Spettralità del set: Venezia 82
di Bruno Roberti.
Si può dire che alle radici del cinema come proiezione di forme e corpi assenti, dunque di parvenze fantasmatiche, risieda ciò che Marc Vernet chiama “ideologia dell’invisibile”. <<La questione cinematografica si ravvisa sotto la doppia luce degli sviluppi tecnologici e della spettralità, di una traccia della visione e di una impronta della macchina>> come scrive Sebastien Rongier (Theorie des fantomes, Paris, 2016). Occorrerebbe far slittare ai loro bordi le due semantiche del fantomale (e la disgiunzione di questo termine in fantasmatico inteso come proiezione immaginaria) e dello spettrale (connesso al perturbante come imminenza di una presenza là dove non dovrebbe esserci, là dove dovrebbe mancare). In entrambi i casi sono implicate le idee di immagine e di apparizione, ma, a rovescio, anche quelle di punto cieco del reale o di “vuoto” dell’immagine (intesa nel senso di traccia o impronta, di assenza, di invisibile) e di sparizione. Questa sintomatica dello spettrale sembra riversarsi sui film più perturbanti e quindi più irriducibilmente radicali visti a Venezia 82. Ciò che li ha accomunati è una potenza del set che sprigiona e riversa una sorta di vitalità spettrale, di sensorialità materica da un lato e di implosione filmica, quasi di lavoro del lutto dell’immagine, dall’altro.
Ghost Elephants di Werner Herzog è un perseguire ciò che si nasconde e si sottrae alla vista e si lascia cogliere solo come traccia nella sua parvenza fantasmatica cui accedere attraverso il set dell’altopiano africano, insinuandosi nelle nebbie e nelle sterpaglie del luogo perduto in Angola dove ancora una volta Herzog suscita la possibilità di un visibile nella potenza stessa di un invisibile. Quando la ricerca prende avvio nella sala della Smithsonian Museum di Washington dall’incontro con Steve Boyes esploratore e biologo che mostra ad Herzog l’elefante Henry tassidermizzato, un gigantesco pachiderma, il più grande animale terrestre mai registrato, ucciso in una battuta di caccia nel 1955, avviene come una sorta di “chiamata all’avventura”, si innesca quella che come sempre per Herzog si configura come una ossessione di un filmare “oltre” l’immagine. Quelle mastodontiche fattezze richiamano un mondo, ciò che è stato visibile in quella battuta di caccia si è fatto leggenda, sogno, allucinazione: quella del branco di elefanti-fantasma che costituiscono una sfida all’immagine, la possibilità di catturarla nel suo apparire-scomparire, così come avverrà nei pochi frame di 30 secondi ripresi da un cellulare. Così la voce di Herzog e le sue troupe di operatori si insinuano, si inoltrano, attraversano fiumi, penetrano nella giungla, lungo le piste, nei villaggi dei boscimani, alla corte di Re africani, e si assimilano a poco a poco nei ritmi, nei riti, nelle movenze, nei racconti, nelle possessioni, fino a penetrare all’interno di una origine ancestrale inscritta in un DNA primigenio, entro cui si innerva, palpitante e danzante, l’inaccessibile enigma di un elefante-spettro e di un set spettrale: le linee che si disegnano e si disfano nel balletto subacqueo di un pachiderma o nella fuga slittante del ghost elephant tra gli arbusti lontani. Il divenire-animale, il frastagliarsi rizomatico dell’immagine che si assimila all’epifania immanente della natura, costituiscono, ancora una volta, l’abbagliante accesso all’alterità e all’anacronismo delle immagini che sono proprie del gesto filmico herzoghiano.

In modo altrettanto potente, e di nuovo con un lavoro di elaborazione del lutto innescato sull’andamento stesso del filmare e sul formarsi lento, assorto, contemplativo, struggente, di un paesaggio dell’anima e di una materia trasfigurata, un film come Laguna di Sharunas Bartas si distende e si contrae su un set che emette e diffonde il suo spettrale fascino, fatto di bellezza e di dolore insieme. L’entroterra paludoso, solcato dalle acque della costa messicana del Pacifico diventa set interiore di un fantasma trasposto di cui si reclama la reviviscenza per corpo interposto. Bartas aveva da poco girato un film Back to the family scritto con sua figlia Ina Marjia che era morta in un incidente prima delle riprese. Quel dolore era stato metabolizzato lungo un processo di trasfigurazione e la storia originaria (il percorso di identificazione di una ragazza) era mutata in un altro ritorno, quello di una ragazza al capezzale della nonna morente in un villaggio lituano. A intessere ulteriormente la suturazione di queste mancanze quel film proseguiva negli echi un ulteriore trauma luttuoso, quello del suicidio di Ekaterina Golubeva, che era stata la sua donna e musa (come di Leos Carax), e che in un film di Bartas del 2015 Peace to Us in Our Dreams, vedeva Ina Marija confrontarsi con l’assenza della madre. Accanto a sé ora in Laguna c’è sua figlia minore, gracile e incantevole, di una grazia abbagliante, il suo nome è Una Marija, e in lei rivive, come una immagine diffratta, l’altra, la prima Marija. Avviene come se Sharunas perseguisse in questi film che si richiamano l’un l’altro nel tempo una sorta di guarigione attraverso l’implicazione di se stesso immettendosi nel fluire, silenzioso e insieme scandito dalla sua voce, di un viaggio immerso nella dimensione progressivamente intima e allucinatoria del rapporto tra un padre e una figlia. Infatti Bartas sposta, contaminando reale e finzionale, quel lutto su una incarnazione degli spettri che lungi dall’assediarlo ne assistono quasi “sciamanicamente” il dolore mutandolo in forma di guarigione e irradiandosi nel flusso elementale, nella sacralizzazione cerimoniale dello spazio, nel trascorrere animale, vegetale, minerale della natura circostante, nei piccoli riti familiari (la distesa d’acqua su cui affiorano come misteriose apparizioni i dorsi dei coccodrilli, il canto del ragazzo che celebra il Dìa de los Muertos messicano, le piccole tartarughe sulla battigia, il flusso delle onde del mare, il bambino che penzola sul ramo di un albero in un gioco di riconoscimento reciproco). Quella incarnazione dello spettrale, quel ritorno del fantasma, quella elaborazione del lutto diventano un riscatto memoriale, in una specie di redenzione delle immagini che si ibridano nel bianco e nero e nel colore, che procedono in una rarefazione tersa o si addensano nel buio placentare della capanna nella foresta illuminata solo da una candela. Se all’inizio del film vediamo le immagini di Ina in bianco e nero, la verità di quel corpo si reincarna nella grana materica in cui la ragazza diventa un’altra immagine, la sua morte in Lituania diventa la sua sparizione in Messico e la sua riapparizione in ogni fruscio, in ogni alito di vento, in ogni epifania di un materialismo naturale dispiegato e concretato dalla potenza del cinema.

Ancora un corpo a corpo con un fantasma è Un film fatto per Bene di Franco Maresco. Lo spettro di Carmelo e quello di un film impossibile da farsi, che si sfalda nel pulviscolo a frammenti di un progetto su Bene che avrebbe dovuto modellarsi in filigrana su un altro spettro, quello del Santo che volava, Giuseppe Desa da Copertino, epitome della dostoevskijana “santa idiozia”. Ma il film è la tracimazione di quel progetto, la sua fagocitazione in una furibonda autodistruzione che rovescia il dolore in una nullificante, gargantuesca risata amara. Maresco fin dall’inizio del film è una assenza, è scomparso, di lui non ci sono tracce. Così già accadeva in Belluscone, ma qui questo sottrarsi al film fin dall’inizio fa di Maresco stesso uno spettro, e diventa l’occasione perché ciò che resta siano i set fallimentari (nel bianconero tipico dei tempi di Cinico TV e dei film con Ciprì) del film naufragato, filmati come relitti, come disastri e macerie di set, che capitombolano su se stessi, vanno alla deriva e (con lo struggimento ilare e impassibile di un set di Buster Keaton o di Jerry Lewis) vedono Maresco affranto e disperato, ma anche giubilante nel suo stesso “cupio dissolvi”, alle prese con le sublimi irruzioni di Bernardo Greco, idiota toccato dalla grazia, inerme e tenerissimo campione di quella umanità irriducibilmente resistente agli orrori contemporanei. Nel suo povero saio sdrucito e portandosi appresso l’asino chiamato Carmelo (sulla cui soma potrebbero da un momento all’altro spuntare le ali) Bernardo/Giuseppe da Copertino è la vera anima del film (nel suo alzare le mani al cielo intonando uno sgangherato Alleluia!, nel suo sconclusionato balbettio che mima la telecronaca di una partita di calcio) e non a caso nel finale pasoliniano si invola tra le nubi in una ascesa al cielo insieme alla voce disincarnata di Maresco. Intanto il film nel suo tragitto ha compiuto una serie di geniali deviazioni, incursioni, slittamenti. Umberto Cantone (cosceneggiatore con Claudia Uzzo e Maresco del film) si è messo all’ostinata ricerca senza costrutto del regista scomparso accompagnato da un tassista folle che ripete come una giaculatoria “lode al Signore!” e fa girare in tondo il suo taxi in una coazione a perdersi. La voce di Maresco (quella voce-fantasma che dal fuori campo interpellava gli esemplari esilaranti di una derelizione santificata) si è prodotta in una lunga lettera-confessione indirizzata a Cantone che è una sorta di accorata, sincerissima, straziante dichiarazione di poetica, che coincide con un radicale atto di fede per cui fare questo film (che diventa una sorta di “autodafè”) è il solo modo per “dare forma all’orrore e alla rabbia che provo per questo mondo di merda”. Siamo andati così indietro nel tempo risalendo alle origini del lavoro di Maresco (in coppia con Ciprì), in modo da enuclearne, alla distanza, la forza dirompente e disperata, la lucidità, la sferzante potenza immaginaria, il coraggio nel radiografare la condizione mutante di un mondo alla deriva. Sono emerse così una serie di sequenze la cui icasticità e pregnanza appaiono esemplari: la partita a scacchi che la “commare secca” bergmaniana che un auto-sbeffeggiante Antonio Rezza ingaggia con lo stralunato Bernardo/Giuseppe da Copertino oppure il piccolo studio televisivo che diventa una specie di teatrino degli orrori o di “camera della tortura” dove trascorrono lacerti esilaranti di crudeltà e momenti di grottesco nero. Ecco lo splendido paradosso: come tutti i film firmati dal solo Maresco dopo la separazione da Ciprì, anche Un film fatto per Bene si configura come un “autoritratto”, non più obliquo, ma direttamente riflesso “in uno specchio oscuro”. Qui, paradossalmente, il sottrarsi di Maresco alla vista diventa anche un esporre il proprio corpo come assente-presente, in una trasfigurazione da Ecce Homo. Lo ‘spettralizzarsi’ di Maresco, insieme al suo set impietosamente polverizzato costituisce l’unicità del gesto filmico. Così se Maresco si allontana “triste, solitario y final” lungo la strada polverosa mentre il set rovina su sé stesso, non possiamo non ritrovarlo dietro la porta chiusa di un convento mentre risponde come uno spettro con un alfabeto di colpi dati sul legno di quella porta e non possiamo non alzare gli occhi verso quelle nuvole da cui risuona la sua voce con quella del Santo che vola/Bernardo. Voci che invocano, per dirla con Bene, l’ineffabile “tutto del nulla”.

