esiste. A differenza di altre regioni, come la Puglia e la Sicilia, la Calabria ha una carenza di folk. Inizialmente avevamo delle basi che erano quelle per il montaggio, e poi in funzione di quello che veniva detto in scena, quando avevamo quasi finito il montaggio, il musicista ha riscritto i testi e abbiamo rifatto i cori in calabrese. Si sono messi al lavoro anche i parenti, per cercare le espressioni che funzionavano.
S. S. Corale, nel vero senso della parola!
G. M. Il film nel film sarebbe stato bellissimo. C’è una scena in cui le mie zie cercano di convincere Luisa a fare pace. In realtà quella era una scena per convincerla a fare l’incontro con Imma. Cercano in tutti i modi di farla ragionare.
Nella scena che poi è rimasta nel montaggio finale c’è una zia che dice: ti ricordi di nonna Luisa? Voleva la pace. Quando è morta ci siamo ritrovati, abbiamo comprato le pizze, abbiamo mangiato tutti quanti insieme.
Allora a un certo punto arrivava un pizzaiolo e distribuiva a tutti le pizze. Tutti mangiavano, Luisa e Imma mangiavano distanti.
E c’era questa bellissima inquadratura in cui una mangia e dietro l’altra balla, nella stessa inquadratura, una scena bellissima, con gli zii che suonano la fisarmonica.
È una roba che sembrava veramente il più grande stereotipo italiano mai visto. Però poi alla fine non abbiamo messo la scena nel film, non potevamo finire così, se no finiva veramente in caciara.
M. A. Il cibo a volte riunisce, in questo caso sicuramente scandisce. Sembra che sia usato quasi come scansione anche per l’organizzazione delle riprese.
G. M. Avevamo proprio le scadenze degli appuntamenti natalizi.
I personaggi non sono consapevoli di quello che significa fare un film, non sanno che può uscire fuori un mondo. E non si può fare in fretta il lavoro di ricreare le cose. Bisogna guadagnare fiducia. Io sono il cugino, quindi quello è un passo fatto.
Posso dire a Luisa: “organizziamo una cena perché voglio filmare te e i tuoi amici” e la cena è reale. Poi facciamo partire anche i fuochi d’artificio, così se mi serve che sia Capodanno, ho la scena già pronta. A loro non frega niente, sono dentro la festa. E tu devi partecipare veramente alla cosa. Non devi dire “fammi questo perché mi serve”.
S. S. Hai filmato tutto il tempo, non hai mai lasciato la macchina da una parte?
G. M. Di solito giro, ma questa volta no, perché avevo bisogno di essere veramente parte della cosa. In L’expérience Zola, eravamo a teatro e c’erano le steadycam, ed era più una situazione simile al reality, in tv, quando hai le camere da chiamare, fai la regia e monti in diretta.
Il mio modo di lavorare proviene dal teatro e dall’esperienza che ho avuto in tv. Mi fa impazzire la diretta, il fatto che guidi i cameraman, che ti allontani, poi ti avvicini.
In questo caso invece non avevo neanche i monitor, avevamo due Sony Fx9 con delle belle ottiche fisse e per sicurezza avevo anche la mia terza camera, una Panasonic EVA, con un’ottica Canon 70-200. Un’ottima camera che non fanno più.E poi, come si fa in televisione, davo indicazioni e istruzioni.
Quando facevo i reality, soprattutto quando c’erano delle liti, andavo da una parte e dicevo alla persona “guarda che lei ha detto così”, e provocavo la reazione nell’altra.
M. A. Quindi hai lavorato nei reality?
G. M. Ho fatto venticinque trasmissioni di entertainment in Francia, dai reality, ai talent, magazine sociétal si chiamano, sono tipo i programmi di Realtime. Ero autore, regista, segment producer, ovvero quello che produce “i candidati”, che fabbrica la narrazione. Ho imparato tutto lì, col teatro e con quella roba là che poi è ascolto, azione-reazione.
Queste cose fanno parte della mia scrittura, che cerco di mantenere sempre coerente, anche nella struttura più di finzione. E a un certo punto la ricerca acquista un senso.
Quanti registi vedo che fanno film, scendono a compromessi, non hanno coraggio, non sono creativi, e non riconosci mai una loro scrittura, una poetica, un’autorialità. Quando ti si comincia a riconoscere fa piacere perché capisci che stai veramente facendo un percorso. Io noto dei fili conduttori nelle mie tematiche, degli esperimenti che spingo sempre più in là.
Ci sono delle cose che mi fanno veramente impazzire. A volte non vado neanche in bagno, non mangio, come se fossi posseduto dal demonio.
E ti viene mal di testa alla fine della giornata, perché hai guardato un monitor tutto il giorno e non ce la fai tenere gli occhi aperti. Poi lo finisci il film e dici, mai più, basta!
E poi subito ricominci e ne fai un altro.
Adesso vorrei lavorare sul fatto che la mia estensione diventassero anche gli altri, perché non c’è bisogno che stai sempre con in mano la macchina da presa, puoi anche stare fuori.
M. A. Mi fa pensare ad Albert Serra, che fa dei take lunghissimi e dà indicazioni agli attori con gli auricolari, un po’ forse il contrario del Metodo.
G. M. Se sto girando sono un come attore in scena, mi vengono delle idee di improvvisazione, le lancio e aspetto la risposta. Alcune volte voglio dirle ma non so come farlo. Oppure ancora nel momento in cui sta venendo fuori qualcosa di importante, vorrei che assolutamente che quella persona dicesse qualcosa… Allora, per esempio nel Quieto Vivere andavo sotto il tavolo e dicevo da lì a mia cugina delle cose.
S. S. Reagivano bene alle indicazioni?
G. M. Ho lasciato veramente tanto spazio. Prima aspetti, e approfitti dei momenti non buoni per fare i “fegatelli” o delle “coperture”. Poi capita che quando partono tu non sei in posizione e ti perdi la frase che ti serviva. Però poi le persone capiscono il metodo.
A un certo punto tutto decolla e allora stai solo lì a filmare. Devi veramente trovare il momento in cui loro si accendono. E quando parte, è fatta.
S. S. Anche in questo caso filmavate e poi guardavi il materiale subito e lo premontavi?
G. M. In questo caso ho premontato poco. A fine giornata facevo dei test partendo dai dailies. Non avevo i media files o le transcodifiche, però usavo questi file export che mettevamo su Vimeo per farli vedere alla produttrice, per fare i miei test. Mettevo su Premiére le due camere, visionavo, montavo delle piccole sequenze.
S. S. Questo a fine giornata?
G. M. Sì, è estenuante, il ritmo è molto intenso. Ma era necessario. C’era una bella energia, ma dovevo anche rispettare gli orari di lavoro della troupe, perché in questo caso non ero da solo.
M. A. Le macchine da presa e il suono erano i tuoi collaboratori?
G. M. No, c’era solo Kevin Brunet il mio DOP francese e il capo elettricista che lavora con lui, arrivato dalla Francia con il materiale del service di Parigi. Gli altri erano calabresi. C’era una video assist, una data manager, un fonico, anche se avevo previsto di averne due.
Tutto assomiglia al dispositivo di finzione, al set. Però un set che tu costruisci intorno alla realtà. Non è un set in cui inviti dei non attori.
M. A. È diverso anche da altre operazioni simili che ho già visto. Mi chiedo come sei arrivato a questo punto, a combinare il teatro con il reality.
G. M. La differenza tra reality televisivo e questo reality cinematografico che io sto predicando e teorizzando, sta nella motivazione per cui sto facendo quello che sto facendo, e quanto tempo e quanta cura ci metto nel farlo. Perché poi la dinamica e il metodo, non sono tanto diversi.
E te lo può dire anche il più grande cinefilo che dice che la televisione fa schifo.
Io ho trovato molta più verità in momenti in cui facevo reality e molta più finzione in quei documentari di grandi maestri del documentario che predicano il cinema del reale. A volte una scena di finzione la sento tantissimo.
S. S. Dipende anche tanto dalla persona. Imma e Luisa sono teatrali, ma si vede che c’è verità in loro. Hanno una personalità così tanto teatrale che non c’è spazio per la disonestà filmica: a Luisa non viene di essere diversa da com’è, non le viene da recitare. O meglio, può recitare ma anche se lo farà, starà rappresentando sé stessa.
G. M. Quello a cui devi fare attenzione è non essere cringe o trash.
Questo è il limite ma è anche giudicante nei confronti di un certo tipo di società e cultura.
Quello che fanno nel reality televisivo è cercare di far sentire meglio lo spettatore che dice “per fortuna non sono così, non ho questi problemi”. Ma fare così significa assumere un ruolo giudicante.
In questo reality cinematografico deve essere il contrario, la narrazione deve essere universale. Lo spettatore deve uscire dalla sale e dire, “quella roba la capisco perfettamente, anche io non parlo a mia madre, anche io mi sento così…”
M. A. Con il reality in televisione rimani distante, invece.
G. M. Esatto, e ridi, ma non per le buone ragioni. C’è scherno. E poi è completamente falso perché la maggior parte degli autori di queste trasmissioni sono identici ai loro personaggi.
Nella mia esperienza, molto spesso ti mettevano a cercare quelli che ti assomigliavano. Noi avevamo delle scritte del tipo sui muri dell’ufficio, con i generi, tipo “la zoccola”, “la tettona”.
Il casting si fa così. A volte mi hanno detto che dovevamo trovare personaggi “neri, ma non troppo neri” o “gay, ma non troppo gay”.
E poi se giri dietro gli specchi come nel Grande Fratello è voyeurismo puro, perché i concorrenti non sanno dove sta filmando il cameraman, ed è ancora meno onesto.
Almeno invece nel multicam ti vedono, e si crea una relazione.
Io quel mondo là lo conosco benissimo. Il mio sogno è fare un film con De Filippi, su Maria De Filippi, di Maria De Filippi, in cui Maria De Filippi vinca la Coppa Volpi. Io voglio lavorare su quel tipo di produzione lì, quel tipo di laboratorio lì.
S. S. Parlando di laboratorio, nel primo approccio con Luisa, cosa le hai proposto di fare?
G. M. Le avevo spiegato il progetto anche l’estate prima, poi gliene avevo riparlato… Al momento giusto le avevo detto che volevo fare un film su di lei, sulla sua vita. A poco a poco le ho fatto capire che c’era anche l’altra. Quello è stato un lavoro successivo…
Mi serviva farle capire che un conflitto è storia, è racconto. Avere solamente un punto di vista è monotono. L’esempio che le ho fatto è stato Brooke e Taylor in Beautiful: se c’è solo Brooke o solo Taylor, non c’è storia.
Comunque sia lei che Imma hanno fatto delle cose meravigliose, già da subito.
La prima sequenza con Luisa è stata fatta durante i sopralluoghi e filmata con un’altra camera.
Era fine novembre e le dico: facciamo l’albero di Natale a casa tua. Una scena abbastanza semplice. Lei si è messa a prepararsi ed era subito pazzesca, a suo agio.
Ma io lo sapevo, le conosco bene. È un mio superpotere questo, capisco subito se qualcuno ha un potenziale da buon personaggio.
Fra l’altro è una cosa che sto scrivendo adesso, è molto fresca. Veramente, non la sa nessuno.
Sto scrivendo un film su un personaggio che ha il superpotere di prevedere quello che uno dice e quello che farà, quello che gli accade… Insomma, questo personaggio sarei io.
È in grado di far fare qualsiasi cosa alle persone, ma questo ha una conseguenza: non prova più emozioni. Le prova solo attraverso quelle degli altri.
È qualcosa a che fare con il clown, con il buffone teatrale. Il senso del clown è arrivare alle tue fragilità, alle tue debolezze. E’ un’arma di empatia con cui ti connetti al pubblico. Io sono un clown meraviglioso. In realtà, qua lo dico per la prima volta nella vita, forse questo nuovo film lo vorrei fare come personaggio.
S. S. La vita ti interessa molto di più che scrivere un film di finzione.
G. M. Una mia collega di teatro lavora su testi di autori del Novecento, e trova il modo di far fare qualcosa di autentico agli attori.
A volte con lei mi scontro e le dico che c’è una verità, come quella di Imma e Luisa, che è difficile che possa essere replicata con un attore. E lei dice che invece ci si può arrivare, si può fare anche con una drammaturgia.
Il risultato è lo stesso, la differenza è che non si deve sentire. Non deve essere finto.
La prima volta che ho fatto questo esercizio con Luisa, le avevo chiesto di parlare con suo papà morto mentre faceva l’albero, una cosa che lei fa per davvero nella vita.
Questa cosa non ha funzionato, era troppo meccanico. Poi le ho chiesto di dirmi solo due frasi precise, impostate. E sono venute fuori perfette, giuste nell’azione che stava facendo.
Il laboratorio teatrale è la cosa più vicina alla vita: si sbaglia, si cerca un momento di creazione, è la cosa che sento la più vera.
S. S. Non scrivi mai senza aver prima girato qualcosa?
G. M. È molto raro. È successo quando ho scritto delle serie. Ho fatto cento episodi da tre minuti di una sit comedy, in stile Camera Cafè. Si chiamava Trois colocataires un seul ordinateur (WebColocs), l’ho fatta nel 2008. La camera era lo schermo di un computer e tutto accadeva lì davanti. Era tutto scritto, teatrale, e facevo un personaggio. Mi ingaggiavano sempre sui ruoli del ragazzo greco, brasiliano, spagnolo, italiano. Così a un certo punto ho pensato di scrivermi un ruolo che era una caricatura, uno di destra, cattolico, scroccone, conservatore, omofobo. La cosa peggiore per me. È stato divertente.
È importante essere attore almeno una volta nella vita, se vuoi fare l’autore, per capire cos’è quell’esercizio di ascolto, di reazione di azione, reazione di fisicità, di organico e rappresentazione.
Comunque… ho sempre paura di mettermi a scrivere. Ho raccolto tantissima materia documentaristica nel corso degli anni. Ho tenuto tutto, tutti i casting, tutto quello che registravo.
Molte cose le prendo da lì. E poi io scrivo tutto quello che mi capita.
M. A. Ti chiedo una cosa un po’ banale su il rapporto tra l’etica e l’estetica… le solite domande che si fanno ai documentaristi, sulla prossimità filmica, su quale distanza scegliere.
Mi interessa il fatto che tu non provenivi dal documentario, ma dal reality e dal teatro e hai sviluppato uno sguardo, un senso dell’inquadratura che è documentaristico…
G. M. Io credo che il limite spesso definisca anche il codice e il linguaggio.
Nei miei primi tre film, che ho girato completamente da solo, è stato così. Per l’audio mi ha insegnato Stefano Savona, mi spiegava come usare lo zoom, posizionarlo all’interno dello spazio, metterlo sul tavolo.
In Fuori tutto mettevo lo zoom in mezzo al pane, durante il pranzo, con la mousse perché non ci fossero le vibrazioni.
In Gen_ c’era uno zoom sul tavolo in mezzo alle scartoffie del dottore, poi un microfono direzionale con nove metri di cavo collegato alla camera attaccato sotto la scrivania.
Raccoglievo tutto il suono e poi andavo in post produzione e risolvo i problemi lì.
In Fashion Babylon ero nel contesto dei grandi eventi di alta moda. Filmavo una serie di situazioni in cui c’è casino intorno e quando il personaggio dice cose importanti, io sono da solo con questa camera che ha solo il direzionale, senza nemmeno il microfono.
Cosa prediligo in quel momento? Quello che sta dicendo il personaggio. Allora vado a prendere solo il suono e così faccio un’inquadratura molto ravvicinata.
Quindi improvvisamente sembra che il mio film sia tutto fatto di primi piani. Ma alla fine era come se l’ego del personaggio prendesse lo spazio di tutta l’inquadratura, quindi aveva un senso.
Era giusto stare a quella distanza.
Io devo avere sempre in cuffia l’audio, perché so che ci sarà un momento in cui i personaggi stanno raccontando qualcosa che non mi interessa per il film e allora giro controcampi e coperture e ne approfitto per pensare al montaggio.
S. S. Anche da un momento inutile si prende qualcosa.
G. M. Poi magari costruisci la conversazione senza pensare all’inquadratura e quindi ti trovi ad avere delle scene molto ritmate, con molte coperture. Anche questo è un limite.
Certe cose le impari montando: Jacopo Quadri per esempio non manipola troppo il materiale. Se c’è un discorso che fila e se si ha un problema di camera, lui toglie il passaggio, lo elimina, non mette la copertura.
Quale è la priorità? Il discorso o l’estetica? E qui sono io che decido.
Alcune volte le scelte sono state fatte dal punto di vista dell’estetica e non del contenuto. Oppure magari c’era la scena ma non viene montata perché non volevo fare una cosa troppo frammentata.
In Quieto vivere volevo qualcosa che fosse lineare, con un linguaggio da finzione, che sembrasse quasi inventato. In Gen_ non potevo invadere lo spazio, non potevo interferire in quello spazio che è privato. Dovevo stare sui bordi, quindi mi sono inventato un linguaggio che fosse di osservazione sui bordi senza che fosse voyeuristico.
Il linguaggio e il codice nascono dal limite. Il vincolo ti porta alla creatività. È la regola principale della narrazione: se non c’è l’ostacolo, non c’è il conflitto e non c’è la storia.
Io lavoro con delle persone che non sono attori e questo era il mio limite anche nel Quieto Vivere. Se so che non posso far rifare cose a mia cugina, il film deve essere la parola, non l’azione.
Ed è così che si crea anche il miracolo del cinema del reale: conosci talmente bene i tuoi personaggi che sai come reagiranno e costruisci la narrazione su quello.
Così possono accadere delle cose magiche.
In La dernière séance c’è un personaggio che ha perso molti amanti durante la crisi di AIDS negli anni Ottanta, e parla spesso del lutto e della morte. Ha dei gatti e da sempre pensavo che sarebbe stato incredibile se uno di questi gatti fosse morto durante le riprese, per poter trasporre questa perdita di cui parla sempre lui.
A un certo punto mi chiama e mi dice che è scappato un gatto. Io arrivo subito da lui. Abbiamo passato tre giorni a cercare il gatto, io filmavo ed è arrivato un temporale come mai avevo visto, con lampi e tuoni. Cerchiamo il gatto ma non si trova, e lui pensa che sia morto.
Quella cosa per me è stata la cosa più emozionante che ho vissuto nella mia vita da quando faccio questo tipo di lavoro di ricerca.
S. S. Come reagiva alla camera, in quel momento in cui stava rivivendo una perdita?
G. M. La camera è una mia estensione e questo film era una relazione. Questa persona era profondamente innamorata di me e si è fidata completamente di quello che facevo. Non sapeva cosa stavo facendo e non l’ha capito fino a quando non ha visto il film.
È un rapporto sadomaso, fra master e slave. Chi è che sta dirigendo?
Io sono l’ultimo slave del suo racconto, ma sono davvero lo slave? Sono io che ho la camera in mano, sono io che lo domino.
E tutto questo è diventato un vero e proprio discorso intellettuale, concettuale e teorico sul ruolo del regista con il personaggio filmato, l’inversione delle posizioni. Arriva a diventare teoria del cinema.
Allo stesso tempo è importante spiegare che è tutto un esperimento. Per me La dernière séance è stato il film più libero che ho mai fatto, facevo quello che volevo. Fashion Babylon è cominciato dicendo al protagonista “let’s make a test”.
Rilassa molto dire alle persone che è solo un esperimento. E poi l’esperimento diventa tre anni di film.
M. A. Non ti capita mai di pensare, mentre filmi, che ti stai perdendo l’esperienza, che stai smarrendo in qualche modo la dimensione empirica?
G. M. Lo dico sempre al mio psicanalista da ormai quindici anni: ho l’impressione invece di vivere molto di più mentre sto filmando.
Il Quieto vivere è un film che ho fatto con tutta la mia famiglia presente sul set, con mio papà e mia mamma che erano i miei complici. Abbiamo fatto qualcosa di unico, eterno. È stato un momento altissimo.
E penso che le mie zie abbiano vissuto un Natale indimenticabile.
Io l’ho vissuto all’ennesima potenza.
È quello che mi perturba di più nella vita, ed è il senso di quello che sto scrivendo sul mio personaggio alter ego di cui parlavo prima. Ho detto al mio psicanalista che ho questo problema di non provare emozioni e di cercarle attraverso gli altri, e lui mi diceva che non è un problema. Non c’è da aggiustare nulla di per sé, c’è da accettare il fatto che questo sono io.
L’arte e la vita si confondono. In L’expérience Zola per esempio, i due protagonisti sono dei pazzi totali nella vita. Nel momento finale si ritrovano a parlare e piangono, dopo che non si sono visti per due mesi.
Pensate che Anne ha aspettato che organizzassimo la scena per incontrarlo. Sapeva che quel momento sarebbe stato più autentico così, e hanno deciso di aspettarmi con la camera per vedersi. E quella è una vera relazione, non è finta.
Uno può dire che sono dei narcisisti, degli egocentrici… forse è il contrappasso dell’attore. E ancora di più per l’autore.
L’attore è al servizio del desiderio di qualcun altro, che sia il direttore di casting o il regista, deve sempre soddisfare un desiderio.
Adesso invece io, da autore, genero desiderio, nella mia totale onnipotenza ed esibizionismo.
Quanto è ancora più megalomane e narcisista la mia posizione?
M. A. C’è la megalomania, ma anche un modo di fare film in maniera più intima, più piccola, in cui l’indole e l’approccio non sono da regista “seduto”, in cui il vissuto è trasportato nella scena e diventa abilità creativa. Le idee forse valgono di più, qui. È come un gioco.
G. M. È proprio un gioco, sì, probabilmente per la mia formazione teatrale.
Che poi se ci pensi non inventiamo nulla, il Neorealismo già lo faceva, con i non-attori. Tutte le storie sono già state raccontate, ma tu fai la tua riscrittura. Cerchi sempre di spingere. Quando arrivano i registi che dicono: sto cercando una produzione che mette i soldi per fare il mio film. No, no… non funziona così: tu devi pigliare la camera e andare a girare.
Oppure vogliono fare un film che è una formula. No, il film è un’urgenza. È un virus, un’ossessione. Diventi ossessivo anche con le persone che ti stanno intorno.
Però, come ho fatto adesso con voi, io racconto quello che sto scrivendo, perché è importante testare le idee. La gente dice che parlo sempre delle mie idee e che non dovrei perché poi me le rubano… a me è capitato, e mi è capitato anche di incontrare gente che mi dice che quella era una nostra idea. Ma magari avevamo provato a lavorare insieme, su una mia idea che ho condiviso. Non ha funzionato e ho proseguito da solo.
C’è gente che è gelosa perché crede che fare quattro chiacchiere sia scrittura. A questo punto faccio da solo.
Però devo parlarne perché parlandone, capisco cosa capisce la gente, se è chiaro il messaggio, cosa interessa o non interessa.
E’ un esercizio importantissimo.
S. S. Anche perché spesso un’idea funziona solo nella tua testa. È quando verbalizzi che si capisce cosa vuoi raccontare davvero. Come a teatro, quando scrivi un personaggio preciso e poi l’attore ti restituisce qualcosa di completamente diverso e inaspettato.
G. M. Assolutamente. Poi è ovvio che devi conoscere bene i tuoi personaggi.
Per esempio, in Gen_, non c’era una vera relazione con i personaggi, con i pazienti. Li vedevamo ventiquattro ore, e poi basta. Lì era un altro tipo di narrazione, quasi osservazione pura, antropologia.
Anche nel Quieto vivere, in un certo senso. Devi conoscere i personaggi e il loro territorio. Mi ricordo che Frammartino diceva una cosa molto bella: questi personaggi, quando escono da loro perimetro, sono disorientati, non hanno più i punti di riferimento. Ma se tu entri nel loro perimetro, è lì dentro che c’è la materia.
Poi possono anche uscirne. Imma e Luisa a Venezia erano veramente una roba pazzesca. Lì sono uscite dal perimetro di brutto!
M. A. Credo che la pedagogia del gioco sia servito anche a ridimensionare la loro situazione, che stava arrivando quasi allo schianto.
Forse questo gioco le ha portate a essere osservate da fuori, a Venezia, circondate da persone incuriosite e appassionate, e anche impaurite che possa succedere qualcosa di grave. Hai dato loro l’opportunità di farlo.
S. S. Dopo la prima a Venezia ho parlato con una ragazza della produzione e mi ha detto che loro non avevano visto il film prima di quel momento, perché tu non avevi voluto farglielo vedere. Loro ti avevano chiesto un’anteprima?
G. M. Questa è una cosa che si fa sempre, più o meno… A volte faccio vedere delle cosine, li preparo un po’. Invece con Imma e Luisa non ho fatto nulla…Il festival è un sogno condiviso e loro si sono trovate a partecipare all’universalità dell’opera.
Se avessero visto il film a casa loro da sole, la visione si sarebbe ridotta a dimensione privata. E avrebbero cominciato a pensarci, a riflettere, a partecipare alla drammaturgia, alla narrazione. Ma non è il loro lavoro, non è la loro opera.
In Fashion Babylon, ho filmato gente della moda, creature con un ego smisurato. Ho capito esattamente come si fa. Quelli erano performer abituati alla loro immagine, di cui fanno spettacolo nella vita.
Imma e Luisa sono performer, però non conoscono il mezzo, né il linguaggio della performance. Non hanno mai visto un documentario narrativo. Non è il loro mestiere.
S. S. Sì, magari possono vivere un po’ quella dimensione a Venezia, in cui capiscono di aver dato qualcosa al pubblico, al di fuori dal loro mondo. Ma non è il loro lavoro entrare nel processo creativo.
È complicato dover spiegare al personaggio che una cosa funziona, ed è difficile trovare anche il tatto per dire che lo vuoi inserire lo stesso, senza urtare la loro sensibilità.
Si deve trovare un modo di rappresentazione che non faccia del male ma che allo stesso tempo porti alla verità.
G. M. Questo è importantissimo. Bisogna far capire che quello che loro pensano che sia utile per il tuo film, non è la cosa giusta. Magari possono avere un’idea di quello che è utile per un racconto, possono capire quello che la gente vorrebbe vedere.
Però questo è un lavoro autoriale. Non possono sapere cosa va bene per il tuo film.
È difficile da spiegarlo, io ho sempre avuto difficoltà a farlo. Li convinci solo con il prodotto finito, con il momento in cui c’è l’approvazione generale.
Mia mamma in Fuori tutto, si è fatta filmare in situazioni assurde. Lei si fida di me e non mi ha chiesto niente, però per me sarebbe stato difficile spiegarle perché l’ho filmata mentre piangeva.
Sarebbe stato difficile rispondere alla domanda: ma che te ne fai di questa roba?
È la crudeltà della narrazione e c’è sempre in me un certo senso di colpa, per via di questo cinema come fine superiore.
Avevo una paura quando è uscito il film… Ma quando poi abbiamo vinto il festival di Torino, i miei genitori erano in sala e hanno ricevuto talmente tanto calore che sono diventati eroi universali, rispetto a quella tragedia che ha vissuto.
Non ho mai visto mia madre così felice in tutta la mia vita. L’ho vista soffrire per tutti quegli anni, e in quel momento, di quella sofferenza ne ha fatto veramente qualcosa di bello.
C’è un momento in La Dernier Séance in cui Bernal, il protagonista, rimane incastrato con una cintura di sicurezza e io lo filmo mentre è in difficoltà. A me bastava semplicemente un dito per aiutarlo, ma non ho fatto nulla, perché ero lì a filmare questo momento, che era assolutamente metaforico di tante cose nel film. Avevo capito quanto fosse importante e non ho interagito. Sembra un discorso diverso, ma il giornalista di guerra che trova la persona che sta morendo, che cosa fa? Lo aiuta o lo fotografa?
C’è il diavolo e c’è l’angelo che mi compaiono sulle spalle, quando c’è mia madre che sta piangendo e io la sto filmando. L’angelo dice: sei un mostro! E il diavolo, che assomiglia a Maria De Filippi, dice: bravo, è la sequenza che serviva!
Ma tu lo fai perché sai che sta succedendo qualcosa di importante.
Mi chiedono se ho fatto qualcosa per risolvere i debiti della mia famiglia. No, però ho fatto Fuori tutto, e questo è il mio modo di aiutarli, di stare insieme, di fare qualcosa per loro.
Nel Quieto vivere tutti mi chiedono se Luisa e Imma hanno fatto pace, se è servito a qualcosa. Quando lo scrivevo e lo montavo per me questo era un film sul giorno prima di un atto irreversibile, da parte di Luisa.
Ma forse questo gioco della rappresentazione, questo gioco del cinema, è diventato per loro due un lavoro catartico. Forse grazie a questo Luisa non arriverà mai a quel punto.
In questo ho aiutato un po’ la mia famiglia.
Questa è la differenza tra reality cinematografico e reality televisivo. Nessuno in televisione pensa ad aiutare le persone. Nessuno si chiede perché lo sta facendo.
Ho avuto un’esperienza quasi mistica una volta, dopo ore di interviste, mi vedevo fuori dal mio corpo, seduto là davanti a decine di persone che piangevano mentre mi raccontavano delle cose. Mi sono trovato a chiedermi: ma perché? Sono un giornalista? Sono uno psicologo? Sono un medico?
Perché mi ritrovo a fare questa cosa? Quella è la vera differenza di tutto.

