Diario da Venezia 82: Col bicchiere mezzo pieno
di Edoardo Mariani
Non sapendo cosa avremmo mai avuto tra le mani, il cinema noi stavamo cercando di conoscerlo, prima ancora di farlo. Un giorno, avevo non più di dodici anni, e Daniela (Turco) entrò in classe con una TV a tubo catodico sopra un carrello di metallo. Sullo schermo, in cassetta: Jean Renoir. The River.
Non so se quel giorno capii il film, ma mi ricordo la sofferenza, come se l’avessi conosciuta, della morte del piccolo Bogey, sentii un brivido d’amore per quegli alberi in fiore e restai ipnotizzato quando nella danza mistica, con le dissolvenze, tra il blu denso dello spirito e i movimenti agili della danza di Melanie.
Sognavo da quel momento di rivedere quelle immagini, di ritrovare quelle sensazioni. Ma mentre crescevo, trovavo altro, altro cinema ancora. Mentre guardavo altrove, rivedevo interiormente quelle scene.
Filmcritica, che era già la rivista dove scriveva Daniela, tra le altre cose anche la madre del mio Caro e Vecchio e Grande amico David Vernaglione (anche lui oggi alla ricerca delle sue immagini, costruttore di luce e animatore di cavi), mi ha accolto. Questa avventura con Filmcritica è cominciata all’improvviso, quando più la rivista poteva servirmi per continuare a scrivere di quelle immagini, come spazio aperto e selvaggio per continuare ad esternarne il sentire, e quando io potevo servirle per rifondarsi in una versione online, dopo la scomparsa di Edoardo Bruno, che aveva sancito anche l’arresto delle copie in cartaceo, che sono ferme al numero 700.
Scrivo questo perché, rileggendo i miei appunti presi durante e dopo le proiezioni dei film visti durante lo scorso Festival del Cinema di Venezia, mi accorgo di aver raggiunto una nuova fase. Ho guardato per la prima volta i film del festival sentendomi un cineasta, sentendomi regista e montatore ancora prima di critico, ricercatore, spettatore. Il filtro tra me e le immagini era cambiato, e con esso, la mia visione e, ora, è diversa anche la mia restituzione di quelle sensazioni, che come un carillon, mentre girava, cambiava qualche nota della melodia. È una strana e misteriosa sensazione, quella di scrivere questo diario veneziano, ma dopo tutto (mi sento più cine-figlio che cinefilo in questo momento della vita, prendendo in prestito da Daney l’allusione edipica). Ecco, come Edoardo Bruno, come Godard, come Cappabianca: il cinema si fa e si dis-fa con le mani, e con le mani ci tocchiamo, restando lontani, tra le immagini, tra gli schermi.
Cominciamo.
Come nel Dead Man’s Wire di Gus Van Sant, come posso competere con John Wayne? Come posso trovare un accordo con i grandi? Magari chiedergli un prestito? Ma come in tutte le cose, anche il cinema è un fatto di soldi. Ma qui si vede altro. Si sente altro. Il montaggio iniziale, il mondo che fa le fusa e ha voglia di luce, gli strani movimenti sinfonici della quotidianità, un clacson, poi un altro, siamo nel bel mezzo di una metropoli, e di una storia. La sala Darsena gioisce, quando il cartello finale dà la notizia che poco dopo gli eventi raccontati nel film, l’assicurazione che aveva truffato Anthony “Tony” Kiritsis dichiarò fallimento.
“Se ti metti ancora davanti alla mia telecamera ti sparo.” Dice Gus ad un’industria satura di faccini e bellezze da social networks. “Si hai ragione, questo è il tuo show”. Un autore del cinema hollywoodiano si rivolta contro un sistema corrotto, e ne fa un grido audiovisivo. Un film d’altri tempi.

Un altro gridolino l’ho sentito in Memory of Princess Mumbi. Un film colossal composto dalle immagini libere e on the road di un viaggio dell’autore, partito per sei mesi per ritrovare quella leggerezza del vivere perduta dopo aver perso una persona a lui molto cara. Era un viaggio verso un sentimento, con un obiettivo ed una caméra. Damien Hauser ha filmato e scritto insieme ai suoi amici keniani questo incredibile monumento digitale. Poi una volta tornato in Svizzera, il giovane autore ha montato e dipinto dei fondali immaginari e futuristici alle immagini.
Qui, i miei appunti cominciano a mescolarsi con intenzioni filmiche legate al mio progetto di film, che mi piacerebbe presto intitolare O canto da cucagna. Scrivo: ricordati di riguardare le immagini e riorganizzarle in un’introduzione al film che possa essere apertura alla chiave “documentario comico di fantasmi”, con la quale deve essere letto il film. Poi torno a Princess Mumbi, un film in costruzione che non smette mai di crederci e di scavare un racconto nella voglia di raccontarsi, tra sfondi e panorami di un Africa post apocalittica e dipinta, tre amici, come non se ne vedono, si divertono a fare un film che non doveva esistere. Durante il Q&A a fine film l’autore, svizzero-keniota, 25 anni, racconta che dopo la scomparsa improvvisa del fratello minore ha deciso di partire verso il paese d’origine della sua famiglia. Da questo viaggio con la telecamera nasce questo film magico, pieno di memorie e sentimenti, un film che non doveva esistere, ma esiste. Esiste perché era necessario, e di questa ricerca di libertà e felicità, non ce ne sarà mai abbastanza.
Un viaggio indietro è sempre una scusa per andare avanti.

Per quanto le cose sulla Terra possano cambiare, in un’immagine il cielo e la sua immensità continua a scorrere e rinascere, senza nome, in un altro film. Siamo in Lagūna, Sharunas Bartas torna sulle coste del Messico, luogo della memoria dove andò tanti anni prima con la figlia Marija, scomparsa prematuramente. Oggi è con Una, la sorellina più piccola e insieme cercano di capire il senso, o semplicemente, di guardare il mondo e le onde. “Papà che succede quando si muore?”
Con un coup de théâtre, arriva un nuovo altro caliente film pampero cine. Ad inizio proiezione, quando appare Pampero Cine sullo schermo, tutta la sala Darsena esulta e gioisce come si vedeva in qualche video nei giorni in cui usciva il nuovo film del Marvel Universe.
Questa intima messa in scena di sé stessi, in un film che parla d’amore, del legame che unisce due anime, due immagini, due personaggi, due mondi, due o più cinefilie, è dolce e delicata. Personalmente ho ricevuto una grande carica teorica da questo film, che mi ha ricordato (come non mi accadeva dai tempi degli studi su Godard e Marker) che un film è un testo, se lo si vuole, e con quel tessuto filmico ci si può permettere di raccontarsi facendo filosofia.
Anche qui, come in Lagūna, c’è la messa in cinema della figlia dell’autore. Anche qui come in Memory of Princess Mumbai c’è un lago fumoso sullo sfondo (è il lago di Lemano, quello di Hèlas pour moi, lo sfondo di Adieu au langage!!) E anche qui, come in Vive l’amour (film restaurato in Venezia Classici di Tsai Ming liang che non affronteró in questo diario, ma altra piccola parentesi delicata di questo festival) c’è un mazzo di chiavi che apre una porta su un appartamento svuotato che verrà riempito d’amore, di storie d’amore e di parole, di sguardi.

Pin de fartie è l’esempio raro di un film fondato su questo riempire d’amore le immagini, e si fa quindi portavoce di una certa leggerezza d’essere, che sarebbe bello poter riportare anche all’oggetto filmico. Si possono fare film in modo leggero? Il regista, Alejo Moguillansky, dice: ero con mia figlia in Svizzera e il mio amico Santiago Gobernori era in Germania per uno spettacolo. Allora tutto era là, e abbiamo girato. Fortissime presenze sono il Finale di partita di Beckett e il Chiaro di luna di Beethoven.
Dalla fine di questo festival mi perseguita la sensazione di un allontanamento fisiologico da alcune cose: dall’infanzia, dalla patria, dalla necessità di essere compresi, dalla comprensione di sé stessi, dalla proiezione della propria identità nella realtà. Dalla critica. E tutto, e mi piace ricordarlo in primis a me stesso, va verso una strana dimensione di rivoluzione.
Mentre intanto le politiche sono asservite a false amicizie senza fondo, disumanità e morte continuano a crescere nello spazio bombardato delle città sulla Terra. Il sentimento di leggerezza di cui mi sono sentito avvolto durante alcune visioni del festival è artefatto, piacevolmente reale e sentito. Ma nella questione del rapporto con le mani, di cui si era accennato all’inizio, e il cinema, mi è sembrato chiaro come in alcuni film, che ho cercato di riassumere in questo breve diario astratto, si stesse intavolando un discorso “altro”. Mi è sembrato di vedere in queste opere un “altro cinema”. Un cinema che non ci prenda per scemi, per mano, con una falsa gestione della verità. La corruzione dello stato e delle nostre società capitalistiche (Van Sant), il futuro incerto delle nuove generazioni (Princess Mumbi), la morte e l’incapacità umana di costruire una scala che arrivi sulle nuvole (Bartas), l’allontanamento dagli amori, dalla madre, dalla patria (Pin de fartie). Questi discorsi mi hanno messo in discussione, e di questo mi sento di voler scrivere in questo momento. Di film piacevoli ne ho visti, di film interessanti, certo, ce ne sono sempre. Ma questi affrontati qui sono quei film che mi hanno ispirato, e quelli con cui ho dialogato.
Ripensando a quel lavoro prezioso sugli archivi di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, il colono era rappresentato come un soggetto in perfetta armonia con le immagini, perché se c’è una cosa che il cinema sa fare è rendere giustificate certe azioni solo per ingannare lo spettatore che le fruisce. E in quella passività ci ritroviamo sempre, spettatori immobili e mai ignari di questo genocidio, a patire nella nostra solitudine. Il festival era cominciato con la creazione del gruppo “Venice for Palestine”, che si è mobilitato molto per portare avanti la manifestazione di dissenso anche sul red carpet del lido. E oggi, dopo che le luci dei proiettori si sono spente, quel movimento è ancora attivo, in continuo scambio di informazioni e organizzazioni di presidi per riuscire far sentire la nostra voce al popolo colpito e abbandonato dei palestinesi. La voce della piccola Hind è oggi archivio, e forse con il film The voice of Hind Rajab, per una volta il cinema è stato presente.
Ci tenevo a chiudere questo diario veneziano con un estratto da un libro trovato nella splendida libreria sommersa di Venezia, mentre passeggiavo con Francesco Filpa, un caro amico di vecchissima data che quest’anno era invitato al festival come artista, in quanto attore protagonista di un cortometraggio selezionato alla SiC.
Il libro in questione è Film: altro reale di Edoardo Bruno.
L’estratto proviene dal capitolo 4. Le ideologie del film.
Edoardo Bruno scrive:
“Di fronte all’opera lo spettatore si pone in termini dialettici, e il suo “porsi” è un momento dinamico, un passare da un accertamento a un altro, uno scoprire nessi e collegamenti, che definiscono la sua posizione sull’opera attorno all’opera.
La posizione, invece, di non partecipazione, in cui viene tenuto lo spettatore, al quale si vuol imporre una determinata visione aprioristica, è propria di un cinema autoritario, di un cinema che, in definitiva, distrugge la sua essenza poetica..” (p.84, edizioni il formichiere, 1978)

