Venezia 82: Archivi, teche, diari, luoghi/non luoghi dove inventariare il cinema
di Daniela Turco
Gilles Deleuze intitolava il primo paragrafo del suo libro dedicato a Foucault[1]: “ Un nuovo archivista è stato nominato nella città”, dove come tratto saliente della ricerca monumentale e geniale di Foucault viene messa in evidenza l’originalità di un metodo che privilegia il reticolare, i passaggi, le interferenze, gli scarti, le trasformazioni. Disgiunzione e differenza. Un’idea di archivio come storia accidentata delle forme che viene raddoppiata da un divenire di forze, nel disegno scollegato e libero di una nuova cartografia.
Credo che oggi anche nel cinema si possa vedere capillarmente al lavoro una “funzione” archivio, che ne capovolge il senso istituzionale, troppo ricorrente nelle opere di molti registi e autori per essere casuale, penso ad Amos Gitai, a Julio Bressane, ad Aleksander Sokurov, per nominarne solo alcuni, e soprattutto a Jean Luc Godard, che, a partire da Histoire(s) du cinema – film-matrice di questa tendenza -, fino alla fine della sua vita ha importato le immagini (sue e di altri) attingendo sistematicamente dal suo archivio e facendone circolare i frammenti in ogni sua nuova opera, con la perizia di un giardiniere che sparge dei semi su un nuovo terreno.
Forse andrebbe indagata meglio questa funzione “archivio”, e il suo ruolo diffuso nel cinema contemporaneo, nelle sue infinite variazioni, riflettendo su che cosa significa portare dentro un film attraverso il montaggio altre falde temporali, altri “passi” e formati, per ricomporli tra di loro e per farli reagire con le immagini al presente, e creare così un nuovo film/testo, inteso proprio nel senso più etimologico, e materiale, di tessuto. A inaugurare questa tendenza è stato come sempre Godard, con la pluralità in potenza delle histoire(s), propria del cinema come lo è della vita, che dava un rilievo completamente nuovo e nuove possibilità a una galassia di frammenti, spesso (s)concatenati nel segno della dispersione, della distanza. C’è un principio di metamorfosi insito nella pratica stessa dell’archivio, un aspetto sfuggente, indescrivibile nella sua totalità, che permette tuttavia di aprire una prospettiva nuova, che apre la visione. L’archivio come deposito personale/impersonale a cui rivolgersi mi è sembrato essere una figura ricorrente in diversi film visti alla 82° Mostra del Cinema di Venezia, a cominciare da Director’s Diary di Aleksander Sokurov.
In questo film, molto stratificato a livello strutturale, Sokurov mette in rapporto, sovrapponendoli, vari tipi di circuiti: ci sono “le immagini al presente”, le sequenze filmate nello studio del regista, che ricorrono a intervalli e attraversano l’intera durata di Director’s Diary (308’), con il primo piano e il sound della stilografica che traccia le parole sulla pagina bianca; c’è l’asse temporale del film che abbraccia il periodo storico dal 1957 al 1991, di cui si vede il diagramma fisso che occupa il margine destro dello schermo, e su cui ogni anno viene messo graficamente in evidenza, man mano che il film procede. E c’è poi il circuito delle immagini selezionate – corpo e sostanza del film – costituito da spezzoni di film sovietici – spesso dei musical –, alternati a immagini di vita quotidiana a Leningrado, nei servizi presi dai cinegiornali, parate militari, comunicazioni pubbliche del partito, lavoro nelle fabbriche, ecc….Su questo prisma di immagini, anonime ma non casuali, si vanno a sovrapporre, continuamente aggiornate, le iscrizioni grafiche degli avvenimenti più significativi, accaduti in Unione Sovietica e nel mondo, che formano la curva temporale del film. Ogni sequenza si dilata così in una sorta di campo prospettico in perpetuo movimento, che fa pensare più al lavoro di un pittore che a quello di un cineasta. Ci si domanda se sia ancora possibile definire documentario questa forma filmica pensata come un collage, elettrizzante per la densità di visione storica e di memoria (anche dello spettatore), che si libera in ogni sequenza. Tutto il film sembra ruotare su un’idea di inventario, di archivio ri-modulato – per questo si pensa alla ricerca di Michel Foucault, come presupposto analogo -, e se la Storia – ambito della formazione del regista – è sempre stata la materia privilegiata trattata nella sua filmografia (Moloch, Taurus, The Sun, Alexandra, ecc), e se un’esplorazione sistematica degli archivi aveva già reso possibile un film stupefacente come Fairy Tale (2022), qui, Sokurov va perfino oltre, costruendo uno spazio temporale e mentale dove situare questo castello-palinsesto poetico e politico che è il film, affollandolo di visioni che si accavallano, si moltiplicano e si dissolvono, entrando e uscendo dalla Storia e dalle singole storie, lasciando apparire anche un versante letterario/romanzesco nel confronto tra due tipi di scrittura: le scritte in sovrimpressione degli eventi in URSS e nel resto del mondo – i dati “oggettivi” di realtà -, e la scrittura più intima e personale, le “whispering pages” del diario del regista.
Nelle immagini documentarie a ricorrere è il lavoro, le fabbriche con i macchinari, la potenza della produzione sovietica, le feste di fine e inizio anno filmate negli interni o nel paesaggio innevato, dove ciò su cui è importante fermarsi sono i volti delle persone, fissati nella flagranza degli istanti delle riprese, insieme alle canzoni, prelevate dai film, che riportano all’atmosfera malinconica dei musical del disgelo, più ancora delle note dell’Internazionale, meno ricorrenti.
Ci sono molti altri fili che ritornano nel film, a formare la trama di questo arazzo gigantesco, che rende conto delle uscite dei film: Bergman, Kurosawa, Fellini, ecc., dei libri, Nabokov, Solženicyn, Pasternak ecc,, dei premi conferiti agli scienziati e delle avventure nello spazio, mentre ciò che appare dietro questa costellazione di immagini, date, eventi, è il volto in divenire dell’Unione Sovietica, con i suoi progressivi cambiamenti, con la Storia che, per mezzo della pratica personale e collettiva dell’archivio – come insegna Walter Benjamin – viene passata a contropelo, all’interno di un film estremamente denso per la stratificazione archeologica che lo costituisce. Forse Director’s Diary oltre a essere una macchina per vedere in profondità si potrebbe anche leggere come un atto di amore (fortemente critico) per il proprio paese e soprattutto per Leningrado, la città dove Sokurov vive, che viene filmata – incredibilmente – anche durante i 15 minuti di intervallo tra la prima e la seconda parte del film, in una panoramica circolare vertiginosa, che ha la gentilezza di un abbraccio.
Tuttavia, nel film, tra le segnalazioni ricorrenti degli incidenti aerei, e gli aggiornamenti altrettanto precisi delle ricerche sul nucleare, le sorprese più inaspettate provengono proprio dal diario, dove si legge “Tintoretto, il primo regista”, o ci si riferisce a Freud per definire “ la politica come qualcosa che proviene dall’inconscio”. Pittura e psicoanalisi sono in un certo senso i mondi segreti che muovono il film, spiegando (e dispiegando) la sua struttura quasi di macchina scenica, e influenzando anche le distorsioni operate sulle immagini che iniziano verso la metà del film, con l’uso straniante dei filtri o gli interventi grafici che possono portare dentro le immagini in b/n il lembo di una bandiera rossa o far brillare una stella sovietica a occupare tutto lo schermo, ricordando allo spettatore che il cinema continua a essere un’arte umana e radicalmente impura, che vive della metamorfosi delle forme e muta la propria pelle “a rischio del reale”: arte figurativa per eccellenza in questo insieme di corpo-soggetto-parola-storia-identità.[2]

Un lavoro di ricerca tormentato, sottile, condotto in gran parte grazie alla ricerca negli archivi (Rai, e non solo), sostiene anche Un film fatto per Bene di Franco Maresco, film più dis-fatto che fatto di materiali prelevati dalla sua filmografia e lasciati precipitare in una irrefrenabile doppia deriva, dei set e dei corpi, che si apre nel segno dell’assenza del suo autore, Franco Maresco, sparito durante la lavorazione del film. Del regista, introvabile dagli amici e dai collaboratori e motore invisibile di una ricerca spasmodica, si trovano solo tracce inquietanti, a cominciare dalla sua abitazione, con le pareti follemente istoriate da numeri e scritte, segni patologici della sua ossessione depressiva, che si riverberano nelle visioni di una Palermo notturna, periferica e abbandonata. Una città/set a cielo aperto in cui fatalmente si incastra il naufragio del film, insieme con il naufragio a catena dei set, scena dopo scena, mentre il filo narrativo scorre continuamente spezzato tra canzoni accennate dal teatro di Brecht, e il fluire potente del ritmo jazz – che Maresco conosce in profondità –, che incalza con le note un sarcasmo dilagante, corrosivo e senza redenzione, “bile nera” del film.
Georges Bataille da un lato – de-pensare è il consiglio che Maresco dà ai suoi non-attori prima di girare – Carmelo Bene, dall’altro, come santi protettori blasfemi di un’istanza sacra che malgrado tutto è intima parte del film, il cui progetto iniziale prendeva le mosse da una ricerca di Carmelo Bene su Giuseppe Desa da Copertino, il santo che vola, su cui aveva scritto negli anni ’70 una sceneggiatura: “A boccaperta”. Maresco tenta di riprendere il progetto di Carmelo Bene sul santo che vola, ma dopo poche settimane di lavorazione il film si arena; ne vengono mostrate alcune sequenze girate in pellicola, agli amici, durante la ricerca del regista, in cui il frate Giuseppe da Copertino è interpretato da Bernardo Greco, che durante le riprese inaugura, con una caduta improvvisa dalla gru, la serie degli incidenti sul set, mandando in crisi il film, il regista e la troupe. Questo lungo rosario di set incidentati (l’ultimo dei quali egemonizzato da un sublime Francesco Puma, maschera di sé stesso) funzionano in quel labirinto di specchi che è il film sia come sintomi diffusi di un disagio mentale, che comunque incombe come tema e come orizzonte, sia come sarcastica segnaletica slapstick. Nel film risuonano vaghi echi lontani provenienti da altri regni perduti, dove si arriva perfino a immaginare le ombre di Welles, di Fellini e dei set dei loro film, fantasmatici e sempre a rischio di catastrofe, che si proiettano sulla sparizione di un regista che si può far coincidere con l’eclisse dell’autore, dove tutto sembra falso, mentre è tutto tremendamente vero, difficile, doloroso, come è evidente nel montaggio che ripercorre la filmografia di dura ricerca antropologica di Maresco, prima in collaborazione con Daniele Ciprì, e poi da solo, censura e accuse di blasfemia per Totò che visse due volte, incluse. Dentro questo lavoro molto pensato di stratificazione e di intarsio delle immagini di archivio, con le schegge di Cinico Tv, delle sequenze di suoi film precedenti con le visioni allucinate di Palermo, città amata e odiata, dei servizi dei telegiornali con i commenti inorriditi della borghesia davanti a questo genere di cinema extra-ordinario, irricevibile, si fa strada una sequenza ipnotica, che presta le sue immagini alle parole di una lettera che, in un punto del film, Maresco manda all’amico di sempre Umberto Cantone, per spiegare la sua scomparsa. Si tratta di un traveling laterale che pare non finire mai, girato a S. Maria dei Rotoli, uno dei cimiteri di Palermo, con i loculi passati in rassegna in piano sequenza e lo spazio che intorno si fa curvo, mentre in off la voce di Maresco parla di questo mondo di merda e dell’insensatezza di continuare a fare dei film, quando “oggi nell’epoca dell’onnipotenza tecnologica più niente rimane, niente conta, niente ha senso”. Di fronte alla violenza di parole e di visioni difficili da dimenticare per il senso autentico di disperazione che si portano dentro, bisogna ricordare che le immagini usate appartengono un corto, intitolato, appunto, “Ai Rotoli”, e realizzato da Franco Maresco nel 2000 per Cinico Tv insieme a Daniele Ciprì, in cui la voce off di allora era quella di Carmelo Bene che leggeva un brano tratto da Signorina Rosina di Antonio Pizzuto. Forse, si può così cominciare a vedere meglio la linea nera del disfacimento che, anche, o soprattutto, prende corpo attraverso il riso, e tiene insieme il film, distruggendolo, via Bene, via Celine, via Bataille, ma anche attraverso le presenze di altri ultracorpi che lo invadono, Antonio Rezza, Francesco Puma, insieme a tutti quelli di Cinico TV, e a Franco Maresco stesso, artefice e distruttore, di un film che lo oltrepassa, confermandone la natura aliena, e (s)terminando nel bleu du ciel…

Degli altri film che alla 82° Mostra di Venezia avevano uno stretto rapporto con l’uso dei materiali di archivio, al punto da farsene occupare quasi interamente, (penso per esempio a Remake di Ross McElwee, a Toni, mio padre di Anna Negri, al terzo capitolo di I diari di Angela, di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian), il dato comune che li lega è il fatto che si tratti di film, tutti, profondamente attraversati dalla morte e dall’intreccio della morte con le immagini d’archivio. In questi film emerge un aspetto duplice dell’archivio, che mentre si afferma come presidio della memoria e, insieme, resistenza contro la morte, trasforma ogni film, nel confronto con la perdita delle persone amate (è il caso di Remake, di Toni, mio padre, di I diari di Angela) l’ultimo spazio immaginario possibile per continuare a incontrare chi non c’è più. Ross McElwee, che ha filmato il figlio Adrian quasi quotidianamente nell’infanzia e dopo, fino alla morte prematura per overdose di fentanyl, sente che tutto il suo lavoro di filmmaker, insieme ai suoi film, è non solo segnato, ma completamente stravolto e risignificato dalla morte di Adrian. Nella visione, questo strappo violento della perdita che percorre e re-indirizza il film, viene anticipato in una sequenza precedente alla morte del figlio, quando l’uso della macchina da presa, passa dalle mani del padre a quelle di Adrian, che poco tempo prima della sua morte, si è trasferito in Colorado dove filma in soggettiva una sua discesa spericolata nella neve con gli sci. Adrian rifà con la macchina da presa quello che ha sempre fatto suo padre: “remake”. Ricambiare lo sguardo a chi lo ha sempre guardato e filmare a sua volta chi lo ha sempre filmato. Le immagini di Adrian, che, anche dopo la sua morte, vengono rimontate insieme a quelle del padre, da suo padre. In Remake si ammassano così come macerie, non solo i pezzi e i frammenti dei film precedenti di Ross McElwee, dove Adrian bambino parla e sorride, o più adulto accompagna il padre nei festival, ma anche uno sguardo diverso, posato sul mondo, e un dolore sommesso che accompagna la visione come rumore di fondo, e scende lentamente sulle immagini come neve che cade.
Materiali d’archivio, usati e articolati nel segno di un personale che è sempre politico, entrano anche nel film di Anna Negri, così come entrano le macerie, che siano i cocci rotti di una rivoluzione sperata e perduta dai suoi genitori di cui la figlia rimprovera al padre di averle lasciato, appunto, solo i frantumi da ricomporre, siano le immagini lontane del matrimonio di Toni con Paola Meo, come lui militante di Potere Operaio, che sorride, bellissima, per poi, in altri punti del film, ritornare come presenza intermittente, malinconica, anche lei in vita, ormai, soltanto nelle immagini che servono ad accompagnare il dialogo al centro del film, conflittuale e pieno d’affetto, continuamente interrotto e ripreso, che avvicina e divide un padre eccezionale e difficile e sua figlia a Venezia, eppure li riunisce per qualche momento davanti alla lapide di Paola uniti nel silenzio.

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi nella loro vita in comune di cineasti non hanno fatto altro se non procedere con un’idea di lavoro fondato sugli archivi, che avevano interpretato in modo del tutto personale: non era pittura, non era cinema – non soltanto – non era indagine sulla Storia, ma un incontro profondo di tutti questi campi di ricerca, sempre, a partire dagli anni ’70, condotto nel segno della sperimentazione. Nel terzo capitolo di I diari di Angela, di diverso rispetto ai due film precedenti c’è la malattia di Angela, che da un certo punto in poi prende tutto lo spazio e il tempo del film, che registra l’avvicinarsi progressivo alla morte, tra appuntamenti medici, ospedale, terapie, speranza e disillusione, parole e silenzi, inconsueto da vedere, e sempre contrappuntato quasi musicalmente dalle immagini dei disegni sul diario che fissano, muovono e trasformano ogni cosa, con la voce interna-esterna di Lucrezia Lerro che accompagna da vicino e da lontano con partecipazione e pietas la fine del viaggio.

E poi al Festival è arrivato The voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania con il suo carico controverso di emozioni e di contraddizioni. Personalmente mi sono sentita lontana sia dalle critiche pesanti mosse al film – film manipolatorio, non è accettabile mescolare del “reale”– la voce di una bambina uccisa – con una messa in scena di attori, ecc…-, sia dalle adesioni incondizionate. Che la regista abbia osato con questo film qualcosa di mai visto prima, è un dato di fatto, anche se le sue dichiarazioni, il lungo lavoro di preparazione e di relazione, con la madre della piccola, in primo luogo, e con gli operatori della Mezza Luna Rossa coinvolti, la sua scelta di mantenerne la voce reale perché “usarne un’altra sarebbe stato un tradimento”, come ha ripetuto in molte interviste, non si accordano molto con l’approccio cinico e manipolatorio che alcune critiche le hanno attribuito.
Ciò che in The voice of Hind Rajab mi è sembrato l’elemento più importante è dato per me soprattutto dall’eccezionalità di questa bambina, dalla lucidità impressionante, dimostrata da una piccola di neppure 6 anni, che in ogni momento comprende ogni cosa. E’ questa consapevolezza tremenda di una morte imminente provata da una bambina a costituire per me la vera insostenibilità del film, arrivato al Festival alla fine di un’estate tremenda e angosciante per le macerie di Gaza e per il genocidio ancora in atto. Kaouther Ben Hania con un gesto sicuramente arrischiato eppure mosso da pietas ha portato la voce di una bambina che amava il mare fuori dalle rovine, davanti al mondo, per farla ascoltare. Ne continueremo a discutere…

[1] G. Deleuze, Foucault, Cronopio Napoli 2002.
[2] Cfr. Jean-Louis Comolli, Vedere e potere, donzelli editore, Roma 2006.
